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Eppure esiste, questa valenza multipla del silenzio. A me l’ha svelato la traduzione, e l’ha svelato nel modo più diretto e pregnante e inequivocabile: attraverso le parole. Perché, a differenza dell’italiano, che è così essenziale (direi quasi insufficiente) con il silenzio, la lingua dalla quale si diparte il mio lavoro di traduzione, cioè l’ebraico, conosce almeno tre radici semantiche diverse, per dire “silenzio”. Tenete conto che l’ebraico è una lingua estremamente primitiva, antica. Anzi, ancestrale. È sostanzialmente sempre lo stesso, dalla Bibbia ad Amos Oz e A.B. Yehoshua: è una lingua dalla continuità strabiliante. Ma è anche una lingua molto elementare, molto semplice nella sua struttura – non esistono i tempi ma solo due modi diversi dei verbi, non esiste il verbo avere… – e anche nel lessico. Fanno eccezione alcuni campi semantici, vuoi per abbondanza vuoi per carenza: ci sono molte parole per dire “pioggia” e hanno sempre una connotazione decisamente positiva, di auspicata benedizione (l’ebraico abita in un luogo arido). Ce ne sono moltissime per dire “luce” – quella sua terra ne ha tanta, e di gradazioni, colori, intensità diverse.
Anche il silenzio fa parte di quei rari casi in cui l’ebraico è generoso di parole. E siccome non lo è mai invano, perché è una lingua essenziale dove nulla è superfluo o lì per caso, questa abbondanza è per me un invito a esplorare i territori del silenzio. Oltre che, naturalmente, una sfida traduttiva: come faccio, vertendo in italiano il testo, a rendere giustizia alla varietà di silenzi che l’ebraico conosce – con una parola soltanto?
Che guaio…
Ad ogni modo, eccomi di fronte a più parole per dirlo: sheqet, dom, demama, lishtok. Certo, apparentemente sono suoni e basta. Non dicono nulla, a meno di conoscere la lingua in cui si esprimono. Cercherò di darvi qualche traccia.
Sheqet è il silenzio della quiete, della serenità. Però è tassativamente silenzio, assenza di suoni – cosa che la parola “serenità” non rende, ovviamente. È un silenzio sommesso, pacato, sgombro ma non del tutto.
Lishtok è un infinito verbale (li- è semplice prefisso). Indica il silenzio imperativo, quello che si impone alla parola. È ingiunzione ai bambini in classe. È un silenzio un po’ rabbioso, un po’ rivendicativo. Dovrebbe essere assoluto, almeno per un po’. Significa “zittimento”, in sostanza, e viene necessariamente dopo un rumore molesto. Ecco, anche le parentesi intorno al silenzio ne determinano il significato, la parola: quel che c’è prima e quel che viene, forse, dopo.
Dom, invece, è un silenzio abissale. Fa paura, come l’ignoto. È lo stato del mondo prima che Dio lo spezzasse parlando: nella Bibbia la creazione è dire le cose. Tutto si fa attraverso la parola (eccetto l’uomo, che è ricavato dalla polvere del suolo, ultima produzione prima che cali il sabato di riposo divino, unico essere che Egli fa, di seconda mano…). Dom è onomatopeico: è un rintocco sordo di campana, un’eco profonda – di silenzio. Chiude il futuro, tronca la voce con il nulla. Forse, era il silenzio di prima che il mondo fosse creato con la voce divina.
Da questo silenzio cosmico ne deriva un altro, che è come una versione più conciliante, più afferrabile. Non a caso porta la desinenza femminile, che nell’ebraico si usa per dare una sfumatura di grazia alle parole maschili, o per indicare l’astrazione.
Demamah è una parola bellissima, secondo me. Sottile, discreta, accattivante. Indica il silenzio in cui il profeta Elia trova Dio: Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo, da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, una voce di silenzio sottile. Come l’udì Elia si coprì il volto con il mantello. Uscì e si fermò all’ingresso della caverna. Ed ecco venne a lui una voce che gli diceva: che cosa fai qui Elia?
(1Re 19,11-13).
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da: Elena Loewenthal: Le parole del silenzio | Accademia del Silenzio.
