Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis (Mondadori).

Linea intera, linea spezzata di Milo De Angelis (Mondadori).

Mary B. Tolusso su Tuttolibri (La Stampa): «“Mi hanno sempre attratto in modo irresistibile gli scrittori del Contrasto. Forse ho amato solo quelli, da Empedocle a Lucrezio, Tasso, Leopardi, Pavese. Sono autori che non si limitano a rappresentare un ‘ossimoro’ – termine troppo tecnico –, ma vivono con se stessi e con il mondo uno scontro frontale, sanguinoso, assetato di vita”.  Milo De Angelis, uno dei maestri della poesia contemporanea, è sempre stato un autore concentrico, pochi temi ma potenti, che ritornano in un affresco di varianti e perfetti contrasti, l’adolescenza e il declino, l’eternità spezzata, l’infinito nel poco, gli istanti perpetui. In fondo le contraddizioni stesse sono una contraddizione: tragedia ma anche motore dell’umano. Tanto più in un poeta che ce le restituisce nella pienezza della ricerca di un senso. Quest’anno compirà settant’anni, un’età importante, quando alle spalle hai un’opera ma hai anche esperito quell’eccezionalità che ci rende unici, quegli istanti esclusivi che l’artista sa rendere collettivi; e De Angelis ha attraversato l’esistenza al servizio della poesia. […] Iniziamo dalla fine, dal suo ultimo libro, Linea intera, linea spezzata. Cosa significa? “È un’espressione presente nell’I Ching che mi ha subito colpito. Mi ha colpito questo modo semplicissimo e lampante di definire la vita umana. Una linea, una pura linea che prosegue fino all’attimo in cui si spezza e interrompe il suo cammino. E la sezione finale del libro è una passerella di creature che scelgono di recidere la linea della propria vita, raccontando gli ultimi istanti della mente e del respiro”. In giugno compirà settant’anni. Lei crede in un’età anagrafica? “Diciamo che stasera ci credo. Vedo che i foglietti del calendario appeso in cucina cadono per terra uno alla volta con un volo demoniaco, dettano le leggi di ogni vita e la rinchiudono in un segmento, la riducono alla verità matematica del suo inizio e della sua fine”. […] In quest’ultimo libro scrive: “la poesia non sta dalla nostra parte”. Dove, allora? “La poesia ci parla da un luogo sconosciuto e, ascoltandola, ci accorgiamo di non conoscere più nemmeno il nostro. D’altra parte sono fatte così le parole poetiche, non si lasciano osservare in santa pace, come diceva Karl Kraus: più noi le guardiamo da vicino, più loro ci guardano da lontano”».

Amore, eternità, errore, morte nella scena finale del film LA CORRISPONDENZA, di Giuseppe Tornatore, con Olga Kurylenko, Jeromy Irons, 2015 – Tracce e Sentieri

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Amore, eternità, errore, morte nella scena finale del film LA CORRISPONDENZA, di Giuseppe Tornatore, con Olga Kurylenko, Jeromy Irons, 2015 – Tracce e Sentieri

«Possiamo continuare a vedere le stelle morte benché esse non esistano più. Anzi è proprio la loro disastrosa fine a rivelarcele». Come la lunga corrispondenza che permette a una stella di continuare a vivere grazie allo sguardo dell’osservatore, l’amore di Ed e di Amy è un legame che sconvolge le leggi del tempo e della presenza.
Ed Phoerum è un astrofisico di fama internazionale di età matura, con una famiglia e due figli. Amy Ryan, una studentessa di fisica che si mantiene con un riuscito lavoro di stuntwoman. Da controfigura, lei imita la morte, e nel suo stesso passato c’è una tragica fine che non riesce ad accettare e a raccontare per il senso di colpa lacerante. I doveri pubblici e privati dello scienziato gli impediscono di vivere alla luce del sole la relazione con la giovane amante. I loro incontri sono rari e clandestini, vissuti soprattutto nell’intima magia di una casa su un’isola. Invece, la quotidianità fortissima del loro amore è retta da una serie di rapporti virtuali. Questa rete a poco a poco li invade, li prende del tutto e trascina il loro amore oltre le porte della realtà ordinaria.
Tra il mistero di una scomparsa inspiegabile che non rompe però i segnali della comunicazione e la domanda su quale tipo di sentimento sia quello che lega a una presenza solo virtuale, il primo romanzo di Giuseppe Tornatore racconta della lotta di un amore contro la sua fine nell’età di internet. Il libro esce contemporaneamente al film. Ma, scrive il regista nella Nota al volume: «Di solito è il secondo a nascere dal primo. Non in questo caso. Ciò che vi accingete a leggere è il romanzo La corrispondenza, tratto dall’omonimo film. Un’originale e formidabile opportunità per restituire alla parola scritta la supremazia usurpata dall’immagine. Una ragionevole occasione per riscattare tutto ciò che lo schermo cinematografico deve o preferisce sottintendere».

vai alla scheda del libro:

https://sellerio.it/it/catalogo/Corrispondenza/Tornatore/8612

PIEVANI Telmo, Finitudine. Un romanzo filosofico su fragilità e libertà, Raffaello Cortina, 2020

Lo scrittore Albert Camus non è morto nell’incidente del 4 gennaio 1960. Un suo grande amico, il genetista Jacques Monod, va a trovarlo in ospedale. Stanno scrivendo un libro insieme. Leggono le bozze, ricordano le avventure durante la Resistenza a Parigi. Nel segno del disincanto, prende forma una visione del mondo. La scienza ha svelato la finitudine di tutte le cose: dell’universo, della Terra, delle specie, di ognuno di noi. Come trovare un senso all’esistenza accettando la nostra finitezza? In un gioco raffinato di fatti e finzioni, Finitudine è la storia della vera amicizia tra due premi Nobel, un dialogo avvincente, un libro dentro un libro. Dopo il successo di Imperfezione, Telmo Pievani torna con un testo sorprendente che affronta con poesia un tema filosofico e scientifico che ci tocca tutti.

vai alla scheda dell’editore

http://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/telmo-pievani/finitudine-9788832852172-3383.html

vai a una recensione:

https://www.scienzainrete.it/articolo/rivoltiamoci-contro-finitudine/pietro-greco/2020-11-17

conversazione con Margherita sul libro: TASSINARI Simonetta, Instant filosofia. Il corso per capire in modo facile idee, concetti e personaggi, dagli esordi a oggi, Gribaudo editore, 2020

riporto qui una conversazione che si è presentificata su facebook, dove avevo rilanciato la scheda del libro:

mi scrive Margherita

Sembra interessante. Lo stile e l’approccio didattico è come nel precedente testo dell’autrice (Il filosofo che c’è in te), finalizzato a fornire della filosofia un’ immagine semplificata e, perché no?, un mezzo per capire il mondo e se stessi. È il manuale scolastico che tenta di rispondere alla tormentata domanda “A che serve la filosofia?” Il fatto è che la filosofia, a mio parere, non “serve”, nel senso che non dà risposte. La filosofia è ricerca, una corsa agli ostacoli che sono singoli traguardi che si susseguono l’uno dietro l’altro, un confine che si sposta ininterrottamente.

rispondo

grazie !!! hai del tutto ragione: le tue parole chiariscono benissimo i contenuti di questo libro. Io non ho, purtroppo , avuto una cultura filosofica. Da studente di un istituto tecnico (perito edile alla magistri cumacini) invidiavo miei amici del liceo classico. Ma ora con questo libro riesco davvero a capire cosa è la filosofia e come essa ci aiuta nel nostro vivere con occhi attenti dentro il nostro tempo. saluti cordialissimi e ancor GRAZIE !!!

risponde Margherita

Faccio fatica a non pensarti come filosofo. Tutto il tuo lavoro e il tuo impegno i “Coatesa sul Lario” , compresa la foto recente di Gin e Noirette al computer dicono il contrario. Tu ci offri una vasta gamma di ambiti di interesse – poesia, arte, musica, flora fauna, politica, foto …e tanto altro. E ci fai pensare, esprimere. Come Vincenzo Guarracino, ci offri spunti e opportunità di esprimerci. Filosofia è questo. Spinta a cercare senza sosta. Quando insegnavo al Giovio filosofia s storia ho scoperto che i miei studenti preferiti non erano quelli che ripetavono le mie parole e quelle dei testi, ma quelli che contestavano contenuti ed esprimevano punti di vista. Nulla da eccepire per la Tassinari, ma non credo che possa darti di più di quello che già possiedi in abbondanza. Dico questo perché lo penso per davvero. Ciao

rispondo

carissima: mi hai commosso. Davvero. E mi hai fatto capire che “filosofia” è anche uno sguardo su tanti aspetti del vivere. e trovo bellissimo sentirti dire che sono filosofia anche i nostri nuovi gatti Gin e Noirette (che vanno verso gli otto mesi). mi permetto di segnalarti un mio blog che ho chiamato “antologia del tempo che resta” https://antemp.com/ dove pubblicherò questa nostra per me importante conversazione (in forma del tutto anonima , a meno che tu mi autorizzi a citare il tuo nome) GRAZIE infinite

vai alla scheda del libro:

https://antemp.com/2020/11/09/tassinari-simonetta-instant-filosofia-il-corso-per-capire-in-modo-facile-idee-concetti-e-personaggi-dagli-esordi-a-oggi-gribaudo-editore-2020/

Noi assistiamo alla morte altrui, non ci è dato di assistere alla nostra! … , Emanuele Severino

Noi assistiamo alla morte altrui, non ci è dato di assistere alla nostra! Noi siamo eterni, non siamo un diventare altro. Siamo destinati a un ritorno. Noi siamo già da sempre oltre la vita, più che vita.” (Emanuele Severino, filosofo)

“Il dialogo con la natura rimane per l’artista una conditio sine qua non. L’artista è uomo, è lui stesso natura, parte di natura nell’area di natura”, Paul KLEE, in Hadot Pierre, ESERCIZI SPIRITUALI E FILOSOFIA ANTICA (1998), Einaudi, 2002

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vai all’indice del libro di Hadot:

https://antemp.com/2013/12/27/hadot-pierre-esercizi-spirituali-e-filosofia-antica-1998-einaudi-2002/

Concetto di limite: il gioco dell’esploratore – Smiling Math – Lez.9

via (654) Concetto di limite: il gioco dell’esploratore – Smiling Math – Lez.9 – YouTube

Interpretare il Covid-19 con le parole di Lucrezio e Leopardi: come la poesia può alleviare il peso dello spirito |

Dapprima avevano il capo in fiamme per il calore
e soffusi di un luccichìo rossastro ambedue gli occhi.
La gola, inoltre, nell’interno nera, sudava sangue,
e occluso dalle ulcere il passaggio della voce si serrava,
e l’interprete dell’animo, la lingua, stillava gocce di sangue,
infiacchita dal male, pesante al movimento, scabra al tatto.
Poi, quando attraverso la gola la forza della malattia
aveva invaso il petto ed era affluita fin dentro il cuore afflitto
dei malati, allora davvero vacillavano tutte le barriere della vita.
Il fiato che usciva dalla bocca spargeva un puzzo ributtante,
simile al fetore che mandano i putridi cadaveri abbandonati.
Poi le forze dell’animo intero ‹e› tutto il corpo
languivano, già sul limitare stesso della morte.
E agli intollerabili mali erano assidui compagni
un’ansiosa angoscia e un lamentarsi commisto con sospiri.
E un singhiozzo frequente, che spesso li costringeva notte e giorno
a contrarre assiduamente i nervi e le membra, li struggeva
aggiungendo travaglio a quello che già prima li aveva spossati.
Né avresti notato che per troppo ardore in alcuno
bruciasse alla superficie del corpo la parte più esterna,
ma questa piuttosto offriva alle mani un tiepido contatto,
e insieme tutto il corpo era rosso d’ulcere quasi impresse a fuoco,
come accade quando per le membra si diffonde il fuoco sacro.
Ma la parte più interna in quegli uomini ardeva fino alle ossa,
nello stomaco ardeva una fiamma, come dentro fornaci.
Sicché non c’era cosa, benché lieve e tenue, con cui potessi giovare
alle membra di alcuno, ma vento e frescura cercavano sempre.
Alcuni immergevano nei gelidi fiumi le membra ardenti
per la malattia, gettando dentro le onde il corpo nudo.
Molti caddero a capofitto nelle acque di pozzi profondi,
mentre accorrevano protendendo la bocca spalancata.
La sete che li riardeva inestinguibilmente e faceva immergere
i corpi, rendeva pari a poche gocce molta acqua.
E il male non dava requie: i corpi giacevano
stremati. La medicina balbettava in un muto sgomento,
mentre quelli tante volte rotavano gli occhi spalancati,
ardenti per la malattia, privi di sonno.
E molti altri segni di morte si manifestavano allora:
la mente sconvolta, immersa nella tristezza e nel timore,
le ciglia aggrondate, il viso stravolto e truce,
le orecchie, inoltre, tormentate e piene di ronzii,
il respiro frequente o grosso e tratto a lunghi intervalli,
e stille di sudore lustre lungo il madido collo,
sottili sputi minuti, cosparsi di color di croco
e salsi, a stento cavati attraverso le fauci da una rauca tosse.
Non cessavano, poi, di contrarsi i nervi nelle mani e di tremare
gli arti, e di montare su dai piedi a poco a poco il freddo.
Così, quando alfine si appressava il momento supremo,
erano affilate le narici, assottigliata e acuta la punta
del naso, incavati gli occhi, cave le tempie, gelida e dura
la pelle nel volto, cascante la bocca aperta; la fronte rimaneva tesa.
E non molto dopo le membra giacevano irrigidite dalla morte.

(Lucrezio, De rerum natura, VI, 1145-1196)

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Interpretare il Covid-19 con le parole di Lucrezio e Leopardi: come la poesia può alleviare il peso dello spirito |

La lucida visione del De rerum natura di LUCREZIO nel tempo del coronavirus – in Ritiri Filosofici

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Monica Guerritore: “Mi sveglio e piango, piango, piango …” In Corriere della Sera / La Lettura , 3 maggio 2020

letto in edizione cartacea

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PIGLIUCCI Massimo, Come essere stoici, Garzanti, 2017. Indice del libro

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RUBINELLI Renzo, Tempo e destino nel pensiero di E.M. Cioran – Aracne editrice, 2015

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Tempo e destino nel pensiero di E.M. Cioran – Aracne editrice – 9788854868908

Ci sono libri che serbiamo in noi lungo il corso degli anni, libri che ci abitano e che attendono serenamente il loro kairos, il momento opportuno per venire alla luce, sbocciando dalla pienezza interiore di colui che li ha custoditi e difesi dal passare del tempo. Renzo Rubinelli ha deciso di offrire al pubblico Tempo e Destino nel pensiero di Cioran. L’esegesi si sviluppa prefigurando un dialogo fra due polarità estreme: l’eternità di Emanuele Severino e il nichilismo di Cioran. Tuttavia, nella tentazione mistica del pensatore transilvano, sembra potersi scorgere una percezione emozionale dell’Essere accompagnata dal dubbio «che l’ultima parola non risiede forse nella Negazione». Il libro contiene non solo una visione teoretica dell’opera di Cioran, ma anche una prospettiva affettiva della sua famiglia parigina e rumena, come Renzo Rubinelli l’ha scoperta nelle sue visite a Parigi, Sibiu e Raşinari. I concetti chiave della filosofia di Cioran, “tempo” e “destino”, si schiudono sull’universo intimo dell’autore, che cercandoli nel pensiero dell’altro, li accoglie in sé, trasformandoli in affetti per esprimerli meglio, in un doppio linguaggio: filosofico e personale ad un tempo. Prima di esser pubblicato, un libro dev’essere vissuto: questo ci insegna con sensibilità, devozione e dedizione, Renzo Rubinelli

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ALTAN sul dominio della scienza (in tempi di coronavirus)

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Umberto ECO, La vertigine della LISTA, Bompiani editore, 2009. Indice del libro e 7 video

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VAI A 7 VIDEO SULLA VERTIGINE DELLA LISTA:

https://mappeser.com/2012/08/31/umberto-eco-la-vertigine-della-lista-lectio-magistralis-artelibro-2010-youtube/

KOVIELLO Domenico, prefazione di Nicola Abbagnano, Intorno alla filosofia della morte, Laura Rangoni editore, 1996. Indice del libro

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Quando Emanuele Severino disse: «Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia» – in Vita.it, 21/01/2020

”  Si teme la morte perché la si confonde con l’agonia, con la sofferenza che sono fenomeni della vita.

Ma dopo l’agonia che cosa c’è? Ecco dunque il problema della morte. La nostra cultura concepisce la morte come annientamento.

Ma è davvero così? O la morte, piuttosto, è un proseguire infinito oltre il dolore che caratterizza la nostra vita?

Quando mi chiedono se ho paura della morte o perché la guardo con serenità rispondo che l’Occidente crede che morire sia andare verso il nulla. Dobbiamo capire che questo che crediamo un andare nel nulla è, in verità, lo scomparire degli Eterni.

Quando la legna diventa cenere, crediamo si annienti la legna e nasca la cenere. Ma se sappiamo guardare a fondo, vediamo lo scomparire progressivo di singoli eventi (la legna che brucia, poi che brucia un po’ meno, la cenere che compare…): la morte ci appare nella forma dell’agonia, morire è il progressivo scomparire degli Eterni che escono dal cerchio dell’apparire.

Ma l’uomo è destinato alla Gioia.

Ecco il tema della Gioia. Gioia, il superamento di tutte le contraddizioni che attraversano la nostra vita.

Viviamo nella contraddizione, ma esiste un luogo in cui ogni contraddizione è oltrepassata? E noi, che cosa siamo, rispetto alla totalità di quel luogo? Quel luogo non è, forse, ciò che realmente siamo? La risposta è “sì, siamo quel luogo”.

Un luogo che chiamo Gioia. Gioia non è la felicità, che è sempre una volontà soddisfatta. La Gioia, invece, è infinitamente più alta. Non è volontà, ma eliminazione di ogni contraddizione.

Ecco perché avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia.

vai a  Quando Emanuele Severino disse: «Avvicinarsi alla morte è avvicinarsi alla Gioia» (21/01/2020) – Vita.it


ala radice delle parole: MEMORIA, da Guarracinismi tra antico e odierno | LimesLettere

Memoria – [Vc dotta, lat. memoria(m), dalla radice mens (“principio pensante, spirito, intelligenza”), memini (“mi ricordo, faccio menzione”), imparentata col greco μνήμη, dalla base semitica manu, “conoscere, sapere”]

– implica molte cose: non solo capacità di ricordare, ma anche di capire, di scoprire dentro di sé, di riconoscere negli eventi ciò che si teme o si desidera: qualcosa insomma che va oltre l’ambito strettamente personale per estendersi ad una durata, ad un sapere vitale che implica, oltre il calcolo puramente personale (manu, è molto vicino a mensura, “misura”), anche decisione, slancio, capacità di tradurre in azioni concrete ciò che abita il pensiero.

da Guarracinismi tra antico e odierno | LimesLettere

Emanuele Severino, Siamo re che si credono mendicanti, in Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Giovanni Reale, Aldo Schiavone, Emanuele Severino, Vito Mancuso, CHE COSA VUOL DIRE MORIRE, a cura di Daniela Monti, Einaudi, 2010, pagg. 135-164. Indice del libro

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VANNIER Leon, La tipologia omeopatica e le sue applicazioni. Prototipi e metatipi. I temperamenti, edizioni RED, Como, 1983. Indice del libro

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“La macchina tecnologicamente più efficiente che l’uomo abbia mai inventato è il LIBRO”, Northrop Frye

“La macchina tecnologicamente più efficiente che l’uomo abbia mai inventato è il LIBRO

Northrop Frye

citazione tratta da Guida tascabile per i maniaci dei libri, Edizioni Clichy

PARMENIDE, SULLA NATURA: traduzione e analisi filologica ed etimologica di Vincenzo Guarracino, 28 novembre 2019


Caro Paolo,
eccoti (te l’avevo promesso molto tempo fa) un mio piccolo contributo da filologo su Parmenide, del quale ti invio la traduzione e le note al Proemio.
Ti chiedo venia se non sono stato capace di inserire gli accenti corretti alle parole.
Con tutta la mia stima
Como,  28 novembre 2019

PARMENIDE   SULLA NATURA

Il titolo

Il poema, così come ci è stato tramandato, presenta il titolo concordemente accettato di Perì phýseos”Sulla natura”, conservatoci da Sesto Empirico (Contro i matematici, VII, 111), in armonia con una tradizione che si riscontrerà poi in Empedocle e in molti altri filosofi greci (Melisso, Alcmeone, Gorgia, Prodico) e successivamente in Lucrezio (De rerum natura), fino in epoca rinascimentale con Bernardino Telesio (De rerum natura iuxta propria principia, 1586).

Citato anche come Physikòn(Porfirio, L’antro delle Ninfe, 22) e Physiologhìa (Suida, alla voce; Plutarco, Contro Colote, 1114 b), il poema evidenzia subito, fin dal titolo, il suo stretto legame con il concetto centrale nella filosofia presocratica, la Phýsis, “natura”, intesa come unità ed essenza dei fenomeni, non solo nel senso di qualcosa di finito, ma anche di realtà vitale e creativa.

Va comunque precisato che in ambito neoplatonico (Proclo, Simplicio), interessato a una lettura degli Eleati in senso più metafisico, con tale titolo sembra indicarsi soprattutto la seconda parte del poema, concernente argomenti più propriamente legati alla fisica; tale notizia troverebbe conferma anche da come il poema è citato in Plutarco (Erotico, 13, 756 F), Kosmogonìa, discorso cioè essenzialmente sull’origine delle cose, salvo poi estendersi ad indicare tutta l’opera in quanto concernente il kósmos, ossia il mondo inteso “quale un tutto nel suo splendido ordine” (M.Untersteiner, 1967, p.26).

fr.1 Diels-Kranz

Cavalle, che conforme mi conducono al sentire,

mi portarono, dopo avermi avviato sull’armonica

via della Dea che guida il sapiente in ogni dove;

là ero condotto: nell’impeto del carro mi menavano

accorte le cavalle e il sentiero fanciulle mi additavano.

L’asse dei mozzi con gran strepito, fumando,

sibilava, nel vortice simmetrico dei cerchi,

allorquando le Eliadi sorelle si affrettavano

lasciando le dimore della Notte, denudandosi

il capo dei veli, per guidare il mio carro verso la luce.

Là è la porta ove fondono i sentieri Notte e Giorno:

un architrave e una soglia di pietra l’incorniciano

ed enormi l’occupano in tutta la sua luce due battenti;

per chiuderla ed aprirla è Dike a disporre delle chiavi.

Con parole suadenti a lei volgendosi, in un attimo,

la convinsero a togliere all’istante le fanciulle

per esse dalla porta il chiavistello: ed ecco

un vuoto infinito si spalanca, sollevatasi

la porta e facendo ruotare sopra i perni

gli assi enormi di bronzo, ben connessi di borchie;

d’un balzo quelle l’attraversano col cocchio.

C’era ad accoglierle la Dea, che benevola,

presa la mia destra nella sua, così mi disse:

O giovane, che assieme giungesti ad infallibili

cocchieri, portato da cavalle, alla mia casa,

ti saluto! Non fu certo una Moira perversa ad indurti

a questa via, lontana dai sentieri degli altri uomini,

ma Themi e Dike: perciò conviene che tu apprenda

tanto il cuore saldo della rotonda Verità, quanto

le opinioni dei mortali, vuote di credibile certezza.

In più anche questo apprenderai: che deve ammetterle reali le apparenze chi di tutto in ogni senso fa esperienza”

NOTE

Fr.1. Sesto, Contro i matematici, VII (vv.1-30); Simplicio, Commento al De caelo, 557,20 (vv.28-32)

Il fr.1, che costituisce il Proemio del poema, introduce ai motivi e temi dell’intera opera, presentandoli in una cornice di grandiosa solennità attraverso echi e suggestioni di diversa provenienza, dalla grande tradizione letteraria (Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo) alla religiosità orfico-pitagorica, in un complesso intrecciarsi di elementi simbolici ed espressivi, originalmente rifusi allo scopo di creare un’aura sacrale all’insieme e un’attesa quasi mistica nei confronti del “disvelamento” di un messaggio nuovo e ardito.

In esso viene descritto un “viaggio”, che porta attraverso un sentiero lontano da quello percorso dagli altri uomini a oltrepassare la Porta della conoscenza, al cospetto di una Dea dai molteplici aspetti e nomi. Questa, dopo averlo accolto con amabilità, offre al poeta-filosofo la chiave della verità, consistente nel saper distinguere e fondere in un unico sapere, vedendoli come aspetti strettamente e dialetticamente collegati, il discorso “vero”, scientifico, fondato sull’evidenza di rigorose dimostrazioni logico-matematiche, dal discorso fondato sulle sensazioni, esperienze ingannevoli perché legate al mondo “fisico”, le cui verità appartengono al dominio del probabile e del verosimile e perciò non posseggono un grado di rigorosa certezza.

Particolarmente dibattuta la questione se il suo contenuto debba intendersi in chiave allegorica, in senso letterale, o addirittura in chiave politica.

Nel primo caso, il mythologhèin, “parlare per miti”, costituirebbe essenzialmente una forma di abbellimento per imprimere forza e calore ad una complessa materia di carattere filosofico-scientifico. Tra i sostenitori di questa lettura, già tra gli antichi, c’è Sesto Empirico, medico e filosofo greco (180-220 d.C.), secondo il quale il proemio adombrerebbe l’itinerario della conoscenza filosofica: specificamente, le cavalle rappresentano gli impulsi e i desideri irrazionali dell’anima, la via è l’itinerario che la stessa anima compie con la guida della dea, ossia della ragione filosofica, le fanciulle che guidano le cavalle sono le sensazioni, i cerchi rappresentano le facoltà uditive, così come il passaggio verso la luce allude alle facoltà visive (Contro i matematici, VII, 112 segg.).

Nel secondo caso, invece, il poema rifletterebbe il contenuto di una genuina esperienza religiosa, che, adombrata nel motivo archetipico del “viaggio”, conduce l’uomo ad un autentico acquisto di sapere, ad una trasformazione della sua stessa natura per via di ”illuminazione”. Secondo i sostenitori di questa lettura, che a diverso grado annovera in epoca recente studiosi come Jaeger (1953), Mansfeld (1964) e Verdenius (1942), il proemio del poema sarebbe il racconto di una sorta di teofania, ossia di una visione e di una iniziazione mistica, vissuta come momento necessario e consapevole di fondazione della verità della dottrina ricevuta e trasmessa nel prosieguo dal poeta-filosofo, sulle base delle parole della Dea. In questo senso, l’adozione stessa del linguaggio della poesia epica, con i suoi metri e il suo armamentario di figure e immagini mitiche, risponderebbe a un’esigenza ben precisa, quella di fondarsi su una forma incontestabilmente veneranda e al tempo stesso allusiva allo sforzo della mente nel suo difficile ma esaltante “viaggio” di conquista del sapere.

Comunque sia, il frammento vale di per sé e non necessariamente abbisogna di un’indagine troppo puntuale per rivelare tutta la sua suggestiva forza poetica, a testimonianza della capacità di convogliare mýthos e lógos in una esperienza di linguaggio innovativa nello specchio della grande tradizione letteraria e religiosa in cui l’opera affonda le proprie radici.

Per quanto riguarda la terza lettura, infine, quella filosofico-politica, essa è stata avanzata dallo studioso Antonio Capizzi (1975), secondo il quale il poema sarebbe una riflessione sulle dinamiche politiche e sociali all’interno della città. Per restare specificamente al prologo, Parmenide descriverebbe un viaggio reale attraversando Elea lungo la via che congiungeva il porto fluviale nord alla Porta Marina passando attraverso la maestosa Porta (oggi detta “Rosa” dal suo scopritore, l’archeologo Mario Napoli) collocata sulla sommità del colle. Un punto importante di questa lettura, che trasforma in chiave metaforica situazioni ed elementi del testo (le Eliadi, ad esempio, sono per lo studioso nient’altro che i pioppi fiancheggianti, ieri come oggi, la strada), è la presenza della Dea, Dike, che “dispone delle chiavi”, dell’agibilità cioè del passaggio da una parte all’altra della città: questione dunque politica, che, chiamando in causa interessi molto concreti relativi alla gestione dei due porti, viene demandata a uno, come Parmenide, incaricato di convincere i concittadini “che era giusto riaprire la porta e l’arteria, ristabilendo i normali rapporti tra le parti della città e facendo dei molti una sola ” (cfr.Capizzi, 1975, p.41). La plausibilità di un siffatto discorso potrebbe trovare conferma dall’abbinamento della dea suddetta, Dike, con Themis (cfr.v.28), fatto che riflette la necessità dell’incontro di due concezioni contrastanti della Giustizia e dunque della società: la prima più dinamica e innovativa, fondata sul logos e la razionalità, espressione dei nuovi ceti mercantili; la seconda, più tradizionalista, legata al vecchio ordinamento sociale ed espressione della vecchia aristocrazia terriera.

1. : “cavalle”, m. e f.; l’animale, in virtù delle sue qualità fisiche (velocità, agilità, forza e fecondità), considerato dagli antichi un essere superiore a tutti gli altri e dotato addirittura di doti intellettive e spirito profetico, rappresenta una tensione verso l’assoluto, “l’aspetto cosmico della volontà” che mira alla conoscenza (cfr.Verdenius, 1942, p.11), intesa come forma stessa dell’esistenza, nel momento in cui volere divino (le cavalle) e “desiderio” umano si muovono in armonia. Per la preferenza accordata al femminile, cfr. più avanti, v.22 e nota. – : indicativo presente; più che un’azione specifica, indica la natura di definizione perifrastica contenuta nella relativa strettamente connessa con il soggetto . Da rilevare che il sintagma iniziale, con evidente carattere formulare, è ripreso da Iliade, 2,770 (: il sostantivo (lett. “desiderio”), che rimanda all’area semantica della “sentimentalità”, implica una potente spinta emozionale e al tempo stesso intellettuale nella consapevolezza della meta da conquistare, ossia “il cuore saldo della rotonda Verità” (v.29), in cui “sentimenti e intelligenza” trovano una sintesi perfetta (cfr.Casertano, 1978, p.41). In questi termini, il poeta-filosofo allude a un volere umano, che si muove in armonia con quello cosmico e divino (rappresentato dalle cavalle), trovando piena coincidenza sullo specifico terreno della conoscenza (cfr.Untersteiner, 1967, pp.LX-LXI), intesa come forma stessa dell’esistenza. Un particolare interessante da rilevare è l’assolutezza con cui qui è usato thymòs, senza cioè alcun aggettivo possessivo, lasciando intendere la reciprocità della sua attribuzione. – : da ”giungere”, ottativo presente 3^ sing.

2. da , “porto”, imperf. a. 3^pl., il passaggio dal presente del v.1 all’imperfetto denota il tempo di un racconto nello spazio durativo del suo svolgimento nel passato; da rilevare il carattere sacrale del verbo, che ricorre ancora più avanti nei vv.8 e 26 e fr.12,5, connesso sempre figure o funzioni del divino (cfr.Untersteiner, 1967, p.LXVIII, n.78). –: è la “via della conoscenza”, motivo essenziale e centrale del Poema (cfr. fr.2,2): implica un convinto coinvolgimento dell’uomo nell’atto in cui si accinge a percorrerla (“la parola meno religiosa, quella che più denuncia l’intervento umano”, cfr.Untersteiner, 1967, p.LXVI). L’attributo polýphemov, “che dice molte cose, ricca di canti”, connota l’oggetto come pertinente all’ambito di una poesia, che è connessa con la “sapienza”, come suggerisce il verso successivo.

3. : “della divinità”, inizialmente in senso generico e solo in seguito specificato (il sostantivo è infatti sia maschile che femminile), genitivo di possesso, intendendola come una “via divina, appartenente alla divinità”, in contrapposizione a una via umana; per altri, invece, come il Diels, si tratterebbe di un genitivo oggettivo, “verso la divinità”, nel senso che questa costituisce il fine del viaggio (cfr.Diels, 1897, pp.46-47). Il sostantivo è stato corretto da alcuni (Wilamowitz, 1931-32, p.367; Kranz, 1916, p.1161) in ”dee”, intese come “impulsi conoscitivi” (cfr.Albertelli, 1939, p.122).- : “per tutte le città”, intendendo che attraverso la via della Dea il saggio può metaforicamente attraversare tutti i campi del sapere; altri, invece, vi legge letteralmente un riferimento al fatto che Parmenide, itinerante alla maniera dei filosofi sofisti, avrebbe predicato le sue dottrine passando “di città in città” (cfr.Burnet, 1930, p.172, nota1); la lezione del Diels-Kranz è stata corretta in vari modi, tra i quali recentemente ”per tutte le cose che siano” (cfr.Cerri, 1997, pp. 57-63, e 1999, p.169), intendendole come le esperienze del mondo sensibile, quelle che sembrano essere (il congiuntivo potenziale-eventuale, esprime proprio questo concetto).- lett. “l’uomo che sa”, il “sapiente”, dominato da un’ansia di conoscere la verità che ha qualcosa di religioso e di mistico. In questo senso, appare quanto meno paradossale che ciò che costituisce l’obiettivo sia già posseduto dal filosofo, a meno di non intendere il sintagma nel senso di “iniziato” (cfr.Jaeger, 1953, p.331), di individuo cioè degno e preparato a ricevere l’insegnamento della dea, in virtù della sua disposizione al sapere (“In qualche modo noi siamo da sempre nella via, ma insieme essa si manifesta solo in quanto la sappiamo come tale”, cfr.Ruggiu, 1991, p.178), fatto questo che trova conferma nelle cosiddette lamine orfiche contenenti i precetti per l’anima nell’atto di affrontare il viaggio extramondano (cfr.Pugliese Carratelli, 1988, p.339).

4. : l’aggettivo (“capaci di molte parole e pensieri assennati”), non altrove attestato, contiene un’evidente allusione alle speciali doti intellettive delle “cavalle” (cfr. nota v.1). – : avverb. di luogo. – : per  da ”porto”, imperf.m. 1^sing. – imperf.a.3^ pl. (cfr.v.2 nota); da rilevare l’alternanza medio-attivo nello stesso verso, che rende il faticoso armonizzarsi tra attività divina e volere umano.

5. : il “carro”, motivo che si ritrova nella tradizione letteraria (da Omero a Pindaro) e che ritornerà nel Fedro di Platone, rappresenta, secondo M.Untersteiner (1967, p.LIV), “l’aiuto divino necessario per poter salire fino alla dea”, che richiede comunque da parte dell’uomo una totale e incondizionata adesione: simbolo di questa assoluta consonanza tra i due elementi, tra impulso divino e “desiderio”umano, è, assieme allo “strepito” e al sibilo dell’”asse dei mozzi” del carro, il “vortice simmetrico dei cerchi” che rende anche visivamente e sonoramente la grande tensione conoscitiva dell’esperienza del poeta. –: si tratta, come si preciserà più avanti (v.9), delle Eliadi, ossia delle mitiche “figlie del Sole”, dagli dei impietosi per il loro pianto per la morte del fratello Fetonte trasformate in pioppi e le loro lacrime in ambra, il mito delle quali, oltre che da Esiodo, fu trattato da Eschilo in una tragedia perduta omonima; qui simboleggiano l’illuminazione, la luce della conoscenza, in virtù della loro verginità (“forze della luce”, le definisce con bella immagine poetica il Frankel, 1955), e assolvono la funzione di far scoprire al poeta-filosofo il cammino, facendolo emergere dal suo stesso animo come un bisogno innato, perché possa giungere al cospetto della Dea.

11. : la “porta” (plurale nel testo, in quanto costituita da una coppia di elementi, i battenti), dove si incontrano i sentieri della Notte e del Giorno, allegoria della fusione tra reale e vero, tra concretezza e astrazione, tra mondo sensibile della temporalità dell’esperienza (dóxa) e dominio atemporale dell’Essere (alétheia), tra loro complementari e necessari.

13. : lett. “esse, alte fino al cielo, sono chiuse da grandi battenti”; l’aggettivo variamente interpretato (cfr.Untersteiner, 1967, p.LXXIV), qui ha una connotazione essenzialmente estensiva e quantitativa. – : forma non altrove attestata, da ”riempire”.

14. : propriamente “la Giustizia”, intesa come uno degli aspetti in cui si mostra la potenza della Dea (più avanti, nello stesso testo, sarà Moirav.21, Themisv.28, Aletheiav.29; in altri frammenti, Peithofr.2,4, Anankefr.8,30, Afroditefr.13), a significare la legge fisica che vincola gli elementi in un rapporto di equilibrio e di reciproca dipendenza, come si dirà esplicitamente nel fr.8,14-15. L’epiteto a lei qui attribuito di polýpoinos, “colei che molto punisce-ricompensa” (il sostantivo poiné, lat.poena, indicando proprio ciò con pregnante ambiguità), di derivazione orfica, elegge la divinità a figura antonomastica della Punizione-Ricompensa connessa con l’atto conoscitivo (“ella dunque ricompensa con l’aprire la porta e punisce col tenerla chiusa”, cfr.Casertano, 1978, p.44).

18. : lett. “un’apertura immensa, infinita”, indica il vano della porta in tutta la sua ampiezza, che si spalanca su una dimensione dove spazio e tempo si fondono annullandosi. – : da , “levarsi verso l’alto”, participio aoristo medio; il verbo suggerisce “un’immagine che parifica l’aprirsi dei battenti allo spalancarsi delle ali di un grande uccello; dunque ‘la porta, spalancate le ali, fece un vuoto infinito al posto dei battenti’” (cfr.Cerri, 1999, p.179).

21. : “d’un balzo”, avverbio, indica il procedere entusiasticamente rapido e diritto (una sorta di “raptus lirico che attinge il suo oggetto nell’immediatezza dell’intuito”, cfr.Stefanini, 1952, p.38), in opposizione all’ottuso errare dei mortali sulla via del non-essere (cfr. fr.6,5).

22. : “la Dea”, qui presentata con epiteto generico e onnicomprensivo che si riferisce al suo carattere di depositaria e “rivelatrice della verità in senso globale” (cfr.Reale, 1991, p.87), identificata da molti con Dike, dea della Giustizia; altri invece, la identifica, in stretta connessione con l’orfismo, con Mnemosyne, madre delle Muse e personificazione della memoria, fondamento della vita intellettuale (cfr.Pugliese Caratelli, 1988, pp.337-346), o, sulla base anche di non poche testimonianze archeologiche e letterarie, con Persefone (cfr.Cerri, 1999, pp.107-108; Kingsley, 1999, pp.93-100). Particolare importante in questa rappresentazione è comunque la sua natura, che qui, come nel resto del Poema, fa della femminilità un principio vitale assoluto e immutabile (in un processo che coinvolge figure divine e personificazioni allegoriche e perfino le “cavalle” del v.1, ad eccezione di Eros, fr.13), in cui è possibile vedere un riflesso dell’antica religiosità pre-ellenica, incentrata sul culto della Grande Madre, a differenza dalla successiva religiosità di tipo olimpico con dei dalle molteplici e contrastanti identità e qualità.

24. : “o giovane”. L’epiteto è stato variamente interpretato: come attestazione della giovane età del filosofo all’atto del “viaggio” e della rivelazione, o piuttosto in senso metaforico come allusione alla condizione del discepolo nei confronti della sua guida spirituale (ipotesi, questa, che sembra prevalente).

26. : “Destino”, inteso come Legge del Tutto; si tratta di un epiteto della Dea, che allude alla sorte dell’uomo come norma e necessità che vincola sia il destino individuale che l’Essere (“La rivelazione dell’Essere, che la Dea affida a Parmenide, esprime la stessa legge del reale”, cfr.Ruggiu, 1991, p.187); l’espressione  , “sorte malvagia, perversa”, indicando del Destino l’aspetto negativo, è sinonimo di “morte” e vuole dire che Parmenide, a differenza di tutti gli altri uomini che arrivano al cospetto della Dea soltanto dopo la morte, ha potuto godere da vivo di un privilegio mai prima toccato ad altri se non a figure di eroi straordinari (Orfeo, Odisseo, Eracle, Teseo) solo in virtù della sua sete di sapere.

27. : si tratta della “via” di una conoscenza che, come si dice subito dopo, si colloca “lontana dai sentieri degli altri uomini”, alludendo a una scelta responsabile in grado di indirizzare le decisioni del “sapiente”; particolarmente interessante da rilevare è il genere del sostantivo, femminile (come, del resto, femminili risultano tutti gli altri sostantivi esprimenti lo stesso concetto di “via” per indicarne il carattere positivo e “creativo”).

28. : “Legge, Ordine”, altro epiteto, che indica la sacralità della Norma fondata sulla tradizione, di contro a una concezione fondata sulla razionalità, sul logos; in coppia con Dike, con cui si fa garante della giustezza del “viaggio”, riassume dunque il significato più profondo della Dea, costituendone il “centro semantico-concettuale nel nome e nella funzione della Giustizia” (cfr.Ruggiu, 1991, p.188).

29. : “Verità”, personificazione della Dea (cfr. fr.2,4), incarna l’epistéme, un sapere cioè pienamente consapevole, cui l’uomo deve giungere attraverso la “via”, il metodo cioè di conoscenza di cui il Poema intende essere la “rivelazione”, giusta l’etimologia stessa del termine (a-létheia, “senza nascondimento”) che allude allo sforzo di “non occultare”, di svelare che cosa c’è sotto, portandolo allo scoperto e collocandolo in piena luce. L’idea della “rotondità”, propria dell’aggettivo eukyklésrinvia all’immagine della sfera, simbolo della perfezione dell’Essere e dunque anche della Verità (cfr. fr.8, 43); da rilevare il sintagma, di notevole pregnanza concettuale oltre che poetica, Alethéies étor”il cuore della Verità”, atremès (“immobile, saldo nello spazio”), per indicare l’essenza stessa dell’Essere, la parte più intima e profonda da ciò il Tutto acquista senso e consistenza.

28-32. : è sintetizzato in questi versi il “programma” del poema, che consiste nell’apprendimento di un “sapere” capace di far distinguere l’eidòs phòs, “l’uomo che sa”, dalla massa dei mortali: un sapere della Totalità, capace di coniugare la Verità dell’Essere, perfetta, senza contraddizioni o manchevolezze (“il cuore saldo della rotonda Verità”), con il campo delle esperienze umane (tà dokoúnta), il mondo cioè della del “sapere comune”, (“la verità dell’apparire”, fondata sui sensi, cfr.Ruggiu, 1991, p.200), per giungere insomma alla consapevolezza che “le cose che appaiono, i fenomeni, sono il suo manifestarsi nei suoi contenuti” (cfr.Reale, 1991, p.14).

30 – : propriamente “le cose che appaiono”, dunque le esperienze umane quali sono fornite dai sensi e alle quali i “mortali” concedono erroneamente credibilità senza vederle nella loro relazione con l’Essere; deriva da ciò la traduzione più comune del sintagma, ossia “le opinioni dei mortali”, ritenuta impropria dal Capizzi, secondo il quale “il termine in quest’epoca significa ‘apparenza’ e solo in età ellenistica assume il significato di “opinione” (cfr.Capizzi, 1972, p.41). – : lett. “vera certezza”, nel senso di una validità fondata su principi razionali, scientifici, che soltanto rendono “credibile” il discorso.

31-32. : il sintagma introduttivo dei due ultimi versi, che, riprendendo e ribadendo quanto appena enunciato (vv.28-30), proclamano il dovere del filosofo-scienziato, appare preferibile intenderlo con un valore riassuntivo-rafforzativo traducendolo con “in più, insomma”, invece che con quello concessivo-avversativo di “ma tuttavia”, con cui generalmente viene reso (cfr. anche Casertano, 1978, p.201). – : lett. “che è necessario ( che colui che penetra (ogni cosa in tutti i sensi stimi ’) che esistono ( le cose che appaiono( ”: si tratta di una proposizione dichiarativa il cui verbo reggente è , imperfetto, che indica una necessità non in senso cronologico ma ideale, seguito da una proposizione infinitiva (acc. con inf.) Il concetto risulta particolarmente controverso a causa della difficoltà di lettura di ’ (inf.aor.a. con elisione, letto avv., da Verdenius, 1942e (inteso come  sulla scorta della lezione di Simplicio): ove si accettassero le due varianti in questione (  il testo suonerebbe “che le cose che appaiono (tà dokoúnta) / è necessario che siano come appaiono (dokìmos), essendo (onta) tutte in ogni senso”, lettura questa che escluderebbe la presenza attiva di “colui che indaga”, contraddicendo a mio parere l’insistenza iniziale sulla necessaria cooperazione tra umano e divino (v.1 e nota). In ogni caso, comunque, va notata nella presenza del sintagma dià pantòs pánta il richiamo del katà pánt’áste, “in ogni dove”, del v.3, così da creare una caratteristica struttura “ad anello”, a suggello quasi del concetto espresso al v.29.

 

alle radici della parola DESTINO

de-stino: significa lo ‘stare innegabile’ dell’essere.

Il termine deve essere inteso in senso etimologico:

il de– non ha significato depotenziante ma potenziante (Severino richiama il caso del verbo latino ‘de-amo’ che significa “amare più intensamente”);

stino‘ deriva (come ‘epi-steme’) dal corrispondente verbo greco che significa ‘stare’.

Il de-stino è lo stare innegabile ed eterno che ‘sta e non cede’ (‘ne-cedo) alla propria negazione.

A offendere sono le OPINIONI, non i fatti in sè. Citazione 20 di: EPITTETO, Manuale, nella traduzione di Enrico V. Maltese e di Pierre Hadot

A offendere , ricordalo, non è chi insulta o percuote, ma il giudizio che queste azioni siano offensive.

Perciò, quando uno ti irrita, sappi che è la sua OPINIONE  che ti ha irritato.

Come prima cosa , quindi, cerca di non farti trascinare subito dalla rappresentazione: una volta che avrai guadagnato un po’ di tempo per riflettere, potrai dominarti più facilmente

citazione da

https://antemp.com/2019/11/03/epitteto-manuale-con-la-versione-latina-di-angelo-poliziano-e-la-volgarizzazione-di-giacomo-leopardi-a-cura-di-enrico-v-maltese-garzanti-2017/

opi giu had2355

citazione da

MANUALE DI EPITTETO, introduzione e commenti di Pierre Hadot (edizione francese del 2000), Einaudi, 2006. Indice del libro

 

 

Emanuele Severino, la morte e la Gloria della Gioia, video di Marco Pellegrino, luglio 2019

PARMENIDE alle origini della ONTOLOGIA

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IN La grande storia, L’antichità: Vicino Oriente, Grecia, Roma. Temi trasversali, Corriere della Sera 2011

Emanuele Severino: “dobbiamo definire cosa significhi essere felici … ” in articolo di Daniela Monti, in Sette Corriere.it, 7 giugno 2019

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da:

Incontro con Emanuele Severino, articolo di Daniela Monti, in Sette Corriere.it, 7 giugno 2019

BENASAYAG Miguel, Funzionare o esistere?, Vita e Pensiero editore, 2019

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alla radice delle parole: RICORDO

ricordo“, letteralmente, è il “ritorno al cuore

re, prefisso che designa il movimento all’indietro,

e cor, il “cuore”

In Marco Balzano, Le parole sono importanti, Einaudi , 2019, pag. 17

L’ epilogo della nostra vita è già da sempre tracciato, segnato, scolpito. È la nostra destinazione necessaria a cui nessuno può sfuggire. Non si sfugge al destino … Marco Pellegrino, 23 febbraio 2019

L’ epilogo della nostra vita è gia da sempre tracciato, segnato, scolpito. È la nostra destinazione necessaria a cui nessuno puo sfuggire. Non si sfugge al destino. Sarebbe uno sfuggire a se stessi. Ci si puo soltanto illudere di poter voltare le spalle al destino e quindi a quell epilogo. È gia scritto da sempre come e quando si dovrà giungere a compimento o destinazione, il nostro vero fine di questa nostra vita individuale. Eppure, l uomo vive per lo piu volendo, illudendosi, voltare le spalle a cio a cui non puo voltare le spalle. Questo significa che l uomo finge, nasconde, crede di poter mettere in un cassetto il segreto profondo della sua vita. Vive volendo allontanare cio a cui si sta necessariamente avvicinando. Ma l illudersi non è mai ignoranza assoluta, bensì relativa, parziale. Quindi l uomo in qualche modo conosce la sua vera destinazione, ma vive come se potesse per davvero, nell illusione, non guardare in faccia la vera realtà della sua vita. Volendo allungare la propria vita, anche all infinito, tuttavia sa nel suo abisso di coscienza che tutta la sua vita è gia da sempre allungata e vissuta fino a un certo punto gia da sempre segnato, quello della vera realizzazione della sua vita ovvero la conclusione finale del suo percorso. Quindi se un uomo vive la sua vita per lo piu volendo allungare cio che non puo allungare ossia ciò da cui non si puo allontanare poiché, invece, si avvicina sempre di piu a cio ( l’epilogo della sia vita) a cui nel profondo non si puo non affrontare e guardare in faccia, significa che giungerà a destinazione in modo meno sereno e piu spaesato, turbato, con forti attacchi di panico, rispetto invece a un uomo che, non nascondendosi dietro cortine o infingimenti di vario genere, vive la sua vita ponendo al centro dell attenzione non gia la volonta illudentesi di allungare l inallungabile, bensi lo scopo ultimo del suo percorso di vita e cioè affrontando e guardando il volto del compimento dal quale non si puo scappare, fuggire via.. E quindi arriverà piu preparato e meno timoroso-titubante di fronte al suo inevitabile epilogo. L invito, da parte mia, è quello allora di fermarvi non un attimo o qualche ora, bensi come minimo per qualche giorno riflettendo intorno a questa destinazione autentica a cui nessuno puo voltare per davvero le spalle ( neppure coloro che parlano improriamente di “immortalita cellulare” e quindi di “inmmortalita umana”). L epiologo effettivo della nostra vita individuale sopraggiunge al termine di un percorso che conduce da quell evento che vien detto “cadavere”, passando poi per un certo periodo di tempo, appunto, tra quell evento e la morte effettiva. Quando la conclusione effettiva si fa innanzi appare subito un unico evento in cui, in modo istantaneo-sincronico, appare l intero arco della vita appena morta. Dopo questo istante, prevale nella Luce (che tutti siamo sempre e in cui consiste l intero Organismo universale incarnato in tutte le sue possibili vite individual) un altro istante in cui viene anticipata l intera vita che si andrà a vivere dopo il ” passaggio” della morte.

LA VASCA, periodico studentesco, Como, n. 5, 1968. Direttore: Bruno Veronelli. Redattori: Lorenzo Arduini; Lorenzo Dominioni. Collaboratori: Carla Arduini; Walter Ballarini; Fausta Bicchierai; Maria Colombo; Roberto Corbella; Arialdo Dominioni; Carla Fusi; Raffaele A. Galasso; Fiorella Giannone; Viviana Girola; Grazia Italiano; Giacomo Manoukian; Renato Molteni; Bruno Recalcati; Raffaella Resini; Beatrice Sbardella; Alido Sepulcri

Giovanni Mainato: ” … sto battibeccando con l’Essere

Il Blog di GIOVANNI MAINATO

– Basta!

– Cosa vuoi da me?

– Che tu la smetta!

– Di fare cosa?

– Continui a dire che sei e che non è possibile che tu non sia.

– E allora?

– Sei noioso!

– Te la prendi sempre con me!

– Non è che me la prendo, è che la tua leggerezza è insostenibile!

– Cattivo!

– Sei o non sei? Questo è il problema.

– Fatti gli affari tuoi!

P.S. Signori, scusate, sono costernato per questa sceneggiata. Come vedete sto battibeccando con l’Essere.

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“La tecnica ucciderà la democrazia, a partire dagli Stati più deboli come l’Italia. Tale processo poi investirà anche Usa, Russia e Cina. Gli Stati Uniti a un certo punto prevarranno, ma non in quanto nazione, bensì come gestori primari della potenza tecnologica. Ora fatichiamo a comprenderlo, perché ci troviamo in un tempo intermedio”, in intervista di Pier Luigi Vercesi, Corriere della Sera 31 dicembre 2018

Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

«La radice è sempre la stessa, non è che vada a colpire in ordine sparso. La forma più rigorosa di follia oggi è la tecnica: viviamo il tempo del passaggio dalla tradizione a questo nuovo dio. La globalizzazione autentica non è quella economica, è quella tecnica. Commettiamo l’errore di credere che capitalismo e tecnica siano la stessa cosa: no, hanno scopi diversi. Il capitalismo ambisce all’incremento infinito del profitto privato, la tecnica all’incremento infinito della capacità di realizzare scopi, ovvero della potenza. La tecnica ucciderà la democrazia, a partire dagli Stati più deboli come l’Italia. Tale processo poi investirà anche Usa, Russia e Cina. Gli Stati Uniti a un certo punto prevarranno, ma non in quanto nazione, bensì come gestori primari della potenza tecnologica. Ora fatichiamo a comprenderlo, perché ci troviamo in un tempo intermedio. Siamo come il trapezista che ha lasciato un attrezzo (la tradizione) e non si è…

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perchè FARE MEMORIA? … perchè il RICORDARE E’ IMPORTANTE (Emanuele Severino)

Vasco Ursini, IL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO SI PONE COME IL LINGUAGGIO CHE TESTIMONIA IL “DESTINO DELLA VERITA’”. Citazione da La Gloria, Adelphi, Milano 2oo1, p. 22

Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

Severino nei suoi scritti usa spessissimo l’espressione  “destino della verità” e anche quella “verità del destino”. Sono espressioni che devono essere spiegate ad evitare equivoci interpretativi.

Severino non intende la parola “de-stino” nel suo significato usuale di corso delle cose considerato come predeterminato e indipendente dalla volontà dell’uomo, ma in quello etimologico di stare innegabile dell’essere.

Dunque il de-, per Severino, non ha un valore negativo ma affermativo e potenziante, e stino  significa stare. 

Quindi “destino” indica uno “stare che non cede”, uno “stare” che resiste ad ogni tentativo di abbatterlo e che quindi si pone come “destino della necessità”.

Questo “stare necessario del destino” indica dunque lo stare innegabile ed eterno dell’essere, cioè  l’impossibilità che l’essere non sia. Il fondamento di tale impossibilità sta nell’immediata autonegatività della sua negazione, la quale, nell’implicare la verità di ciò che esplicitamente tenta di negare, nega se stessa proprio…

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GIANFRANCO CORDI’ (docente di storia e filosofia), L’IMPERFETTIBILE. Ovvero: come salvarsi la vita!, novembre 2018

 

«Il capitano Achab non torna più dal viaggio contro l’impossibile» canta Roberto Vecchioni in Canzone per Sergio contenuta nell’album Samarcanda (Philips, 1977).

Mentre Attilio Meliadò, filosofo di Reggio Calabria, ha pubblicato nel 2001 un libro dal titolo Comunità dell’irreparabile. Saggio di metapolitica del Terzo (Franco Angeli).

Dal canto suo Maurizio Ferraris nel Manifesto del Nuovo Realismo (Laterza, 2012) introduce il concetto dell’inemendabile: ciò che non può essere cancellato.

Per Jacques Derrida (nel libro Marx & sons. Politica, spettralità, decostruzione, Mimesis, 2002) la giustizia rappresenta l’indecostruibile.

L’impossibile ovvero ciò che non può essere possibile, l’irreparabile, ciò che non può essere aggiustato, l’inemendabile, ovvero ciò che non può essere emendato e l’indecostruibile, ovvero ciò che non può essere decostruito sono tutte figure di un unico elemento (del discorso filosofico): l’imperfettibile. Ovvero: ciò che non può essere ulteriormente reso perfetto. Se la perfezione è un punto d’arrivo per l’impossibile, l’irreparabile, l’inemendabile e l’indecostruibile si ha allora che questa perfezione (totalità in sé organicamente sciolta in uno sguardo onnicomprensivo non ulteriormente trascendibile) è il punto d’arrivo del discorso al pari di una sentenza della Corte di Cassazione nella Giurisprudenza. Tribunale, Corte d’Appello e Corte di Cassazione (fatta salva la necessaria – ai fini della delucidazione del nostro discorso – eliminazione dell’eventuale ricorso alla Corte di Strasburgo) costituiscono, alla fine di questo iter, lo stabilirsi di una sentenza definitiva.

Perfetta e definitiva è la figura dell’imperfettibile perché da esso non si può prescindere per rendere ulteriormente perfetta e definitiva ogni altra figura. L’imperfettibile è perfetto perché è definitivo. In definitiva: vi è un punto oltre il quale non si può andare: sia esso impossibile, irreparabile, inemendabile o indecostruibile.

Questo limite – che è in fondo il noumeno kantiano, il quale per parte sua è impensabile – costituisce il segnavia di quella strada che fenomenologicamente porta dai fenomeni all’esperienza. Di quella strada che, attraverso l’esperienza (e quindi i cinque sensi) conduce alla metafisica e alla teoria. Ma con un limite: l’imperfettibile.

A cosa ci serve dunque questo imperfettibile? E che cos’è ciò che non può ulteriormente essere reso perfetto?

Prendiamo l’addizione 2+2. Se stabiliamo che il risultato di questa addizione è 3, l’imperfettibile ci dice che non è mai possibile aggiungere 1 per rendere perfetto il risultato di quella addizione. Non si può migliorare nulla. Nulla può essere reso in maniera meglio conforme di quello che è. Tutto è definitivo, al limite, impensabile e imperfettibile.

Cioè, facendo un altro esempio, se si prende la Cappella Sistina di Roma come il massimo dell’arte mondiale (solo per fare un esempio) allora si ha che il gesto pittorico di Michelangelo viene giudicato imperfettibile: non può essere migliorato.

Certo imperfetti siamo tutti ma imperfettibili siamo veramente (o sono veramente) in pochi. Non puoi aggiungere nemmeno una piuma perché quello che hai già di fronte è già perfetto. Oppure, il che è lo stesso, quello che hai di fronte è talmente imperfetto che non può essere raddrizzato o domato in alcun modo. Questa figura (o elemento) dell’imperfettibile arriva a stabilire – essendo definitivo – un punto di rottura col quotidiano, col transeunte, con l’ordinaria vita di tutti i giorni. La vita e la società, come si sa, sono fatte di tante cose non definitive e che spesse volte non hanno punti d’arrivo stabiliti una volta per tutte: si vive… ed è già abbastanza!

L’imperfettibile è dunque al di fuori di questo mondo? L’imperfettibile ci serve solo per fare della metafisica? L’imperfettibile è la realtà? No: esso non è la realtà. E’ il punto d’arrivo della realtà.

Se sono un fumatore e fumo sessanta sigarette al giorno probabilmente sarà imperfettibile il fatto che io possa rimanere vittima di un tumore ai polmoni. Come punto d’arrivo – passando per il calcolo delle probabilità. Ma cos’è il punto d’arrivo della realtà? Alla fine di un monte c’è sempre una valle. Alla fine del mare c’è la terra. Alla fine di un sogno c’è un risveglio.

L’imperfettibile è proprio alla fine del sogno – quando è ancora, però, lontana l’ora del risveglio. E’ la fine! Il concetto della fine! E la fine, come si sa, arriva per tutti… La fine – ogni volta unica, diceva Derrida, la fine del mondo (Jaka Book, 2005) – arriva sempre in un momento preciso.

C’è un film di Woody Allen del 1985 che si intitola La rosa purpurea del Cairo nel quale il protagonista – attore in un film che viene proiettato sullo schermo di un cinema – esce dallo schermo ed entra nella vita di tutti i giorni. Questa è la fine del cinema, il punto di arrivo dello strumento cinematografico. Ma naturalmente, senza entrare nel surrealismo, bisogna solo dire che la fine è un punto di non ritorno, un punto che non ammette transizione, un punto che non è possibile evadere. E così quel personaggio di quel film proiettato sullo schermo giunge alla fine della sua possibile esistenza cinematografica diventando una persona in carne e ossa. Ma questo suo diventare non fa più parte della realtà e tantomeno della sua realtà. E’ un salto oltre la fine che però rappresenta anche la fine del medium cinematografico: oltre quello il cinema non può andare. Da pellicola a persona; da immagini a cose e oggetti naturali della vita di ogni giorno; da immagini a carne e ossa.

Questa doppia fine (double bind, doppio legame, nel libro Speculare – su «Freud», Raffaello Cortina, 2000) fa si che alla fine l’imperfettibile si trovi nella morsa (nella forbice) di una doppia fine: fine della realtà come punto d’arrivo della stessa e fine delle possibilità irrealizzate della sur-realtà. All’interno di questo double bind: la realtà non c’entra più: c’è una fine che si realizza come fine di qualcosa ma non c’è ancora l’inizio di nulla. E’ la fine tout court. Un po’ come se si stesse parlando della morte. Solo che la morte non è l’imperfettibile perché può essere perfezionata da un po’ di vita.

L’imperfettibile invece metafisicamente è la fine perché prima di esso e dopo di esso non vi è nulla: solo un double bind col suo essere fine della fine e inizio di qualcosa. Alla fine del nostro discorso non c’è che la fine! Speculare sulla fine – come ha fatto Massimo Cacciari nel volume Della cosa ultima, Adelphi, 2004 – vuole dire innanzitutto speculare su un punto d’arrivo.

Una riflessione, quindi, che non si spalanca nella meraviglia-sconcerto di un inizio aurorale della filosofia ma che si dimena nelle secche di un attesa-paura della fine. Questo dal punto di vista delle emozioni che sono investite nella fine. Ma dal punto di vista strettamente metafisico? Speculare sulla fine, attraverso l’imperfettibile, ci porta a concludere che la perfezione non può essere ulteriormente migliorata. E che l’imperfezione, se è imperfettibile, non può essere ulteriormenete perfezionata. O imperfezionata! Insomma l’imperfezione è di questo mondo. La perfezione è la fine stessa: il punto d’arrivo. Ma molto meglio è rimanere un passo più in là della realtà nell’imperfezione!


https://www.facebook.com/gianfranco.cordi?ref=br_rs

 

 

COVIELLO DOMENICO, Intorno alla filosofia della morte, Edizioni Aracne, 2018, p. 344. Recensione di Paola Mascolo in La Provincia di Como, 7 novembre 2018

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Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i RICORDI … Alda Merini

“Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i ricordi dei momenti che hai vissuto e ti hanno fatto felice. La tua ricchezza non è chiusa in una cassaforte, ma nella tua mente. È nelle emozioni che hai provato dentro la tua anima.”

Alda Merini

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PHILIP BALL, L’invisibile. Il fascino pericoloso di quel che non si vede, Einaudi, 2016. Indice del libro

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MORO ANDREA, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, 2010. Indice del libro

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Ogni essere mortale cerca di sopravvivere a se stesso attraverso la generazione: questo è amore che cerca di non morire, di essere immortale, dal SIMPOSIO di Platone

Dal SIMPOSIO di Platone
Ogni essere mortale cerca di sopravvivere a se stesso attraverso la generazione:
questo è amore che cerca di non morire
di essere immortale.
C’è chi insegue l’immortalità
attraverso la procreazione dei fìgli
ma chi è fecondo nell’anima e non solo nel corpo cerca di generare cose dell’anima:
per questo desidera esseri belli nell’anima
e non solo nel corpo
e con loro genera crea
pensiero arte scienza poesia
e l’arte più grande l’arte del vivere comune
dell’umanità: la politica.
Questi sono i figli più belli e immortali!
Guardate i figli che ci hanno lasciato i poeti,
le creature di Omero di Esiodo!
e poetare non è solo fare poesia:
poetare è produrre creare
mettere al mondo creazioni di bellezza immortale. Gli esseri umani fanno tutto questo per non morire, cercano fama e gloria,
fanno pazzie per restare nell’eternità del tempo,
sono disposti anche a morire, gli uomini,
per non morire.
Tutto questo amici è Eros,
energia creatrice nel corpo e nell’anima.
E nessuno può essere erotico in qualcosa
se non è erotico tutto il suo essere.

EMANUELE SEVERINO, Dispute sulla verità e la morte, Rizzoli, 2018, p. 322

IL PENSATORE di AUGUST RODIN (1840-1917)

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Sul “cerchio dell’apparire”. Dove siamo? Chi siamo?. L’immagine della sfera di cristallo che contiene la casa , dal film Citizen Kane di Orson Welles

Vincenzo Guarracino, Un poeta della scienza: ALESSANDRO VOLTA, ottobre 2017

Un poeta della scienza

Alessandro Volta 

Poeta “lucreziano”, poeta cioè che celebra le conquiste del pensiero e della Scienza, in accordo con lo spirito dell’epoca, Alessandro Volta (Como, 1745 – 1827), uno dei più famosi fisici della storia, il cui nome è legato all’elettricità, la cui unità di misura, il volt (V), prende proprio da  il suo nome?

A giudicare da certe superstiti prove giovanili, sì. Versi composti all’età di poco meno di vent’anni, nel 1764, e pubblicati postumi e mai realmente apprezzati nella loro specificità, relegati come sono al ruolo di “presagi” di un genio precoce, rivelando comunque, fin dall’argomento trattato, il mondo dei fenomeni naturali che sarà il campo degli interessi e studi dell’età matura del giovane autore.

Si tratta di un poemetto didascalico in latino, comprendente 500 esametri di non spregevole fattura e dedicato all’esposizione delle recenti scoperte dell’”oro tonante”, della polvere pirica e dei fuochi fatui, in cui il giovane autore mette a frutto non solo un bagaglio letterario disinvoltamente padroneggiato ma anche precise competenze in materia, con la coscienza di chi sa di assolvere una missione di civiltà in nome della scienza, dispiegando il tutto nel linguaggio della poesia, in una interessante miscela di immaginazione e riflessione, a riprova di una curiositas nutrita in giusta dose di entusiasmo e ragione, non diversamente da un altro poemetto perduto, anch’esso in latino, Stagioni, composto addirittura di 800 versi, ricordato dal coetaneo e amico, il canonico Giulio Cesare Gattoni.

Pubblicata per la prima volta nel 1899 dal pronipote Zanino Volta, scopritore del manoscritto leopardiano Appressamento della morte, che ne fece anche una traduzione in versi sciolti, l’opera è apparsa ai suoi non molti studiosi per quel che è, e cioè poco più di una scolastica esercitazione, intrisa di entusiastica ammirazione per il trionfo di Sofia, la “Scienza”, a testimonianza di un faticoso processo di chiarificazione delle ragioni esistenziali e morali da parte di un giovane alla scoperta del suo futuro, che, pur senza rivelare “veri lampi di genio”, come onestamente rileverà più tardi lo storico Giuseppe Brambilla, dimostra la volontà di mettere a frutto i suoi studi in direzione di un mondo di interessi sicuramente poco da altri contemporanei frequentato.

Nel segno della poesia, che qui reclama il suo diritto a spaziare sublimiori, uberiorique campo, “liberamente in campo più sublime ed ubertoso”, si celebra, in verità, come nota Francesco Lo Moro, “il congedo della Musa”, l’abbandono delle illusioni poetiche adolescenziali, delle larve di gloria e degli allori del Parnaso arcadico di tanti oziosi contemporanei, per accingersi ai ben più seri impegni della ricerca scientifica: “Il culto della scienza, in quanto sentimento vissuto intimamente, diventa nell’intelletto pensiero coerente. D’ora in poi, la sintesi logica si fa sempre più forte. L’animo è caldo, ma la riflessione disperde il nucleo sentimentale. Nello stesso tempo, la potenzialità poetica, l’immaginazione, non si annullano, ma, subordinandosi, si apprestano a rendere alla scienza e allo scienziato insigni servigi”.

Che la poesia non sia poi scomparsa del tutto dall’orizzonte morale dello scienziato, lo testimoniano 14 componimenti (11 sonetti, un’anacreontica, un poemetto e un “capitolo bernesco”), per lo più d’occasione, sia in italiano che in francese.

Di questi, la maggior parte rivelano chiaramente la loro destinazione di scritti su commissione, secondo un uso diffuso nella società dell’epoca. Si tratta infatti di composizioni dedicate a monacazioni e nozze, in cui religiosità e pastorellerie alla moda si mescolano con grande disinvoltura, in uno stile spesso enfatico e solenne, che solo a tratti si riscatta da una greve convenzionalità, come per la vestizione  religiosa della nobile Maria Antonia Gaggi, avvenuta nel Monastero della SS.Trinità di Como, 1769, per la quale compone sia un sonetto in italiano che uno in francese. In esso, giocato sull’allegoria fanciulla-fiore, prende vita un tenero quadretto naturalistico, la cui leggerezza e fluidità espressiva è arricchita dall’eco di celebri modelli letterari (Catullo, Ariosto) e alla cui bellezza contribuisce non poco anche la leggerezza e fluidità espressiva, come si può rilevare e apprezzare dai versi della prima terzina, in cui invita la “Vergin” a rispondere con entusiastico abbandono alla chiamata divina: “Ah, non t’arresta: / La voce sua non è fragor di tuono; / Voce è d’amor, ch’ogni durezza spetra”.

Particolarmente interessante, perché aggiunge una nota davvero diversa all’immagine dello scrittore, è anche il “capitolo bernesco” in endecasillabi a rima alternata, in cui in tono amabilmente caricaturale viene tratteggiata una figura tipica del costume settecentesco, quella del “galante”, dell’altrimenti detto “cavalier servente”, che diventa pretesto per una satira a tratti anche amara dei vuoti riti di mondanità e galanteria di una società non soltanto comasca dell’epoca, quella per intenderci  che vede il trionfo del “lombardo Sardanapalo” di pariniana memoria. Bastino alcuni versi, non tutti in verità di specchiata fattura, in cui si descrive il suo gran darsi da fare per soddisfare le tante donne che lo fanno oggetto delle loro attenzioni: “Quante volte non sa trarsi d’impaccio / il pover’uomo! E scende, e vola, e sale / per dar a questa e a quella ognor il braccio; // Va, corre che neppur vede le scale, / di qua, di là, veloce sì che appena / tanto correr potria chi avesse l’ale; // Qualor poi una a braccio o due ne mena / è proprio a pasto, e innanzi restar privo / di servimento starìa senza cena”.

Di intento celebrativo è invece il poemetto Omaggio al sig.di Sossure, in terzine, composto nel 1787, per salutare la scalata del Monte Bianco effettuata dall’amico scienziato Orazio Benedetto De Saussure. Privo com’è di calore ed eccessivamente lungo (ben 199 grevi endecasillabi), il poemetto raramente si riscatta col suo stile paludato dallo stanco ossequio ad una moda, quella della poesia d’occasione, che il Volta dopo quella data abbandonerà definitivamente.

VINCENZO GUARRACINO

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Sorgente: Death Studies Master – YouTube

Emanuele Severino, IL FOCOLARE CHE NON SI SPEGNE MAI, Corriere della Sera 24 dicembre 1983

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Emanuele Severino sul THAUMA

La celebre affermazione di ERACLITO (Efeso, 550 a.C. ca. – 480 a.C. ca.) secondo la quale il fuoco è un`entità che mutando resta simile, diviene oggetto di analisi in un’intervista a Remo Bodei – in Rai Filosofia

La celebre affermazione di Eraclito (Efeso, 550 a.C. ca. – 480 a.C. ca.) secondo la quale il fuoco è un`entità che mutando resta simile, diviene oggetto di analisi in un’intervista a Remo Bodei. Docente di storia della filosofia all`Università di Pisa, Bodei muove delle obiezioni alla contrapposizione che i più stabiliscono tra Eraclito e Parmenide (Elea, Magna Grecia, 510 a.C. ca. – 450 a.C.).
Di Eraclito ci parla anche il fondatore dell’ermeneutica contemporanea Hans Georg Gadamer (Marburgo, 1900 – Heidelberg, 2002), il quale spiega perché i grandi metafisici, come Hegel, sono così attratti da Eraclito e dal mistero dell`unità del molteplice.
L’unità audiovisiva comprende inoltre la lettura di alcuni frammenti di Eraclito

Sorgente: Eraclito: la metafora del fuoco – Rai Filosofia

il concetto di INTERSOGGETTIVITA’ in SILVIA MONTEFOSCHI, anche alla luce di PAOLO CONTE in Bella di giorno (da Psiche), 5 novembre 2008

Il testo letto nel video è questo:

“Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la feli­ce condizione dell’esistere con l’altro senza bisogni.

Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l’altro ci sia, in quanto è grazie all’esserci dell’altro che io mi mani­festo come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l’esistere dell’altro mi rivela a me stessa.

In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell’altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell’esistere dell’uomo come soggetto?

Devo procedere nell’analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.

Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé.Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comporta­menti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità.”

in Silvia MontefoschiL’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzionedella coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75.

  1. Lo scritto del 2004, citato nell’audio-video è qui:

Intervista a Montefoschi sul concetto di “intersoggettività” (2004) di Tullio Tommasi

  1. La canzone è :

Paolo Conte, Bella di giorno, in Psiche, 2008

Io so chi tu sei
so neanche chi sei
ma so che tu sei
si so che tu sei tanto amata
amata e desiderata

l’istinto ti sa
trattare ti sa
guidare ti sa
con poche parole precise
poche parole decise
e uno sguardo d’intesa
un’elegantissima scusa
come una bella di giorno
tu sei il mondo che hai intorno

sei bella senza ritegno
nell’acqua fresca di un bagno
io so che tu sei
so neanche chi sei
ma so che tu sei
si so che tu sei tanto amata
amata e desiderata
e sola

Silvia Montefoschi, L’ Uno e l’Altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico,

Feltrinelli, 1977, p. 32-44

Silvia Montefoschi, L’ Uno e l’Altro. Interdipendenza e intersoggettività nel rapporto psicoanalitico,

Feltrinelli, 1977, p. 32-44

Sorgente: il concetto di INTERSOGGETTIVITA’ in SILVIA MONTEFOSCHI, anche alla luce di PAOLO CONTE in Bella di giorno (da Psiche), 5 novembre 2008 | Tracce e Sentieri.

EMANUELE SEVERINO, Aristotele dice che la filosofia nasce dal ‘thauma’. Comunemente si traduce questa antica parola greca con “meraviglia”. E si va completamente fuori strada, perché ‘thauma’, nel suo significato originario significa “terrore”, “angosciante stupore”, citazione selezionata da Vasco Ursini, da E. Severino, Scuola e tecnica, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, 2005, pp. 30-32

ARISTOTELE: “THAUMA”.

Aristotele dice che la filosofia nasce dal ‘thauma’. Comunemente si traduce questa antica parola greca con “meraviglia”. E si va completamente fuori strada, perché ‘thauma’, nel suo significato originario significa “terrore”, “angosciante stupore”. Per che cosa? Per questa nostra esistenza, per la vita in cui ci troviamo e la cui durezza raggiunge tutti e tutti fa soffrire e tutti angoscia. Poi, sì, ci potrà essere anche quella forma di ‘Thauma’ che è il fenomeno derivato per il quale il filosofo, magari protetto da una fittizia tranquillità, “si meraviglia” di ciò che per l’uomo comune è qualcosa di ovvio. (E non diremo certo che questa “meraviglia” sia qualcosa di superfluo). Quando Nietzsche afferma che la scienza nasce dalla paura non fa che ripetere Platone e Aristotele. E per secoli la scienza moderna concepisce la “verità” delle proprie leggi secondo il senso che alla verità è stato assegnato dalla tradizione filosofica.
La filosofia nasce perché il modo in cui il mito tenta di proteggere l’uomo fallisce. Tenta di proteggerlo dicendogli che nonostante il dolore e la morte egli vive all’interno di un senso unitario e divino – e dunque protettivo, se ci si pone nel giusto rapporto con esso. Ma ad un certo momento il mito non basta più. C’è di mezzo quel che più preme, Che cosa ci preme di più di noi stessi, della nostra esistenza sofferente, inevitabilmente sofferente? E allora, poiché della nostra esistenza si tratta, ecco che il dio del mito non basta più: occorre un ‘vero’ dio, un dio che la verità mostra alla ragione dell’uomo, il dio della filosofia, che nonostante tutto sta più avanti e non più indietro di quel dio di Abramo, Isacco, Giacobbe che si è voluto contrapporre al dio dei filosofi ma che è pur sempre un dio del mito, cioè un dio inaffidabile.
Ma questo grande passato dell’Occidente – questo senso grandioso dell’esistenza, dove la verità del dio protegge l’uomo dominando e unificando tutte le cose, producendole e raccogliendole in sé – è tramontato, o se ne vedono soltanto le ultime luci. Gli ultimi duecento anni dell’Occidente sono il dispiegarsi del tramonto. [ … ] Il grande passato dell’Occidente tramonta ad opera, innanzitutto, della punta di diamante della ragione moderna: è la stessa filosofia del nostro tempo a mostrare l’impossibilità di un “vero” dio – e dunque l’impossibilità di quel dio cristiano che è stato innestato sul dio della filosofia.

(E. Severino, Scuola e tecnica, Università degli Studi di Parma, Facoltà di Architettura, 2005, pp. 30-32).

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“Destino” e ‘epistéme’,  citazione di Vasco Ursini

negli scritti di Severino la parola ‘destino’ indica lo stare della verità, cioè l’incontrovertibile nel cui cerchio è accolta la terra e l’isolamento della terra.

L’ ‘epistéme’ invece è il tentativo compiuto dal pensiero greco, che però è fallito, di evocare l’assolutamente stante. Solo al di fuori della fede nel divenire può mostrarsi l’assoluta incontrovertibilità del destino, la quale è però avvolta dalla contraddizione C

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PER INTRODURRE ALLE DISCUSSIONI INTORNO AL SENSO DELLA VERITA’: ‘alétheia’; ‘epistéme’; ‘thauma’, tratto dal gruppo Amici a cui piace Emanuele Severino, curato da Vasco Ursini

Nel nostro tempo è sempre più dominante la convinzione che la verità, qualsiasi forma di verità, abbia un carattere storico e pragmatico: la verità non è al di sopra del tempo e della storia, ma è un certo stato provvisorio e controvertibile della conoscenza, che permane ed è affermato sino a che esso sia in grado di realizzare certi scopi. Questa prospettiva è la negazione del carattere di incontrovertibilità, universalità, necessità, che a partire dalla filosofia greca, lungo la tradizione dell’Occidente, e non solo nell’ambito del pensiero filosofico, è stata assegnata alla verità. Oggi, conoscenza vera è quella che in certe circostanze spazio-temporali determinate riesce a prevedere e trasformare il mondo più di altre forme di conoscenza. La verità è potenza, azione, prassi vincente e nel nostro tempo la potenza vincente è ritenuta la tecnica guidata dalla scienza moderna.
E si ritiene che la crescita della potenza scientifica sia determinata dalla progressiva modificazione e sostituzione delle teorie scientifiche, che tendono tutte – anche quelle che un tempo erano intese come verità incontrovertibili – ad acquistare il carattere di leggi statistico-probabilistiche, ossia di verità storiche e pragmatiche. Anche la matematica riconosce che i propri principi sono postulati, ipotesi che non pretendono avere un valore assoluto, incontrovertibile.
D’altra parte la tesi che ogni verità ha un carattere storico-pragmatico non può evitare il cosiddetto “argomento contro lo scettico”, per il quale questa tesi, presentandosi come verità incontrovertibile, smentisce se stessa. Per evitare questa conseguenza – cioè questa contraddizione – la tesi del carattere storico-pragmatico della verità ha finito col presentare se stessa come verità storico-pragmatica, controvertibile. Molto prima che questa prospettiva fosse affermata da filosofi dell’area anglosassone come Richard Rorty, essa è stata affermata in Italia da filosofi come Ugo Spirito, discepolo di Giovanni Gentile. Va comunque osservato che è proprio perché non si rinuncia alla tesi della controvertibilità di ogni verità che ci si propone di darle una forma non contraddittoria, riconoscendo il carattere controvertibile, storico-pragmatico di questa stessa tesi. Dove però è chiaro che, in questa forma apparentemente radicale di negare l’incontrovertibilità, si riconosce un carattere di verità incontrovertibile all’argomento contro lo scettico; e poiché questo argomento mostra la presenza di una contraddizione nella tesi assoluta del carattere controvertibile di ‘ogni’ verità, in quella forma apparentemente radicale di negazione dell’incontrovertibile si riconosce un carattere di incontrovertibilità anche al principio di non contraddizione.
Con queste considerazioni si intende dire che la forma ‘autenticamente’ più radicale – anche se tendenzialmente inosservata – della filosofia del nostro tempo è un’altra: non è né scetticismo né quella forma apparentemente’ radicale di negare la verità che riconosce la propria controvertibilità, storicità, pragmaticità. Nella sua forma autenticamente più radicale la filosofia del nostro tempo non nega ogni verità incontrovertibile, ma nega ogni verità incontrovertibile e immutabile che pretenda porsi al di sopra dell’unica fondamentale verità incontrovertibile, e permanente fino a che qualcosa esiste, consistente nella tesi che ogni verità diversa da questa tesi è travolta dal tempo, dalla storia, dal divenire del mondo.
A questo punto si tratterebbe di vedere ‘perché’ questa sia l’unica fondamentale verità incontrovertibile. Giacché non basta ‘asserire’, come oggi per lo più accade, che non esiste alcuna verità metastorica, metafisica, assoluta, definitiva, che non esiste alcun Essere immutabile e necessario, alcun Fondamento, alcun Centro assoluto, alcun Senso assoluto del mondo. Oggi si dà per lo più come scontato tutto questo. Ma nella sua essenza più profonda la filosofia del nostro tempo mostra determinatamente la ‘necessità’ di tutto questo, e lo mostra sul fondamento della fede che l’esistenza del divenire e della storicità di ogni cosa e di ogni verità, sia la suprema verità incontrovertibile, essa stessa destinata ad annientarsi quando non esisterà più alcuna coscienza del mondo.
E, tuttavia, non solo c’è una ‘dimensione che è comune sia alla concezione tradizionale della verità, sia alla distruzione di tale concezione’ (alla distruzione operata appunto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo), ma, al di là di questa dimensione, la verità è ‘destinata’ a un senso che ‘non’ appartiene alla storia dell’Occidente (e tanto meno dell’Oriente) ma che già da sempre appare in ciò che vi è di più profondo in ognuno di noi. Noi siamo questo ‘destino’.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, PISA 2009, pp. 9 – 11) (Il discorso sarà ripreso e sviluppato in prossimi post fino a presentare le risposte di Severino alle critiche che da più parti gli vengono rivolte).


PER INTRODURRE ALLE DISCUSSIONI INTORNO AL SENSO DELLA VERITA’ (2)

La parola greca che traduciamo con ” verità ” è ‘alétheia’ che propriamente significa “il non nascondersi”, e pertanto il manifestarsi, l’apparire delle cose. Ma per il pensiero greco la verità non è soltanto ‘alétheia’ (come invece ritiene Heidegger): la verità è l’apparire in cui ciò che appare è l’incontrovertibile, ossia ciò che, dice Aristotele, “non può stare altrimenti di come sta e si manifesta” (mè endéchetai àllos échein).

Questo ” stare ” in modo assoluto è espresso dalla filosofia greca con la parola ‘epistéme’, dove il tema *steme (dalla radice indoeuropea *sta) indica appunto lo ” stare ” di ciò che sta e si impone ” su ” (‘epi’) ogni forza che voglia negarlo, scuoterlo, abbatterlo. Ciò che non può stare altrimenti è l’incontrovertibile, è come le cose stanno. L’esser esposti al poter essere altrimenti, cadendo, è il tremore del pensiero.

Appunto per questo Parmenide dice che il ” cuore ” della verità ” non trema ” – sebbene egli, che per un verso appartiene e inaugura la storia dell’ ‘epistéme’, per altro verso sembra volgere lo sguardo verso un senso inaudito della verità, il senso che non appartiene alla storia dei ” mortali “. Il cuore dei mortali, invece, trema di fronte alla sofferenza e alla morte. Platone e Aristotele chiamano ‘thauma’ questo tremore e vedono che da ‘thauma’, cioè dall’ “angosciato stupore “, nasce la filosofia: per essere sicuri della salvezza, non ci si può accontentare del mito e la volontà (‘thymòs’, dice Parmenide all’inizio del Poema) si protende verso il ” cuore non tremante della verità “.
Da tempo il pensiero filosofico si è reso conto che la definizione tradizionale della verità come ‘adaequatio intellectus et rei’ (“adeguazione dell’intelletto e della cosa”, “adeguazione dell’intelletto alla cosa”) ha un carattere subordinato, Infatti, per sapere che l’intelletto è adeguato alla cosa, è necessario che la cosa sia manifesta, appaia, e appaia non come contenuto di un’opinione o di una fede, ma nel suo non poter stare altrimenti, cioè nella sua incontrovertibilità. Idealismo, neoidealismo, fenomenologia sono consapevoli del carattere derivato o addirittura alterante del concetto di ‘adaequatio’; le stesse filosofie della cosiddetta ” svolta linguistica “, sebbene fatichino a riconoscerlo, vanno in questa direzione. Lo stesso pensiero greco, in cui si forma la definizione della verità come adeguazione, risale all’indietro di questa definizione e, come si è rilevato, concepisce la verità come unità di ‘alétheia’ ed ‘epistéme, dove le cose del mondo che innanzitutto si manifestano sono incontrovertibilmente mutevoli, vanno dal non essere all’essere – e in questo senso possono stare altrimenti di come stanno -, tuttavia, fino a che stanno in un certo modo, è impossibile che stiano altrimenti, e anche in quest’altro senso sono anch’esse incontrovertibili. L’ ‘epistéme’ ritiene inoltre che a partire da ciò che si manifesta sia necessario pervenire all’affermazione dellEnte immutabile e divino e delle strutture e forme immutabili che nel mondo diveniente in qualche modo rispecchiano l’immutabilità del divino (le cosiddette ” leggi di natura”, o ” diritto naturale “, la ” morale naturale “). Nell’ ‘epistéme’ lo stare del Dio e del suo rispecchiarsi nel mondo differisce dunque dalle stabilità e permanenze affermate dal mito, ossia dalla volontà di far stare un certo senso del mondo. Un Ente supremo, divino, è autenticamente immutabile solo in quanto la sua esistenza immutabile sia affermata dal sapere incontrovertibile. La filosofia vuole la verità, vuole che la verità sia l’incontrovertibile: il mito vuole (crede) che il mondo abbia un certo senso e non vede la fermezza secondo la quale il proprio volere vuole – la fermezza che, se fosse pensata, dovrebbe avere il carattere del non poter essere altrimenti da parte di ciò che è voluto e che dunque non potrebbe più essere un voluto ma qualcosa che di per se stesso ‘sta’, è incontrovertibile.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della verità, cit., pp. 11 – 12. ).

Sorgente: (1) Amici a cui piace Emanuele Severino

EMANUELE SEVERINO, IL TRAMONTO DEL SENSO DELL’ESSERE, estratto a cura di Vasco Ursini in Amici a cui piace Emanuele Severino

IL TRAMONTO DEL SENSO DELL’ESSERE

La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perchè la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi: si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica dell’essere.
Ma queste espressioni alludono a qualcosa di radicalmente diverso dall’interpretazione heideggeriana della storia della filosofia occidentale. La diversità è radicale, perché anche il pensiero dello Heidegger è una sorta di alterazione, e non meno grave, del senso dell’essere. Per lui, la più antica filososofia greca intravvede l’essere come ‘presenza’, ossia come l’apertura o l’orizzonte entro cui può giungere a manifestazione ogni determinatezza dell’ente. Resta così invertita la direzione della storiografia idealistica, che vede invece nell’orizzonte – l’attualista direbbe: nel pensiero in atto – l’ultimo risultato dello sviluppo del sapere filosofico. Ciò che per l’idealista è il risultato, per lo Heidegger è al contrario l’inizio; lo sfolgorante inizio che ben presto impallidisce e lascia il campo alla mistificazione metafisico-teologica dell’essere, nella quale l’orizzonte di ogni apparizione dell’ente diventa un ente, sia pure l’ ‘Ens supremum das Seiendste’.
L’arbitrarietà dell’interpretazione heideggeriana è ormai fuori discussione: non già perché si debba tener fermo quell’altro dogmatismo, per il quale la filosofia greca sarebbe rimasta al di sotto della consapevolezza dell’orizzonte della presenza ( e cioè sarebbe rimasta in quella situazione in cui il pensiero vede l’essere, ma non vede se medesimo), ma perché è storicamente aberrante il tentativo di ravvisare nel primissimo pensiero greco l’identificazione del significato dell’ ‘essere’ e del significato della ‘presenza’. L’intreccio tra i due c’è indubbiamente, ma appunto per questo c’è insieme la differenza. Eppure è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più essenziale e più dimenticata di tutto il nostro sapere. Per rintracciarla non si richiede quel sommovimento delle discipline filologiche, che la lettura heideggeriana pretende, ma un sommovimento ben più profondo e più arduo, quelo cioè che porta alla comprensione della forza invincibile di un discorso che da millenni è saputo e pronunciato, ma che, appunto non è più stato capito. Non si tratta allora di dare significati nuovi alle parole (quasi che riportando l’essere alla presenza ci si trovasse di fronte a qualcosa di più evedente dell’essere), ma di pensare quelli vecchi, ridestarli, e in questo senso, certamente, rinnovarli sino alle ultime sorgenti.
Le parole sono pur sempre queste, che in varie guise ritornano insistenti nel poema. Il gran segreto sta pur sempre in questa povera affermazione che “L’essere è, mentre il nulla non è”, nella quale non si indica semplicemente una proprietà, sia pure quella fondamentale, dell’essere, ma se ne indica il senso stesso: l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi. L’opposizione del positivo e del negativo è il grande tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella sconfinta pregnanza che il pensiero metafisico non saprà più penetrare.
(Emanuele Severino, Essenza del nichlismo, gli Adelphi , Milano 1995, pp. 19-20)

Sorgente: Amici a cui piace Emanuele Severino

EMANUELE SEVERINO, Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile, da

La parola ‘de-stino’ indica, in quegli scritti, lo ‘stare’: lo stare assolutamente incondizionato. Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo apparire appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile.

Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino

da Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni, Rizzoli, Milano 2011, pp.46-48

 

Sorgente: (2) Vasco Ursini – Vasco Ursini ha condiviso il suo post.

VASCO URSINI, interviste sul libro IL DILEMMA: VERITA’ DELL’ESSERE o NICHILISMO?, BookSprint Edizioni

 EMANUELE SEVERINO: ‘alétheia’ e ‘epistéme’, dal gruppo Amici a cui piace Emanuele Severino, a cura di Vasco Ursini

La parola greca che traduciamo con “verità” è ‘alétheia’, che propriamente significa “il non nascondersi”, e pertanto il manifestarsi, l’apparire delle cose. Ma per il pensiero greco la verità non è soltanto’ alétheia’ (come invece ritiene Heidegger): la verità è l’apparire in cui ciò che appare è l’incontrovertibile, ossia ciò che, dice Aristotele, “non può stare altrimenti di come sta e si manifesta”. Questo “stare” in modo assoluto è espresso dalla filosofia greca con la parola ‘epistéme’, dove il tema ‘steme’ (dalla radice indoeuropea ‘sta’) indica appunto lo ‘stare’ di ciò che sta e che si impone ‘su’ (‘epi’) ogni forza che voglia negarlo, scuoterlo, abbatterlo. Ciò che non può stare altrimente è l’incontrovertibile, è come le cose stanno. L’esser esposti al poter essere altrimenti, cadendo, è il tremore del pensiero. Appunto per questo Parmenide dice che il “cuore” della vertà “non trema” – sebbene egli, che per un verso appartiene e inaugura la storia dell’epistéme, per altro verso sembra volgere lo sguardo verso un senso inaudito della verità, il senso che non appartiene alla storia dei “mortali”. Il cuore dei mortali, invece, trema di fronte alla sofferenza e alla morte. Platone e Aristotele chiamano ‘thauma’ questo tremore e vedono che da ‘thauma’, cioe dall’ “angosciato stupore”, nasce la filosofia: per essere sicuri della salvezza, non ci si può accontentare del mito e la volontà (thimòs, dice Parmenide all’inizio del Poema) si protende verso il “cuore non tremante della verità”.
[ … ]
Il principio di non contraddizione, che domina l’intera storia dell’Occidente, afferma [ … ] che è necessario che gli enti siano enti, ‘quando essi sono’. ma che non è necessario che gli enti siano; il che significa che è necessario che gli enti siano stati niente, prima di essere, e tornino ad esser niente, dopo essere stati. Il principio di non contraddizione è cioè, insieme, l’affermazione che gli enti che si manifestano divengono, ossia escono dal niente e vi ritornano; e a sua volta il divenire, quale è inteso nel pensiero dell’Occidente, è insieme l’affermazione del principio di non contraddizione, ossia del principio per il quale è impossibile che, quando gli enti sono, siano niente, ma che è necessario che in un tempo diverso, gli enti siano stati e tornino ad essere niente. Nella forma teologico-metafisica dell’ ‘epistéme’ solo il divino è “sempre salvo” dal nulla (come dice Aristotele): nella distruzione di tale forma, e cioè nel pensiero della “morte di Dio”, ogni ente proviene dal niente ed è destinato a ritornarvi. Ma che gli enti in quanto enti escano dal niente e vi ritornino è la verità comune sia alla tradizione dell’Occidente, sia alla distruzione di tale tradizione.
[ … ]
La presente relazione ha inteso offrire qualche premessa sui seguenti essenziali punti.
1) L’opposizione, certo radicale, tra concezione tradizionale e concezione attuale della verità è sottesa da un ‘comune’ e decisivo tratto di fondo.
2) Esso è portato alla luce dal pensiero filosofico, ma è l’ambito in cui cresce non solo la cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente e ormai del Pianeta.
3) Tale tratto è, da un lato, il carattere di incontrovertibilità della verità, dall’altro lato è l’affermazione della contingenza (precarietà, storicità, temporalità, divenir altro) delle cose del mondo, cioè il loro sporgere provvisoriamente dal niente.
4) Nella cultura occidentale, questo tratto comune è espresso dal “principio di non contraddizione”.
5) Ma questo tratto è anche l’alienazione più radicale della verità. Il “principio di non contraddizione” è cioè essenzialmente contraddittorio. Pensare che gli enti escono e ritornano nel nulla (e si tratta di comprendere che appunto questo è affermato dal “principio di non contraddizione”) significa pensare che gli enti in quanto enti sono niente. In ciò consiste il senso autentico del nichilismo. Si tratta allora di comprendere al di là del modo in cui la verità si è presentata storicamente, il senso non contraddittorio della non contraddizione.
6) L’alienazione della verità è il fondamento di ogni potenza e violenza (teologica, scientifica, morale, ecc.).
7) La non alienazione della verità è l’apparire dell’impossibilità che l’ente – un qualsiasi ente . non sia; è cioè l’apparire dell’eternità di ogni ente.
8) La non alienazione è, insieme, l’apparire della necessità che il variare del mondo sia il comparire e lo scomparire degli eterni.
9) Si invita al tema fondamentale, che però in questa relazione non può essere affrontato: in che senso la negazione della contraddizione non è un dogma dell’ente.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della vertità, Edizioni ETS, Pisa 2009, pp.11 – 22).

Sorgente: Amici a cui piace Emanuele Severino, a cura di Vasco Ursini

DAL SASSO ANDREA, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, Mimesis edizioni

filosofie-del-sasso-creatio-ex-nihilo

Uno spaccato sulla storia della filosofia italiana del Novecento, interpretata alla luce del significato ontologico della creatio ex nihilo nel dibattito tra attualismo, problematicismo e metafisica, con il proposito di introdurre il lettore al pensiero di Emanuele Severino, mediante l’analisi delle sue origini e delle maggiori influenze (Gentile, Bontadini). L’analisi storica è affiancata all’intento teoretico di problematizzare l’inizio del filosofare severiniano, allo scopo di esplicitare le condizioni di possibilità per un ripensamento radicale del significato della prassi e dell’etica al di fuori di una comprensione nichilistica del divenire.

Andrea Dal Sasso (Feltre 1982) è dottore di ricerca in Filosofia. Nel 2009-2010 è stato borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli. È autore del volume Dal divenire all’oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino (Roma 2009) e di vari articoli su riviste internazionali. I suoi interessi sono rivolti alla filosofia italiana del Novecento nelle sue relazioni con la filosofia europea, con particolare riferimento all’ontologia e alla metafisica.

Sorgente: Creatio ex nihilo

ATTILA JOZSEF, Il dolore, tratta dal blog di Titti de Luca

Francesco Cardone, NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO, Tesi di laurea in Sociologia dell’arte e della letteratura. Relatore: Prof. Stefano Benassi, Anno Accademico 2003-2004

Francesco Cardone, NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI  EMANUELE SEVERINO.

Tesi di laurea in Sociologia dell’arte e della letteratura.

Relatore: Prof. Stefano Benassi

Anno Accademico 2003-2004.

INDICE
Introduzione………………………………………………………………………………..2
I. IL SENTIERO DELLA NOTTE…………………………………………………….8

 

1.1) Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il sentiero della notte…….10

 

1.2) Téchne, il culmine del nichilismo…….………………………………………………21
1.3) Nichilismo, téchne e poíesis…………….…………………………………………….33

 

1.4) Il linguaggio, il mortale e l’agire della tecnica…………………….……………….64

 

II. IL SENTIERO DELLA NOTTE NELLA POESIA……………………………74

 

2.1) Eschilo e Leopardi: origine e compimento dell’Occidente……….…………………75

 

2.2) Tragedia ed epistéme (Eschilo)……………….……………………………………..80

 

2.3) Hýbris e Dike………….………………………………………………………………95
2.4) Prometeo: la téchne come phármakon………….…………………………………112
2.5) Divenire, nulla, illusione e poesia in Leopardi………….…………………………118
2.6) La ginestra: nulla, tecnica e poesia………….……………………………………..134
III. IL SENTIERO DEL GIORNO NELL’ARTE…………………………………158

 

3.1) L’epistéme: l’identità dell’essere eterno……………………………………….….159
3.2) Il sentiero del giorno: l’apparire dell’eterno………….…………………………..188
3.3) L’epistéme dell’arte: l’identità dell’opera d’arte………………….………………208
3.4) Il sentiero del giorno dell’arte: l’eterno apparire dell’opera d’arte…….………221
Bibliografia………………………………………………………………………………249

tutta la tesi: vai a questo link

http://www.filosofico.net/nichilsevcardonefranc.htm

Il terrorismo e la questione del MALE (fra Filosofia, Antropologia e Religione) di Luigi Manfrecola, da Edscuola Press

Il terrorismo e la questione del MALE
(fra Filosofia, Antropologia e Religione)

di Luigi Manfrecola

concezione (Ontologica) oggettiva e metafisica

nella concezione soggettivistica

concezione etica-Kantiana

prospettiva ANTROPOLOGICA strutturalista

prospettiva RELIGIOSA

 

tutto l’articolo qui:

Sorgente: Il terrorismo e la questione del MALE « Edscuola Press

Niente

Niente

[nièn-te]

SIGN Nulla, nessuna cosa; di poco conto

forse dal latino [ne inde] ‘non di questo’; più probabilmente, da [nec entem] ‘nemmeno una cosa’.

Pare che non ci sia… niente da dire su questa parola, ma non è così.

Certo il suo uso è molto comune, vivissimo in una gran quantità di locuzioni che non necessitano di spiegazioni, e il suo significato è più che cristallino. Ma sulla sua etimologia circolano certe versioni affascinanti da ponderare bene. In rete – specie per influsso dell’antiquato e spesso inattendibile dizionario etimologico Ottorino Pianigiani, quello di etimo.it – si trova spesso riportato che niente deriva dal latino ne inde cioè ‘non di questo’, ‘altro da questo’. Una versione suggestiva, perché invita a pensare che ‘niente’ significhi originariamente non qualcosa di vuoto, ma qualcosa di ‘pieno d’altro’. Quindi, se ti domando «Che cosa c’è che non va?», se rispondi «Niente» non intendi dire che non c’è davvero nulla che non va, ma che c’è altro, di inconsiderato, o di inesprimibile. Una complicazione assurda, che non ha alcun riscontro con l’uso di questa parola – e infatti non è l’etimologia corretta.

Il niente è effettivamente il nulla: scaturisce dalla locuzione del latino medievale nec entem, cioè ‘nessuna cosa’. Ed è questo il significato con cui pervade la nostra lingua – con un’estensione verso ciò che è di poco conto. Nella stanza non c’è niente, il mio male è una cosa da niente, mi sorridi come niente fosse. In effetti pare perfettamente sovrapponibile a ‘nulla’, che anzi risulta più comune.

Vogliamo spingerci a dar forma a un’impressione di differenza fra il niente e il nulla? Il nulla, forse, è più vertiginoso, più vuoto. E lo è in virtù di un suono più spento e largo. Ma, appunto, è un’impressione.

Comunque, se vogliamo intendere ‘altro da questo’, non diciamo ‘niente’, ma cerchiamo di specificare che altro intendiamo, via. Giusto per semplificare.

L’APPARIRE FINITO E L’APPARIRE INFINITO DEL DESTINO, Il brano è tratto da Vasco Ursini, Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?, Booksorintesidizioni, 2013, pp. 90-91

L’APPARIRE FINITO E L’APPARIRE INFINITO DEL DESTINO

Si è visto che Severino distingue l’apparire delle singole determinazioni empiriche dall’apparire trascendentale, inteso come orizzonte della totalità finita di ciò che appare. Le cose cioè appaiono in quanto esiste una dimensione in cui il loro apparire viene accolto, ospitato e congedato. Tale dimensione trascendentale non può pertanto apparire e scomparire, non può cioè sopraggiungere e congedarsi come accade invece all’apparire empirico che appare e scompare.
Posta la distinzione tra l’Apparire trascendentale e l’apparire della determinazione empirica, ribadito che l’Apparire trascendentale è immobile sia in quanto, come ogni altro essente, è eterno, sia in quanto non inizia e non tramonta perché non è compreso nel processo dell’apparire e dello scomparire che esso ospita; ribadito che compete all’apparire empirico, non di iniziare a essere e cessare di essere, ma di iniziare ad apparire e cesare di apparire, Severino chiarisce come e perché l’apparire empirico, che consiste nell’esser presente, di fatto non lo è sempre.
A tal fine occorre ribadire che, secondo Sevrino, l’Apparire trascendentale è l’apparire ‘processuale’ di ciò che è immutabile. Conseguentemente, poiché ciò che è immutabile appare ‘processualmente’, ciò che di esso appare è necessariamente ‘parziale’. Dunque la ‘processualità’ comporta la ‘parzialità’ della presenza della totalità dell’essere. Il termine con il quale Severino indica tale apparire è, come si è visto, quello di apparire ‘finito’.
Tale parzialità tuttavia non è vista da Severino come negazione dell’esser tutto del tutto perché il tutto è tale anche se non si mostra come tale. E’ necessario0 quindi affermare che il tutto, per essere tale, deve apparire come tutto, ma ciò che appare nell’apparire finito non è il tutto. Si deve pertanto necessariamente distinguere un ‘apparire finito’. o parziale, del tutto, che coincide con la processualitò dell’Apparire trascendentale e un ‘apparire infinito del tutto’, in cui il tutto appare concretamente come tutto.
Tale distinzione viene da Severino così spiegata. Poiché l’apparire dell’essente non può diventare niente, è necessario affermare che esso cessa di apparire entro l’apparire finito, ma continua necessariamente ad essere l’apparire che è. Perciò è necessario che esista una dimensione in cui esso appare eternamente, è necessario cioè che esista un altro apparire, in cui ogni essente e ogni apparire empirico appare da sempre e per sempre. A questa dimensione Severino dà il nome di apparire ‘infinito’ e anche di ‘Gioia’.
A questo punto, occorre chiedersi su quali basi Severino afferma che l’apparire infinito esiste necessariamente. Egli pone come fondamento di tale necessità ‘l’esser sé dell’essente’ che appare nell’apparire finito del destino e, sviluppando il suo ragionamento, afferma che se l’apparire infinito non esistesse, l’esser sé dell’essente sarebbe contraddittorio.L’apparire infinito è l’apparire della totalità concreta e eterna degli essenti e, in quanto tale, è il toglimento di quella “contraddizione C” che avvolge l’originario.
Se tale apparire non esistesse la “contraddizione C” non sarebbe originariamente tolta e dunque dovrebbe essere tolta. In questo modo però l’originario non sarebbe originaria negazione del proprio negativo ma sarebbe diveniente, cioè sarebbe un divenire altro che sarebbe il toglimento della propria negazione. Il destino non sarebbe lo stare eterno e innegabile dell’essere e il divenir altro sarebbe la sua essenza originaria.
Ma poiché ciò è immediatamente impossibile (perché immediatamente autonegativo), l’apparire infinito esiste necessariamente. La necessità della sua esistenza è affermata da Severino proprio sulla base dell’esser sé dell’essente che appare nell’apparire finito del destino.
L’apparire infinito del destino è dunque l’apparire della totalità concreta dell’essente, mentre l’apparire finito del destino è l’apparire formale di tale totalità, cioè è l’apparire della necessità dell’esistenza di ciò che in esso non può concretamente apparire, ossia è l’apparire della nececessità dell’esistenza della totalità concreta dell’essente.

(Il brano è tratto da Vasco Ursini, Il dilemma verità dell’essere o nichilismo?, Booksorintesidizioni, 2013, pp. 90-91)

Emanuele Severino sull’ACQUA, 2011

Seminario di filosofia teoretica: DIVENIRE E CONTRADDIZIONE, 4-5-10-11-12 giugno 2015

Seminario di filosofia teoretica:

DIVENIRE E CONTRADDIZIONE,

4-5-10-11-12 giugno 2015,

presso lo Studio Filosofico Domenicano di Bologna.

Relatori: Barzaghi, Spanio, Brianese, Rametta, Severino, Pagani, Messinese, Donà, Visentin.

DIVENIRE .

Bosoni, orologi e pipistrelli, Lezioni sui nuovi paradigmi della conoscenza tra fisica e biologia, a cura di Asia, Bologna | 15 febbraio – 15 marzo – 19 aprile 2015

Nel primo incontro affronteremo il problema della materia. Attraverso una ricostruzione storica da Newton ad Einstein, dalle origini della fisica moderna fino alle concezioni attuali, vedremo come è cambiata l’idea di massa, di energia e analizzeremo, in particolare, la celebre formula E=mc2 e le sue interpretazioni.
A partire da questi sviluppi si discuterà come i concetti di materialismo e naturalismo possano essere intesi alla luce di un’epistemologia contemporanea.

Nel secondo incontro analizzeremo, dal punto di vista della filosofia della scienza, alcuni concetti fondamentali della fisica, quali il tempo, lo spazio, la temperatura. Ci chiederemo se le definizioni di tali concetti proposte dalla fisica siano descrizioni davvero attendibili di enti esistenti in modo autonomo. L’essere umano, tramite la ricerca scientifica, scopre l’ambiente in cui vive o in qualche modo lo crea? Da dove proviene quel senso di certezza che spesso è associato alle spiegazioni scientifiche?

Nel terzo incontro indagheremo la natura del fenomeno vita. Una divisione tra viventi e non viventi appare sempre più difficile da concepire per la scoperta di entità biologiche indefinite, di schemi di autorganizzazioni e relazioni fittamente interdipendenti, di ecologie prebiotiche. Cercheremo di capire quali caratteristiche abbia la vita secondo i biologi, quali siano le sue origini e se possa avere qualche finalità. Ci chiederemo, inoltre, se l’osservazione “da nessun luogo” di oggetti biologici possa essere integrata dai più recenti paradigmi della conoscenza

vai alla intera scheda di presentazione

Bosoni, orologi e pipistrelli.

EMANUELE SEVERINO, Che cosa significa SALVEZZA

LA GUARIGIONEpag2 LA GUARIGIONEpag3 LA GUARIGIONEpag4 LA GUARIGIONEpag5 LA GUARIGIONEpag6 LA GUARIGIONEpag7 LA GUARIGIONEpag8

Mneme, Memoria

«Mneme» è una parola greca che significa «memoria». La radice è però la stessa del latino «mens» (mente): la memoria è non solo capacità di ricordare, ma anche di capire, di scoprire dentro di sé, di riconoscere negli eventi ciò che si teme o si desidera

da  Mneme. Progetto di didattica della filosofia.

Intervento di EMANUELE SEVERINO alla tavola rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano, da endlife.psy.unipd.it

Intervento di EMANUELE SEVERINO alla tavola rotonda Tavola Rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano, da endlife.psy.unipd.it

vai anche a:

International Conference Seeing beyond in facing death. Spirituality from sick body to salvation – Contents, care and relationships in different cultures VEDERE OLTRE. LA SPIRITUALITA’ DINANZI AL MORIRE: DAL CORPO MALATO ALLA SALVEZZA – CONTENUTI, CURA E ASPETTI RELAZIONALI NELLE DIVERSE CULTURA, Tavola Rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano; Via Altinate, 71, da endlife.psy.unipd.it

 

Emanuele Severino IL BIVIO. , da “Fino all’ultimo pensiero” di P. Breccia e R. Guarini, 1982

La filosofia di Parmenide in pillole

Scorribande Filosofiche

[fonte: http://lh3.ggpht.com/]

Parmenide è il padre del pensiero occidentale, filosofico e scientifico. Il poema di Parmenide è una pietra miliare nel cammino dell’umanità verso l’auto-coscienza.

Affermazioni essenziali:

  1. a) la via dell’Essere: “è e non può non essere” (percorribile);
  2. b) la via del non-Essere: “non è e non può essere” (non percorribile);
  3. c) la via dell’opinione (in greco doxa), del senso comune: “è e non è nello stesso tempo” (percorribile, ma soltanto in apparenza, è la via del Divenire eracliteo contro cui polemizza Parmenide).

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5 libri sulla felicità (e per chi la insegue) – Il Libraio

“ricordarsi che le cose più belle della vita servono a nulla, perché son libere …”, di Francesco Dipalo in Scorribande Filosofiche. Che si tiene assieme con FREEDOM di Zenos Frudakis

scrive Francesco Dipalo:

In primo luogo a ricordarsi che le cose più belle della vita servono a nulla, perché son libere. Pensare libera. Aiuta ad attraversare la vita ben desti. Aiuta a vivere quando è tempo di vivere (e non di “sopravvivere”); a morire quando è tempo di morire. Da esseri umani liberi. Insomma, a niente non serve proprio. Il nichilista inconsapevole, in genere, è ossessionato dal dover servire: degli oggetti, degli esseri viventi, delle persone, delle emozioni, delle azioni. Cosalizza tutto. Idolatra il mezzo, credendo che il servire a lui si riferisca e ignorando quanto lui, invece, sia ad esso asservito. Aborrisce la filosofia per amore delle catene

da

A che serve fare filosofia | Scorribande Filosofiche.

 

lo scultore di chiama Zenos Frudakis e questa scultura FREEDOM:

 http://zenosfrudakis.com/sculptures/public/Freedom.html

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alcune PAROLE CHIAVE DEI FILOSOFI GRECI (greco traslitterato)

Term gr.

L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi, Emanuele Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24

“Se la civiltà occidentale vuol essere coerente alla propria essenza, deve riconoscere che la propria filosofia è la filosofia di Leopardi. L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi. […] Raramente il pensiero occidentale si porta ad una trasparenza eguagliabile a quella che si manifesta attraverso il linguaggio di Leopardi. Si tratta della trasparenza del linguaggio che esprime ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle cose esistenti. Questa trasparenza estrema mostra la grandezza estrema del pensiero di Leopardi e, insieme, la fedeltà estrema di questo pensiero all’essenza dell’Occidente.”

[E. Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24]

lo “stare” alle origini delle ISTITUZIONI, da Paolo Ferrario, POLITICHE SOCIALI E SERVIZI: metodi di analisi e regole istituzionali, Carocci Faber Editore, 2014, p. 450

istituzioni1375 istituzioni1376tratto da Paolo Ferrario, POLITICHE SOCIALI E SERVIZI: metodi di analisi e regole istituzionali, Carocci Faber Editore, 2014, p. 450

 

Emanuele Severino, breve comunicazione su “Imparare a vedere oltre la morte per amare la vita” – 2014

 

Emanuele Severino: nella parola “de-stino” risuona quella radice “sta” indo-europea che indica lo stare, inamovibile, che non si lascia scuotere da alcunche

nella parola “de-stino” risuona quella radice “sta” indo-europea che indica lo stare, inamovibile, che non si lascia scuotere da alcunche

da Emanuele Severino e La Gloria al festival filosofia 2014 | Ritiri Filosofici.

Emanuele Severino: Aspettando il tramonto della libertà | di Andrea Cimarelli in Ritiri Filosofici

La questione della libertà umana costituisce uno degli argomenti più problematici della riflessione filosofica. Il pensiero di Emanuele Severino, che proprio rispetto a tale questione ha scritto molto sia in Studi di filosofia della prassi che in Destino della necessità, ha offerto un prezioso contributo alla concettualizzazione stessa della libertà e alla comprensione di quale ruolo essa possa occupare nella sua ontologia.

Il mondo di Severino.

Per Severino tutto poggia sulla teoria dell’eternità degli enti, la confutazione più radicale di quella che la tradizione filosofica occidentale ha sempre considerato come l’evidenza suprema: l’oscillare degli enti fra l’essere e il nulla, il loro entrare e uscire dall’essere; in una parola: il divenire.

tutto l’articolo qui: Aspettando il tramonto della libertà | Ritiri Filosofici.

Emanuele Severino e Angelo Scola, Il Morire tra ragione e fede | Marcianum Press

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Il Morire tra ragione e fede | Marcianum Press.

Bazzani, Fabio, Vitale, Sergio, Lanfredini, Roberta (a cura di), La verità in scrittura Firenze, Clinamen, 2013, pp. 146

Bazzani, Fabio, Vitale, Sergio, Lanfredini, Roberta (a cura di), La verità in scrittura

Firenze, Clinamen, 2013, pp. 146, euro 17, ISBN 978-88-8410-196-9.
 
Recensione di Massimiliano Chiari – 22/12/2013
 
L’opera è il frutto di un’iniziativa seminariale promossa da alcuni docenti del Dipartimento di Filosofia dell’Università di Firenze. Se da un lato l’obiettivo principale del seminario era quello di dare avvio ad una riflessione sistematica sulla scrittura filosofica, dall’altro i contributi contenuti nel testo in esame si spingono ben oltre, andando a lambire i rapporti profondi che intercorrono tra la scrittura, il tema della verità (in scrittura, appunto) e l’indagine filosofica nel suo complesso, con rimandi non occasionali anche alla prassi della

 ricerca scientifica.

da ReF – Recensioni Filosofiche.