Filosofia, citazioni raccolte nei primi anni 2000 nel sito segnalo.it

da: https://www.segnalo.it/TRACCE/CIT/CIT.htm

filosofia

Gli altri formano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da

modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si

disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove

senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa

costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e

barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell’istante in cui me ne

interesso. Non dipingo l’essere. Dipingo il passaggio [.]. E’ un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e

d’immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre

circostanze e considerazioni. Tant’è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la

contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e

in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt’uno. Si può legare altrettanto bene tutta

la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma

intera dell’umana condizione.

Michel de Montaigne

Saggi (vol.III)

 

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Analisi testuale

 

Titolo:

 

Il titolo sembra perdersi nell’insieme tanto vasto quanto anonimo del genere del saggio. In realtà, il contenuto di

questo passo mostra fino a che punto esso sia significativo ed appropriato: il libro si intitola “saggio” precisamente e

 letteralmente perché lo scopo dell’autore è quello di saggiarsi attraverso la scrittura, e allo stesso tempo quello di

farsi saggiare dal lettore. Infatti, l’oggetto del libro è il racconto di sé in quanto uomo (“io racconto [l’uomo] e ne

rappresento uno in particolare”). Un riferimento chiaro al legame che c’è tra il titolo e il saggiarsi si trova alla fine del

primo paragrafo: “Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei”; qui Montaigne indica

esplicitamente la ragione del suo libro, e quella della scelta del titolo.

 

Oggetto:

 

Se è vero che l’oggetto del racconto è un uomo “in particolare”, ciò non significa che esso sia “degno” di essere

“raccontato” per motivi a lui intrinseci: quest’uomo non è né particolarmente importante né in alcun modo esemplare

(“ne rappresento uno assai mal fatto” – par. 1; “Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro” – par. 2). In

altre parole, qui non si tratta, come nel caso delle Confessioni di Rousseau (1765-70), di parlare di sé perché si

vuole rivendicare la dignità del soggetto individuale. L’IO narrante parla di sé unicamente perché appartiene al

genere umano, come uno dei tanti possibili rappresentanti dell’Uomo, perché “si può legare altrettanto bene tutta la

filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca” (par. 2).

 

Forma:

 

Come abbiamo già detto, l’oggetto del libro è il racconto di sé. Ma questa osservazione necessita di alcune

precisazioni. Gli Essais (Saggi) di Montaigne non sono né un diario né un’autobiografia: infatti, a differenza del

diario, non abbiamo nessuna successione cronologica né divisione in sezioni con datazioni diverse; e a differenza

dell’autobiografia, non ci viene presentata la vita di un uomo che è importante nella sua individualità (storica, sociale,

 ecc.), raccontandola secondo uno schema ordinato e volto a dimostrare qualcosa. Gli Essais sono il risultato di una

 scrittura aperta, il cui unico scopo è quello di “raccontare” un uomo.

 

Ritmo:

 

Dato che non segue nessun ordine, né cronologico né causale, la narrazione, ci avverte Montaigne, si sviluppa

seguendo i pensieri del narratore, attraverso un movimento fluido e altalenante, retto unicamente dalla legge della

libera associazione di idee. Essa perciò sembra essere lasciata andare a briglia sciolta, in maniera disordinata e

incoerente; in realtà, è il frutto di un attento criterio stilistico, di un vero e proprio metodo sperimentale: come ha fatto

 notare un famoso critico, Auerbach*, il ritmo narrativo in Montaigne è spiegato e giustificato (dallo stesso autore-

narratore) attraverso un preciso sillogismo: 1. Io racconto un uomo particolare (me stesso) 2. Ogni cosa nel mondo

è in continuo movimento e cambiamento 3. Perciò: io, che faccio parte del mondo, sono in continuo movimento, e la

mia narrazione, che si vuole adattare al suo oggetto, è altrettanto mutevole.

 

Temi principali:

 

    *

 

      Il divenire: la maggior parte del primo paragrafo è interamente dedicata a questo tema. Attraverso la

constatazione che tutto, nel mondo, è in movimento, per motivi esterni o propri (“del movimento pubblico e del

proprio”), Montaigne arriva a spiegare come il suo oggetto (cioè se stesso) gli sfugga (“se ne va fosco e

barcollante”). L’unico modo per lui di “assicurarlo” (di catturarlo, di coglierlo) è quello di prenderlo “così come si

presenta”, cioè in movimento. Perciò può affermare di non dipingere l’essere (ciò che è stabile), ma il passaggio. Per

 lo stesso motivo lui, al contrario degli altri, non può formare l’uomo, ma soltanto raccontarlo, poiché per formarlo

bisognerebbe averne prima fissato l’essenza. Di nuovo, questa è pure la ragione per cui egli, in quanto essere


 

mutevole, non può risolversi, ma unicamente saggiarsi.

    * La semplicità: Montaigne insiste nel ribadire che egli non “racconta” se stesso perché ha particolari qualità che

lo rendono interessante in quanto individuo. Si presenta come “una vita semplice e senza lustro”, non tanto perché

ciò sia vero in pratica (Montaigne era, in effetti, un nobile ed una delle persone più in vista in Francia all’epoca in cui

ha vissuto), quanto perché così è nelle intenzioni: se avesse voluto raccontare di sé come uomo illustre, avrebbe

potuto farlo benissimo, ma ciò che gli preme è il raccontarsi come uomo. Egli richiede a se stesso una sola qualità:

l’umanità, perché tanto basta alla sua filosofia morale.

    * La verità: l’unica condizione richiesta dal suo lavoro è la sincerità nel parlare di sé. Questa condizione è seguita

in maniera molto rigorosa da Montaigne, tanto da poter affermare che persino nella sua incoerenza egli è in realtà

perfettamente coerente con la propria natura (“mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la

contraddico affatto”).

 

Osservazioni conclusive:

 

    * La differenza tra un libro come Le confessioni di Rousseau e i Saggi di Montaigne riflette la differenza che

esiste tra due secoli tanto distanti come il ‘700 e il ‘500. Quando Rousseau, da vero pre-romantico, decide di

scrivere un libro su se stesso, l’intento principale è quello di rivendicare la dignità della propria persona in quanto

possibile oggetto di un libro (ricordiamo che Rousseau era un borghese, e che si rivolgeva ad un pubblico

principalmente aristocratico). In Montaigne non c’è alcuna rivendicazione personale ed individuale: se scrive di sé, è

 il proprio essere uomo che lo interessa, ed in questo rispecchia perfettamente il ‘500, secolo dell’Umanesimo.

    * Come abbiamo visto, gli elementi principali di questo passo sono: 1) la volontà di presentare se stessi in maniera

 semplice e al contempo rigorosa; 2) la necessità di parlare del proprio oggetto attenendosi alla verità; 3) il desiderio

di cogliere questo oggetto nella sua complessità e totalità; 4) la necessità di adeguare lo stile narrativo all’oggetto

della narrazione. Tutti questi elementi riflettono perfettamente il pensiero rinascimentale, che si contraddistingue, tra

l’altro, per il tentativo di costruire un sistema stabile al cui centro stia una visione armoniosa e completa dell’Uomo.

 

* Erich Auerbach, Mimesis (Il realismo nella letteratura occidentale), Vol. II, cap. 2.

filosofia coscienza laica

“coscienza laica: quella parte di coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per

 se stessa e non peR appartenere a una istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma

vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa lo fa perchè ne è

profondamante convinta e non perchè l’abbia detto uno dei numerosi papi o uno degli altrettanto numerosi papi della

cultura laicista”

Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffeallo Cortina, 2007 p. 1

filosofia coscienza laica

“coscienza laica”:

 

“intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la

verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla

verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è

profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi

della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della

coscienza.”

Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina 2007, pag 1


 

FILOSOFIA ETICA

La legge morale – dice Kant nella Critica alla ragion pratica, I, 1, 3 – deve essere concepita e accettata come un

dovere “utile e valido” in sé (questo è quanto ribadisce anche Hegel nel paragrafo 503 dell’Enciclopedia delle

scienze filosofiche). Il punto è comunque sempre relativo alla questione dell’autorità. E’ necessaria un’autorità che

parli agli altri o “per conto degli altri” sui temi della morale? E se sì, da dove questa autorità trae e legittima (vorrei

quasi dire “sussume”, visto che l’ambito morale è sempre personale) le proprie argomentazioni fino a reputarle

“legittime”? E ancora, possono queste argomentazioni avere valore universale? Se consideriamo la morale al pari

delle altre forme di conoscenza, dovremmo dire che non esiste in sé una logica che giustifichi un’autorità nel campo

della morale. Kantianamente parlando, ognuno costruisce la propria impalcatura morale inserendola nel più ampio

“spettro” delle morali altrui al fine di coabitarvi. Se invece vogliamo considerare, con Hume e i naturalisti, la morale

svincolata dalle altre forme di conoscenza umana e collocarla in un ambito più “utilitaristico”, legata cioè alle

contingenze temporali e pratiche, allora il discorso cambierebbe ancora. Ma risulta chiaro che essa perderebbe

gran parte di quei “valori” universali a cui potrebbe far riferimento, di volta in volta, una qualsiasi autorità che

volesse proporla o – peggio ancora – “imporla”.

A differenza di altri, sui temi della morale non ho certezze, anche se – ovviamente – è uno dei temi che più indago e

che più mi sta a cuore. Non credo che una vita incentrata su una morale – per così dire – “autonoma”, abbia minori

garanzie di “validità” rispetto a quella che segue principi “dettati” dall’alto. Non credo cioè sia una questione di valori

“orizzontali” o “verticali” ad informare un principio etico, quanto piuttosto la capacità di considerare che le pretese

dell’altro, se non vogliono conculcare il mio “principio particolare”, sono lecite. Diverso è quando, su molto vaghi e

fumosi “principi universali”, si vuole concentrare una vasta idea di morale; qui il rischio di sfociare in un certo

“assolutismo” del pensiero è assai probabile. Come probabile diventa anche il pericolo di una radicalizzazione delle

varie “morali”, fino al mancato riconoscimento dell’altro o – peggio ancora – alla pretesa “immoralità” di chi non

accoglie il principio etico di una autorità autoproclamatasi “morale”, anche in palese contraddizione con la propria

storia e la propria pratica quotidiana.

FILOSOFIA LOGOS

Logos in greco è un termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse

(«discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg-

richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è

stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo

FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE

«Non conosco libro più calmo, e che disponga maggiormente alla serenità» scrisse Flaubert dei Saggi, e certo, tra i

grandi libri in cui si è espressa la cultura occidentale, non molti sono quelli che presentano altrettanto immediata

l’impronta di uno spirito sereno, coordinatore sovrano e misurato di un’infinita e fluttuante varietà di contenuti.

Sorretta da una curiosità che non si arresta davanti a nulla, l’indagine serrata (se pure niente affatto sistematica)

che Montaigne conduce nel suo libro vede i suoi risultati ridotti a un’unica costante che è lo studio di sé, delle proprie

 humeurs et conditions, e attraverso di esso arriva alla rappresentazione dell’uomo «dipinto per intero, e tutto nudo».

 Persuaso che tutto sia stato detto e preoccupato di dimostrare che lo spirito umano rimane sempre simile a se

stesso, egli giunge, paradossalmente, alla conclusione che nulla può dirsi che sia certo, se non che tutto è incerto.

Questo gli apre le porte per un viaggio senza fine all’interno di se stesso, solo oggetto possibile della sua ricerca

perché il solo verificabile mediante l’esperienza diretta e, in fondo, il solo interessante per lui: «Io oso non soltanto

parlare di me, ma parlare soltanto di me…». Le parti sono così rovesciate; l’uomo non deve accettare una linea di

condotta precostituita, anche se resa venerabile da una tradizione solida e ormai acquisita, né districare nella selva

di dottrine contraddittorie quella che gli serva come filo conduttore per la propria vita; egli deve piuttosto esprimere

un modo di vita che si propone appunto di essere peculiare e unico. Questa accanita, quasi puntigliosa reductio di

tutta la cultura precedente è stata indubbiamente la grande scoperta di Montaigne, e quella che ha fatto dei Saggi un

 punto fermo nella storia della cultura occidentale. Il libro è sì la grande summa in cui vengono esposte, criticate,

parzialmente accettate o respinte con stupefacente libertà di giudizio le teorie tradizionali più generalmente accolte, il

 grande serbatoio attraverso cui fluisce lo spirito classico e in cui si raccolgono, filtrate, tutte le principali correnti del

 pensiero antico, ma soprattutto è la prima grande rappresentazione moderna dell’uomo nella sua condizione tutta

umana, sradicata, parrebbe, dal suo rapporto esistenziale con la totalità – ma non da quello con la Natura –,

dell’uomo come unico punto di riferimento per ogni azione e ogni giudizio. L’uomo di Montaigne, questo soggetto

«vano, vario e ondeggiante», non è più l’eroe che cerca di superare la propria condizione in uno sforzo tragico o

mistico, ma l’uomo nuovo, l’honnête homme, che accetta se stesso, le sue potenzialità e i suoi limiti. I Saggi sono

perciò il primo grande sforzo, pienamente consapevole, di fare dell’indagine psicologica e morale la sostanza stessa

 dell’attività letteraria, giacché il chiarire a se stessi per mezzo della parola le proprie «fantasie informi» diventa in

realtà un modo di vivere più compiutamente: «Non son tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto

 me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita…».

Da risvolto della edizione Adelphi


 

FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE

QUALCHE RIFLESSIONE SU MICHEL DE MONTAIGNE

Giovanni Greco

Università di Bologna

 

Il  Viaggio in Italia di Montaigne – per molte ragioni già chiarite da voci attendibili e per altre che tenterò qui di esporre

– può considerarsi un classico tout court. Così, preliminarmente, mi chiedo con Roberto Roversi: «Sono ancora i

classici il ponte di liane degli incas, tremolanti su tremendi strapiombi, che con filo di dura corda e pezzetti di legno

uniscono ripe lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di

lunga durata?». E la risposta, per me come per numerosi altri lettori, è sì: non dobbiamo, per esempio, resistere alla

tentazione di attraversare la passerella tesa fra la società organizzata e la giustizia ingiusta dell’emarginazione, o

fra le più diverse sensibilità contemporanee e le antiche tradizioni culturali. Per di più, i classici antichi e moderni ci

consentono di alimentare – è proprio Montaigne a sostenerlo persuasivamente – «un retrobottega tutto nostro,

assolutamente autonomo, ove conservare la nostra libertà, avere il nostro più importante rifugio, godere della nostra

 solitudine».   

 

Montaigne non coltiva pregiudizi di stile, ma ha il culto costante dell’antico classico, a cui consacra riflessioni di

notevole respiro, alla Sainte-Beuve per intenderci. Nel panorama del pensiero moderno poi, come si sa, occupa un

ruolo davvero centrale il nostro Michel Eyquem, signore di Montaigne, latifondista benestante e produttore di vini,

autore sostanzialmente di un’unica, incomparabile opera, i Saggi. Invero, il Viaggio in Italia di cui ora ci occuperemo –

anche leggendolo come uno specchio dell’epoca mirabile e miserabile in cui è stato steso – può considerarsi de

plano un arricchimento ed un potenziamento degli Essais, nonché una chiave con cui penetrare nell’essenza

spirituale del Rinascimento europeo.

 

Montaigne – questo inesauribile maître à penser cinquecentesco che ci accade così sovente di sentir  prossimo alla

nostra inquieta “condizione postmoderna” – soffre sì del mal della pietra, ma trova nelle ragioni terapeutiche pure un

pretesto onde intraprendere un viaggio intensamente desiderato: si reca, pertanto, nelle più rinomate stazioni termali

 dell’epoca, dai bagni di Plombières ai Bagni della Villa (l’odierna Bagni di Lucca), presso cui si sottopone alle varie

cure con una diligenza venata di scetticismo, che non sa farsi troppe illusioni su risultati e giovamenti.

 

Montaigne amava talmente viaggiare, visitare luoghi sconosciuti che, alla stessa stregua del lettore trasportato ed

avvinto dal libro che sfoglia, soffriva nel timore che l’opera stesse per giungere alla conclusione: «aveva tanto

piacere di viaggiare che odiava la vicinanza del luogo in cui si sarebbe dovuto fermare».

 

Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte (poco meno della metà) da un

famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità, ma che – come acutamente chiarito da Fausta Garavini, esegeta

ed interprete straordinaria dell’intera opera montaignana – era tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale.

A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di

saper usare con una certa studiata familiarità.

 

Se il Viaggio in Italia di Stendhal «è uno stupendo romanzo», se quello di Montesquieu – anch’egli, come Montaigne,

grande cittadino di Bordeaux – risulta ictu oculi pieno di vita, colore e gusto, il Viaggio in Italia del nostro homme de

lettres – lo ha sostenuto con dovizia di argomenti Guido Piovene – è certamente assai meno pretenzioso, ma, fra tutti

 i libri riconducibili a questo genere oltremodo apprezzato e fortunato,  è  il più bello e il più moderno in assoluto. Non

casualmente Sergio Solmi riteneva che i lavori di Montaigne rappresentassero un’autobiografia di pensieri più che di

fatti: peraltro, già il grande Sainte-Beuve era convinto che Montaigne, autore superbo per profondità e universalità,

fosse l’ “Orazio dei francesi”: «Il suo libro è un tesoro di osservazioni morali e di esperienza. A qualsiasi pagina lo si

 apra e in qualsiasi condizione di spirito, si può star sicuri di trovarci qualche pensiero saggio espresso in modo

vivido e duraturo, che spicca immediatamente e s’imprime, un bel significato in una parola piena e sorprendente, in

una sola lega forte, familiare o grande».

 

Montaigne ha quella che è forse la dote più rilevante dell’autentico viaggiatore, ossia la consapevolezza di non

essere superiore a nessuno; non accetta che il viaggiatore girovaghi per il mondo lamentandosi di non trovare ciò a

cui è abituato: gli piace per contro adeguarsi alle varie peculiarità territoriali, e mai compirebbe un viaggio per

comprovare un preconcetto. Ciononostante, il confronto fra i paesi tedeschi e gli italiani è a nostro netto svantaggio

per l’ordine, la cucina, il benessere, l’onestà,  gli edifici, le finiture,  le finestre senza vetri,  gli alloggi, le seduzioni

inferiori alle attese, le donne etc.

 

Il “bastione Montaigne”, per utilizzare certe tipologie di Albert Thibaudet, è il bastione dell’uomo interiore, con gocce

di sangue ebraico (la madre era ebreo-spagnola), tradizionalista, moderno, cosmopolita, cattolico, antisistematico,

tant’è che «stoicismo, epicureismo, scetticismo coesistono in lui». Montaigne è, per dirla con Giovanni Macchia, il

maestro del dubbio, del dubbio inteso come antidoto onde tentare di giungere alla verità per quanto concerne sia il

passato sia il presente, il dubbio, ancora, che pervade le ombre e i contorni del futuro. Montaigne sostiene poi che

«la peste dell’uomo è il credere di sapere», e desidera discorsi che «colpiscano il dubbio là dov’è più forte»,

coltivando perciò il dubbio e le cose nella loro essenza. Non per caso Sainte-Beuve definì ore rotundo Montaigne «le

 français le plus sage qui aie jamais existé». Fra le altre cose, il nostro filosofo dirà dei commentatori dei suoi tempi

che «c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose».

 

Montaigne, che ha conosciuto il latino come lingua madre e nutre un’autentica adorazione per la poesia, è nemico

giurato della noia e di ogni forma passiva e sterile di ozio, nonché scrittore che afferma persuasivamente di

sforzarsi di comporre la sua opera con la maggior sincerità possibile: egli sottolinea con energia quest’ultima, rara


 

qualità già nel decisivo ed incisivo incipit dei Saggi  («Questo, lettore, è un libro sincero»),  indicando così con

efficacia il percorso che intende seguire, un progetto che al centro  ha la sua stessa persona («sono io la materia

del mio libro»). Del resto, in uno dei suoi più riusciti autoritratti egli prova a spiegare come vede se stesso e perché

parli di sé in quel suo modo sconcertante e inconfondibile: «Se dico cose diverse di me, è perché mi guardo da

angolature diverse. Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discuto, insolente; casto,

lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato; ingegnoso, ottuso; triste, allegro; imbroglione, sincero;

dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò io lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e

 chiunque si studi attentamente trova in se stesso, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza.

Non posso dir nulla di me una volta per tutte, semplicemente e per sempre, senza confusione e mescolanza, né in

una parola».

 

Montaigne è l’uomo di provincia esemplare, è davvero uno scrittore nato, è una coscienza fine ed irrequieta legata

anche sentimentalmente alle discipline giuridiche, è un letterato che, per così dire, si consegna alla carta, è un

filosofo che ritiene l’aspirazione alla saggezza una sorta di gioia permanente. Ha una visione grosso modo laica di

quel cattolicesimo che stima una pratica virtuosa significativa, il miglior modo (forse) di cogliere elementi di autentica

religiosità.

 

E’ perfettamente consapevole, comunque, della straordinaria difficoltà, per gli uomini, di riconoscere ed afferrare la

verità, convinto com’è che la verità umana, per dirla con Spagnol, si trova più spesso arrotolata fra i panni sporchi

che non nelle pieghe delle solenni cartapecore. Gli è inoltre ben noto che, non di rado, la conoscenza del vero è

conoscenza del nero (Rigoni). Montaigne sembra persino credere che, se è opportuno tendere sempre e comunque

 alla verità, essa tuttavia va probabilmente rivelata solo di quando in quando. In piena sintonia con lui è un altro

grande moraliste, quell’Oscar Wilde persuaso del fatto che «la verità di rado è pura, e non è mai semplice». Ancora,

basta una semplice lettura dell’opera montaignana per comprendere non solo quanto gli stessero a cuore quei temi e

 problemi di natura morale e pedagogica che andava costantemente indagando nei suoi diletti libri, così come nel

proprio non meno amato percorso esistenziale, ma anche quanto fosse forte in lui – che reputava fra l’altro,

evangelicamente, l’uomo un umilissimo vaso d’argilla – il gusto per le sentenze bibliche e classiche.

 

La sua Weltanschauung sfocia nel concetto di salute fisica e morale, come acutamente sostenne in pagine famose

Sergio Solmi, che definì la “salute” di Montaigne una qualità innata, un elementare e supremo equilibrio di vita. Quindi:

 tener saldo il fisico e non consentire alcun condizionamento alla moralità, per definire un modello di vita preciso e

costruttivo. E non mi sembra davvero un caso che uomini tutt’altro che ingenui e sprovveduti abbiano deciso di

formarsi in maniera a un tempo virtuosa e serena, severa e tollerante, virile e delicata, leggendo e rileggendo

Montaigne: in verità, gli Essais sanno suscitare come ben pochi libri, nell’animo del lettore non distratto, il desiderio

autentico, la volontà di autoeducarsi in maniera equilibrata.

 

Nei Saggi – ove l’antropologo (in senso etimologico) prevale sul cronista, che la fa invece da padrone nel Viaggio in

Italia – la preoccupazione maggiore di Montaigne è, come accennato, che le sue pagine siano immediatamente

percepite come un libro sincero. Aspira perciò a presentarsi senza infingimenti ed assicura che, se si fosse trovato

 fra popoli primitivi, si sarebbe denudato completamente: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice,

naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno i miei difetti

presi sul vivo e la mia immagine naturale».


 

FILOSOFIA PSICANALISI SENSO

L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno è scaturito, al termine del mio percorso, come ultima risposta

all’interrogativo che mi si era imposto fin dall’infanzia:

– Cosa vuole dire che è ciò che è?

Incalzata da questo interrogativo, durante l’adolescenza ne cercai risposta nel pensiero filosofico. Ma neppure

l’ontologia hegeliana, pur nella sua visione di sintesi, mi si presentava come esaustiva, in quanto la vita, nella sua

concreta oggettualità, ne era irrecuperabilmente esclusa. La vita stessa allora mi costrinse a cercare la risposta

nella scienza biologica, la quale immediatamente mi svelò l’ordine evolutivo delle forme viventi come l’ordine di una

dinamica evolutiva del pensiero. Mi sembrò allora giunto il momento di tornare alla filosofia, per trovare la sintesi tra

spirito e materia nella ritrovata coincidenza tra pensiero e vita. Ma ancora una volta la vita mi indicò che era un’altra

la strada da percorrere, quella della riflessione della vita su se stessa: la strada della psicoanalisi. Fu così che

scoprii anzitutto che il metodo psicoanalitico è l’attuazione concreta della dialettica hegeliana, in quanto in esso è il

soggetto umano, e non più un soggetto astratto, a prendere da sé la distanza riflessiva per conoscere se stesso; e

scoprii ancora che ciò di cui il soggetto umano fa conoscenza è lo stesso metodo del conoscersi del Pensiero che,

a partire dal primo manifestarsi dell’Essere, quale proiezione del Soggetto Pensante Uno fuori di sé, ha dato luogo a

tutto ciò che è. A questo punto un nuovo tentativo di evidenziare la sintesi tra spirito e materia in una rilettura

dialettica del pensiero filosofico fu ancora una volta reindirizzato verso una trattazione scientifica dello strutturarsi

del cosmo, a partire dal primo farsi della materia quale oggettiva-zione del Pensiero nel pensato di sé che è ancora

lui stesso. È qui che in me si fece l’esperienza vivente della originaria dualità dell’Uno e si compì un ulteriore salto

riflessivo, grazie al quale la logica della separazione tra soggetto e oggetto si risolse nella logica unitaria dell’in-

tersoggettività. Da qui in poi, grazie alla progressiva consapevolizzazione di questo più elevato livello di riflessione

come realtà concreta nella quotidiana esperienza dell’intersoggettività, il Pensiero affrontò e infine risolse il problema

 della coincidenza tra il noumenico e il fenomenico; coincidenza nella quale esso riconobbe la sua realtà di Unico

Vivente. È a questo punto che la vita mi ha risospinto infine verso la filosofia, per ripercorrere la via da essa

tracciata a partire dalla crisi del Pensiero Uno, già colta da me adolescente, scaturita all’inizio del XX secolo dalla

messa in questione del pensiero hegeliano e risolta all’inizio del nuovo millennio nella visione unitaria dell’Essere

quale punto di arrivo del pensiero psicoanalitico. E da questa visione unitaria dell’Essere è emersa l’ultima risposta

all’interrogativo essenziale della mia esistenza:

– Cosa vuole dire che è ciò che è?

– Vuole dire che ciò che è è l’esserci della presenza al cospetto d’altra presenza quale è infinito della vita.

 

In : Silvia Montefoschi, L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno. Escursione nella filosofia del XX secolo, Zephyro

 Edizioni, Milano 2006

filosofia religione

Qual è la differenza tra religione e filosofia?

 

Per la filosofia la trascendenza è l’uomo stesso che, pur essendo un ente finito, è capace di pensare l’infinito. La

religione stabilisce una scissione tra immanenza e trascendenza, proponendo se stessa come tramite tra queste

due entità altrimenti tra di loro incommensurabili

 

Massimo Cacciari

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Autore: Paolo Ferrario

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