DAL SASSO ANDREA, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, Mimesis edizioni

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Uno spaccato sulla storia della filosofia italiana del Novecento, interpretata alla luce del significato ontologico della creatio ex nihilo nel dibattito tra attualismo, problematicismo e metafisica, con il proposito di introdurre il lettore al pensiero di Emanuele Severino, mediante l’analisi delle sue origini e delle maggiori influenze (Gentile, Bontadini). L’analisi storica è affiancata all’intento teoretico di problematizzare l’inizio del filosofare severiniano, allo scopo di esplicitare le condizioni di possibilità per un ripensamento radicale del significato della prassi e dell’etica al di fuori di una comprensione nichilistica del divenire.

Andrea Dal Sasso (Feltre 1982) è dottore di ricerca in Filosofia. Nel 2009-2010 è stato borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli. È autore del volume Dal divenire all’oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino (Roma 2009) e di vari articoli su riviste internazionali. I suoi interessi sono rivolti alla filosofia italiana del Novecento nelle sue relazioni con la filosofia europea, con particolare riferimento all’ontologia e alla metafisica.

Sorgente: Creatio ex nihilo

Francesco Cardone, NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO, Tesi di laurea in Sociologia dell’arte e della letteratura. Relatore: Prof. Stefano Benassi, Anno Accademico 2003-2004

Francesco Cardone, NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI  EMANUELE SEVERINO.

Tesi di laurea in Sociologia dell’arte e della letteratura.

Relatore: Prof. Stefano Benassi

Anno Accademico 2003-2004.

INDICE
Introduzione………………………………………………………………………………..2
I. IL SENTIERO DELLA NOTTE…………………………………………………….8

 

1.1) Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il sentiero della notte…….10

 

1.2) Téchne, il culmine del nichilismo…….………………………………………………21
1.3) Nichilismo, téchne e poíesis…………….…………………………………………….33

 

1.4) Il linguaggio, il mortale e l’agire della tecnica…………………….……………….64

 

II. IL SENTIERO DELLA NOTTE NELLA POESIA……………………………74

 

2.1) Eschilo e Leopardi: origine e compimento dell’Occidente……….…………………75

 

2.2) Tragedia ed epistéme (Eschilo)……………….……………………………………..80

 

2.3) Hýbris e Dike………….………………………………………………………………95
2.4) Prometeo: la téchne come phármakon………….…………………………………112
2.5) Divenire, nulla, illusione e poesia in Leopardi………….…………………………118
2.6) La ginestra: nulla, tecnica e poesia………….……………………………………..134
III. IL SENTIERO DEL GIORNO NELL’ARTE…………………………………158

 

3.1) L’epistéme: l’identità dell’essere eterno……………………………………….….159
3.2) Il sentiero del giorno: l’apparire dell’eterno………….…………………………..188
3.3) L’epistéme dell’arte: l’identità dell’opera d’arte………………….………………208
3.4) Il sentiero del giorno dell’arte: l’eterno apparire dell’opera d’arte…….………221
Bibliografia………………………………………………………………………………249

tutta la tesi: vai a questo link

http://www.filosofico.net/nichilsevcardonefranc.htm

Niente

Niente

[nièn-te]

SIGN Nulla, nessuna cosa; di poco conto

forse dal latino [ne inde] ‘non di questo’; più probabilmente, da [nec entem] ‘nemmeno una cosa’.

Pare che non ci sia… niente da dire su questa parola, ma non è così.

Certo il suo uso è molto comune, vivissimo in una gran quantità di locuzioni che non necessitano di spiegazioni, e il suo significato è più che cristallino. Ma sulla sua etimologia circolano certe versioni affascinanti da ponderare bene. In rete – specie per influsso dell’antiquato e spesso inattendibile dizionario etimologico Ottorino Pianigiani, quello di etimo.it – si trova spesso riportato che niente deriva dal latino ne inde cioè ‘non di questo’, ‘altro da questo’. Una versione suggestiva, perché invita a pensare che ‘niente’ significhi originariamente non qualcosa di vuoto, ma qualcosa di ‘pieno d’altro’. Quindi, se ti domando «Che cosa c’è che non va?», se rispondi «Niente» non intendi dire che non c’è davvero nulla che non va, ma che c’è altro, di inconsiderato, o di inesprimibile. Una complicazione assurda, che non ha alcun riscontro con l’uso di questa parola – e infatti non è l’etimologia corretta.

Il niente è effettivamente il nulla: scaturisce dalla locuzione del latino medievale nec entem, cioè ‘nessuna cosa’. Ed è questo il significato con cui pervade la nostra lingua – con un’estensione verso ciò che è di poco conto. Nella stanza non c’è niente, il mio male è una cosa da niente, mi sorridi come niente fosse. In effetti pare perfettamente sovrapponibile a ‘nulla’, che anzi risulta più comune.

Vogliamo spingerci a dar forma a un’impressione di differenza fra il niente e il nulla? Il nulla, forse, è più vertiginoso, più vuoto. E lo è in virtù di un suono più spento e largo. Ma, appunto, è un’impressione.

Comunque, se vogliamo intendere ‘altro da questo’, non diciamo ‘niente’, ma cerchiamo di specificare che altro intendiamo, via. Giusto per semplificare.

Emanuele Severino IL BIVIO. , da “Fino all’ultimo pensiero” di P. Breccia e R. Guarini, 1982

L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi, Emanuele Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24

“Se la civiltà occidentale vuol essere coerente alla propria essenza, deve riconoscere che la propria filosofia è la filosofia di Leopardi. L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi. […] Raramente il pensiero occidentale si porta ad una trasparenza eguagliabile a quella che si manifesta attraverso il linguaggio di Leopardi. Si tratta della trasparenza del linguaggio che esprime ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle cose esistenti. Questa trasparenza estrema mostra la grandezza estrema del pensiero di Leopardi e, insieme, la fedeltà estrema di questo pensiero all’essenza dell’Occidente.”

[E. Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24]

Emanuele Severino, Perché non siamo figli del nulla, in Corriere della sera 9 aprile 2014

Perché non siamo figli del nulla

Il timore della morte ci accompagna. Ma ogni cosa viene da qualcosa Anche se non vogliamo riconoscerlo, noi, in fondo, siamo sempre scontenti di tutto ciò che siamo ed abbiamo ….

tutto l’articolo qui:

Perché non siamo figli del nulla.

Emanuele Severino sul libro: Biagio de Giovanni: Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, 2013

Biagio de Giovanni: Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, 2013

È Gentile il profeta della civiltà tecnica
Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna 
Emanuele Severino, Corriere, Lunedì 6 Gennaio, 2014
Giovanni Gentile fu assassinato perché era la voce più autorevole e convincente del fascismo. Eppure la sua filosofia è la negazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pensiero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gentile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attualismo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fondamento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfondimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore.
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: divenga . Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. Esser convinti dell’inesistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice.
La negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assolutismo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato).
Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contrasto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità assolutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno , ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazioni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è interessato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esistenza umana è, da ultimo, un contrasto insanabile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser salvato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vizio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura interpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. Soprattutto a me. Provo a rispondere ad una soltanto. In modo adeguato risponderò in altra sede.
Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richiamata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una proposta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «storicità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordinato.
E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il contesto in cui de Giovanni avanza queste domande-affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo cadavere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire.
Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» significa che se ne fa esperienza . Certo: si fa esperienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un andare nel nulla non crede (è impossibile che creda) che l’uomo vada nel nulla ma , insieme, continui ad essere un «fatto» che appartiene al contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro esser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia annientamento crede che — pur avendo avuto esperienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è diventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. 
Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza, e quindi mostri che esso è diventato niente . Di questa sorte l’esperienza non può che tacere. Cioè l’annientamento non può essere un «fatto». (E se il cadavere viene bruciato e, come si dice, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto , esce dall’esperienza — anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che esso, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo).
Ci si convince dunque che la morte è annientamento non sulla base dell’esperienza, ma sulla base di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano colpiti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimentarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impossibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostrazione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto.
Dunque , la sconcertante affermazione, al centro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eterno, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muore». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di attestare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. Anche quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati.
A questo punto de Giovanni deve mostrare perché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcertante affermazione ho indicato nei miei scritti. Attendo. Ma anche tutte le altre sue domande attendono la mia risposta.

Emanuele Severino su INTORNO AL SENSO DEL NULLA

I l senso del vuoto, della privazione, dell’assenza sta al centro della storia dell’uomo. Il significato radicale che il «nulla» ha assunto nel pensiero filosofico accompagna come un’ombra non solo questa forma di pensiero, ma l’intera storia dell’Occidente. È la radice dominante dell’angoscia dell’uomo occidentale (che ormai è l’uomo planetario). Non solo perché il nulla è il nulla, ma anche per il carattere ambiguo di tale radice. Già Platone si accorge che pensare il nulla e parlare del nulla è pensare qualcosa e parlare di qualcosa. Come se il nemico che si ha di fronte si sdoppiasse. E ci ingannasse sulla sua identità.Da gran tempo i miei scritti hanno affrontato questo evento spaesante: da La struttura originaria (1958) a La morte e la terra (2011). Appunto a queste due opere si ricollega Intorno al senso del nulla: da un lato mostrando come l’ambiguità del nulla sia ben più profonda di quanto possa sembrare, dall’altro approfondendo le condizioni che rendono possibile la via di uscita.

tutto l’articolo qui   Oltre l’ombra paurosa del Nulla dove le cose non finiscono mai.

Emanuele Severino: “credo di più e più spesso nelle cose in cui comunemente si crede, … ma … “, da INTORNO AL SENSO DEL NULLA, Adelphi, 2013, pag 210-211

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GLI ABITATORI DEL TEMPO, lezione del filosofo Emanuele Severino, al Teatro Sociale di Bergamo Alta, incontro organizzato e curato dalla associazione Noesis, 3 aprile 2012. AUDIO DELLA LEZIONE MAGISTRALE

martedì sera, 3 aprile 2012,  ho avuto il grande privilegio di essere a Bergamo, ad ascoltare la sapienza filosofica che si esprime attraverso EMANUELE SEVERINO.

Ci sono filosofi che rendono chiaro il sentiero della storia che abbiamo imparato a conoscere nella nostra evoluzione culturale e personale.

Emanuele Severino fa un’altra cosa: spalanca la vista su una strada completamente nuova e diversa

Paolo Ferrario

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3 aprile 2012, ore 20.00, al Teatro Sociale, Città Alta

Emanuele Severino

GLI ABITATORI DEL TEMPO

Le nostre vite sono le più lunghe della storia dell’umanità e, tuttavia, nella nostra società il tempo non basta mai. Il filosofo Emanuele Severino ci porta in un viaggio non nel tempo, ma nel valore del tempo per gli uomini.

In collaborazione con il XIX Corso di Filosofia, promosso dall’Associazione Culturale Noesis.

VERBA MANENT vuole essere un appuntamento fisso di alto livello culturale che non disdegna, nel suo intento di divulgazione la partecipazione di personaggi noti anche ad un pubblico più popolare. Il programma è suddiviso in slots e verrà aggiornato durante il corso dell’anno

  • Audio della lezione magistrale di Emanuele Severino:

PS l’audio è disturbato: ho dovuto tenerlo in una tasca e non avevo una buona posizione nel teatro.
Quella che segue è una prima bozza della schedatura ricavata dalla trascrizione della lezione.

il tema è: ABITATORI DEL TEMPO

sembra che ogni riflessione che non si riferisca ai problemi concreti in cui ci troviamo infastidisca.

Perchè viviamo dentro la crisi economica, la crisi demografica,  la crisi ecologica, la crisi nucleare

Sembra che di fronte alla pericolosità e incertezza del mondo sia un lusso parlare di Tempo

D’altra parte l’incertezza e il pericolo del mondo bisogna guardarli in faccia, perchè non capiti che, non sapendo dove ci si trova, succeda come a quel tizio che,  stando sulla barca  e non sapendo dove si trova, scende nell’acqua per fare quattro passi ed annega.

E’ essenziale sapere DOVE ci troviamo

Soprattutto è essenziale capire il SENSO dell’incertezza e del pericolo in cui l’uomo in quanto tale si trova.

Perchè il tema gli ABITATORI DEL TEMPO?

Si abita un luogo quando si è protetti da quel luogo e, insieme, lo si protegge e se ne ha cura.

Abitare un luogo, una casa è  esserne protetti e, insieme, averne cura.

E allora cosa vuol dire aver cura del tempo e essere protetti dal tempo?

Perché diciamo di “abitare il tempo”?

la risposta nella sua formulazione più semplice è che:  Abitiamo il tempo per poter vivere.

Andiamo con la mente ai primi passi dell’uomo. Andiamo all’uomo dal punto di vista ontogenetico

Portiamoci agli inizi dell’esser uomo.

L’uomo arcaico ( e dunque ognuno di noi da quando gli è dato essere uomo) vive in una situazione in cui deve smuovere l’ambiente in cui vive.

Di questo possiamo fare esperienza anche noi. Se ci troviamo in situazioni in cui non possiamo smuovere nè la nostra volontà, nè il contesto da cui siamo circondati non riusciamo a vivere.

Vivere significa smuovere ciò che dapprima si crede inflessibile.

L’uomo arcaico dapprima si trova in un ambiente in cui c’è una barriera davanti a lui e dentro di lui che lo irrigidisce nella sua immobilità. E se non vuol morire deve smuovere e flettere l’immobilità da cui è circondato

Vivere è: flettere il proprio ambiente

Dunque c’è una prima forma di terrore per la barriera

Si vive solo se si flettono le barriere.

Questa opera di frazionamento non è soltanto una cosa che possiamo pensare in astratto

Per esempio il pensiero mitico raccoglie un’ampia serie di racconti nei queli il mondo esiste solo se un dio è smembrato

Solo se un dio è smembrato, se c’è questo sacrificio del dio può cominciare ad esistere il mondo.

Lo smembramento del dio corrisponde a ciò che ho chiamato “flessione dell’inflessibile”

Si trovano queste tracce nei miti del Pacifico (la dea Inuele- ?-), del Medio Oriente (kiamat) , dell’Egitto (Osiride), della Grecia ( Dioniso), dell’India (Purusha, Prajapati). Tutti dei che con il loro smembramento rendono possibile la vita dell’uomo

Ma nella nostra cultura c’è l’esempio più significativo: il sacrificio di Cristo. E’ vero che quando Cristo muore il mondo c’è già, però il mondo con quel sacrificio rinasce. e viene rifondato.

La vicenda cristologica riconduce anche al momento originario vetero testamentario: quello in cui il serpente tenta Adamo

“eritis sicut dii”, sarete come dei, se mangerete il frutto proibito

Ma cosa vuol dire essere come dio? vuoldire occupare il suo posto.

Significa detronizzarlo, comunque spartire con lui un regno in cui lui prima era il padrone, il controllore.

Allora il “mangiare il frutto” ha un significato profondo. Se mangiando  il frutto che è stato proibito si è come dio e cioè si uccide dio, allora anche qui abbiamo l’esempio di un tentativo di smembramento che va per il momento a finir male, perchè dio lo punisce.

Ma poi il tentativo è ripreso dall’intervento di  Cristo il quale, per iniziativa divina, rende l’uomo dio.

Tutto questo per richiamare che c’è  un terrore iniziale per l’immobilità cui costringe la barriera che circonda l’uomo all’inizio della nostra storia. E per richiamare che c’è un terrore che scaturisce dalle conseguenze  di questa decisione che ci consente di vivere e di  sopravvivere.

Di nuovo: cosa c’entra l'”abitare il tempo”? Perchè abitare il tempo?

Abitiamo il tempo per vivere. Aristotele dice che il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi” (Aristotele, Fisica, D,10 e G,11). Il tempo è  impensabile senza il movimento, senza il divenire che è appunto quel sommovimento, quello smuovere per cui l’uomo comincia a vivere vive solo se flette l’inflessibile.

Abitatori del tempo perchè se non si abita il tempo, pensano gli umani, si muore di fronte alle barriere.

E questo è il primo terrore: il terrore di morire perchè non si è in grado di smuovere il luogo in cui ci si trova.

Vedere l’inflessibile significa vedere la forma originaria del dio.

Proviamo a pensare se ci trovassimo di fronte a un cristallo non scalfibile: non sarebbe possibile alcuna azione.

Allora noi possiamo agire solo se lo frantumiamo, lo smembriamo.

Lo smembramento è ciò che nella definizione aristotelica si chiama DIVENIRE

Il divenire è la forma astratta dell’indicare tutte le situazioni estremamente concrete.

Ma c’è un seconda forma di angoscia da cui è preso l’uomo quando smembra il dio.

La prima è l’angoscia per non poter respirare.

La seconda è che, operando lo smembramento,  si produce proprio quell’incertezza, qualla pericolosità che scaturisce dal divenire delle cose. Nascita, morte, insondabilità della nascita e della morte.

L’uomo per vivere smembra il dio, ma ottiene un ulteriore pericolo che è dato da ciò che egli con lo smembramento ha evocato:  il fluire delle cose, fino a quello che Nietsche chiama il Caos.

C’è una parola interessante con la quale il pensiero indica questa seconda angoscia, l’angoscia per l’imprevedibilità del fluire delle cose.

THAUMA

Ha una gamma di significati straordinari.

Tradotta male con “meraviglia”.

Il significato vero è:

Angosciato terrore del divenire del mondo

Volevamo arrivare qui.

C’è un primo terrore perchè non si riesce a respirare. E’ il terrore provocato dall’inflessibile.

Ma poi c’è il secondo terrore: l’incertezza per la pericolosità del mondo.

E si procede dal terrorizzante e si cerca UN RIMEDIO a ciò che terrorizza.

Il mito: mithos vuol dire “parola”,  “racconto” .

Il modo in cui i greci usano la parola mithos indica il racconto su come stanno le cose.

C’è la capacità del mito di indicare che di fronte al pericolo suscitato dallo smembramento si va alla ricerca di un rimedio che è indicato  dalla parola sacrificio. Che non è il sacrificio del dio, ma è il sacrificio che l’uomo fa in quanto si sente colpevole dello smembramento, della uccisione del padre.

Il tema centrale della angoscia per la vendetta dell’antenato ucciso.

Il concetto che si fa avanti con il sacrificio ha a che fare con la necessità che l’uomo sente di ricostituire le fonti iniziali di potenza che egli ha dovuto smembrare per vivere.

Smembramento

Vita

Colpa

Sentirsi in debito

Rafforzamento della fonte che si è dovuto spezzare per poter vivere.

Stiamo parlando dei modi in cui l’uomo, per vivere, abita il tempo.

Quando si parla di RIMEDIO si intende ciò che consente di sopportare la seconda forma di angoscia, cioè Thauma.

I rimedi nella storia dell’uomo sono raccoglibil in alcuni pochi tratti:

– il racconto mitico

– il Logos, la Ragione

– la Tecnica

La vita è pericolosa, è’ insopportabile, è tragica per il suo fluire, per il suo divenire, per la sua temporalità, per la imprevedibilità del divenire.

Il rimedio, cioè ciò che consente di sopravvivere al Thauma angoscia del divenire, a sopportare l’imprevedibile

Il cristiano autentico è, dopotutto, in pace con se stesso e con le cose: “siamo nelle mani di dio”. Essere nelle mani di dio significa, sentirsi nelle mani di dio, significa avere dinanzi già tutto raccolto , tutto il futuro. Perchè tutto il futuro fa parte del materiale che è nelle mani di dio.

Quindi il dolore, l’angoscia, il pericolo del mondo è reso sopportabile da questo sue essere avvolto dal senso in cui l’uomo è riuscito ad ALLEARSI CON LA POTENZA SUPREMA

Smembramento, colpa, sacrificio: il mito aggiunge la categoria della previsione, che rende sopportabile il dolore.

due modi di abitare il tempo

1 pre- ontologico: non conoscenza delle parole essere e nulla

Il divenire e il tempo conducono nel nulla

2 ontologico

tre forme di rimedio

apparato mitico: vanno e ritornano

ma con il nulla il rimedio comincia ad essere pensato in modo ontologico

si comincia a morire di fronte al nulla

apparato razionale

apparato della scienza e tecnologia

il relativismo è una concezione debole

andare nel sottosuolo

morte di dio: è morto ogni limite

si ripropone il tema dello smembramento di dio

troppo poco il mito

da cui l’alleanza con dio

eschilo

se l’uomo è deicida

il dio è originariamente omicida

giovanni 8/44

la radice dell’omicidio:

fare andare nel nulla

spingere nel nulla da dove non si può tornare

persuasione che le cose siano nulla

dio come satana

dio è il primo tecnico

demiurgo

ergon azione

crazione ex nihilo et subiecti

far uscire dal nulla le cose e la materia

dio pensa la nullità del mondo

pensa la nostra nullità e quella delle cose

poiesis

tecnica la forma più radicale di

se perpetua la scarsità delle merci e si serve della tecnica

… indefinito della potenza

Tecnica deve eliminare la scarsità può farlo finchè non c’è un limite

Il capitale deve aumentare la scarsità

Paradiso della tecnica

Viviamo un periodo intermedio

Quando prevarrà la tecnica

Verso un tempo di benessere

Più cresce la felicità più temiamo di perderla

Ma la tecnica dice che sono un sapere probabilistico e ipotetico

Felicità senza sicurezza

Manca la verità della felicità

Quello sarà il tempo

Le stelle

Un senso diverso

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Emanuele Severino, Ontologia: riflessione sul senso dell’essere e del niente

 

“Ontologia”, questo termine così tecnico, vuol dire riflessione sul senso dell’essere e del niente. Queste due parole, “essere” e “niente”, sembrano estranee al linguaggio nostro di tutti i giorni, ai nostri interessi, all’articolazione concreta del sapere scientifico; eppure queste due categorie costituiscono l’ambito all’interno del quale tutta la storia dell’Occidente è cresciuta, e si tratta anche di comprendere che queste categorie sorgono per la prima volta con i Greci. Questo è importante perché i Greci non solo portano alla luce una teoria, cioè una comprensione del mondo che non era mai apparsa, ma anche una comprensione del mondo che consente di porsi come la prima grande forma di rimedio contro il dolore. Quindi, secondo al mia opinione è errato insistere e considerare il pensiero greco, sin dalle sue origini, come una mera elaborazione teorica che non abbia il compito di prendere posizione rispetto a ciò che vi è di più angosciante nell’esistenza, e cioè il dolore. Io credo che la nostra riflessione potrebbe procedere cercando di vedere quali sono i rapporti tra le categorie dell’ontologia greca e il dolore dell’esistenza

da INTERVISTE FILOSOFICHE.

Emanuele Severino individua il tratto comune del pensiero occidentale: credere che le cose non siano eterne, che tutto provenga e ritorni al nulla