La storia delle arti è ricca di personaggi, figure, performance, oggetti e spazi connotati negativamente con cui i fruitori stabiliscono un tipo di relazione empatica ambivalente e destabilizzante, fatta di attrazione e di repulsione: l’empatia negativa. Da Medea al carnefice di san Matteo dipinto da Caravaggio e dalla fotografia di Mapplethorpe, fino ai Sette Palazzi Celesti di Kiefer e al Joker folle e derelitto di Phillips, c’è qualcosa, nel punto di vista del male, che ci conquista e ci obbliga a interrogarci su noi stessi molto più di quanto siano in grado di fare espressioni artistiche edificanti. Questa ampia e affascinante ricerca, che spazia dalla letteratura al cinema, dal teatro alle arti figurative, indaga il cuore nero dell’empatia.
STEFANO ERCOLINO
È professore associato di Critica letteraria e Letterature comparate presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Per Bompiani ha pubblicato Il romanzo-saggio, 1884-1947 (2017), Il romanzo massimalista (2015) e, con Massimo Fusillo, Empatia negativa (2022).
Come diceva Italo Calvino, le fiabe sono vere. E così La regina delle nevi, Cenerentola, Il pifferaio magico e altre storie dei fratelli Grimm ricalcano i passaggi fondamentali dell’esistenza, mostrano dove andare e come procedere, addestrano alla vita. Dunque, parlano di noi, ognuno ha dentro di sé un racconto che gli assomiglia. Orchi e fate, iniziazione e paura, abisso e speranza; come le storie di analisi, le fiabe si intrecciano nel farsi della vita e ci forniscono ciò di cui abbiamo maggiormente bisogno: parole che ci possono salvare. Effetti terapeutici si possono trarre anche dalle favole dei nostri giorni, raccontate nell’immaginario poetico e cinematografico di Emily Dickinson, Federico Fellini e altri. La creatività diventa cura, in cui tutto è movimento, e le narrazioni passano dall’inconscio personale a quello collettivo, alla speranza di un lieto fine. Così oggi La fiaba siamo noi dà un senso alla riscoperta di una possibile salvezza. Come scrive Hillman: “Le parole sono come cuscini, disposte nel modo giusto alleviano il dolore”.
Biografia dell’autore
Lella Ravasi Bellocchio
Lella Ravasi Bellocchio, analista junghiana, è membro dell’International Association for Analytical Psychology. Nelle nostre edizioni ha pubblicato, tra gli altri, Sogni senza sbarre. Storie di donne in carcere (2005), Di madre in figlia (2010) e La fiaba siamo noi (2022).
Nel 1936, quando scrisse la Storia dell’eternità, Borges lavorava in una biblioteca rionale dimenticata in un quartiere periferico di Buenos Aires, dove la topografia ortogonale della capitale argentina si frastagliava in terreni incolti e officine e ortaglie, e dove il tempo sembrava non passare mai.
Fu in quel periodo che si delinearono nella sua opera i tratti che oggi chiunque definirebbe, a colpo sicuro, borgesiani, e in primo luogo l’inclinazione a considerare tutto come materiale letterario. Così, per esempio, teologia e metafisica potevano diventare ai suoi occhi cronache della vita di un personaggio chiamato eternità, del quale egli si proponeva di restituire, attraverso episodi ben vagliati, alcune delle fasi che punteggiavano una vita infinita.
Senza impedirsi, comunque, di accostare queste storie a divagazioni sulla metafora, sui traduttori delle Mille e una notte e sull’arte dell’insulto. Tale procedimento, usato da Borges con discrezione e ironia, ha una straordinaria forza dissestante, nel senso che scalza ogni affermazione dal suo piedistallo di pretesa realtà, come se la realtà stessa non fosse che un genere letterario. E nel contempo ci introduce a un nuovo genere, di cui Borges seppe essere, per un paradosso a lui congeniale, insieme il fondatore e l’epigono.
Maria Cristina Palma ha una vita all’apparenza perfetta, è bella, ricca, famosa, il mondo gira intorno a lei. Poi, un giorno, riceve sul cellulare un video che cambia tutto. Nel suo passato c’è un segreto con cui non ha fatto i conti. Come un moderno alienista Niccolò Ammaniti disseziona la mente di una donna, ne esplora le paure, le ossessioni, i desideri inconfessabili in un romanzo che unisce spericolata fantasia, realismo psicologico, senso del tragico e incanto del paradosso.
Estraniarsi dal mondo e perdere la fermata del treno per colpa di un romanzo: è uscito La vita intima, il nuovo libro di Niccolò Ammaniti. Oltre che una bellissima storia è una presa di posizione sulle questioni di genere.
Ammaniti lavora scrupolosamente alle sue trame, le racconta agli amici per vedere che effetto fanno. E da qualche tempo sceglie come protagoniste le donne. Forse perché a leggere romanzi sono rimaste solo loro.
Chissà come reagiranno le lettrici al comportamento della protagonista, che tende a rimuovere i suoi desideri e ad attribuirli a una perversa esuberanza maschile.
Maria Cristina Palma ha una vita all’apparenza perfetta, è bella, ricca, famosa, il mondo gira intorno a lei. Poi, un giorno, riceve sul cellulare un video che cambia tutto.
Nel suo passato c’è un segreto con cui non ha fatto i conti.
Come un moderno alienista Niccolò Ammaniti disseziona la mente di una donna, ne esplora le paure, le ossessioni, i desideri inconfessabili in un romanzo che unisce spericolata fantasia, realismo psicologico, senso del tragico e incanto del paradosso.
Proust distingue la mera vita animale, ossia tutto ciò che la natura ci assegna quando veniamo al mondo, da bíos, ciò che il nostro essere-vita diviene relazionandosi nel mondo. Per ciascun personaggio precisa i percorsi della vita vissuta e, anticipando Martin Heidegger, come la propria Zoé esprima la loro biografia in funzione degli altri personaggi; racconta inoltre la temporalità epigenetica della loro esistenza attraverso l’uso di zooicone, anticipando in ciò Conrad Waddington. Ne scaturisce uno zoo di 214 diverse specie esaminate per 1.026 volte capace di svelare sia un Proust aracnofobico e nasofilo sia che ciascuno di noi è un con-dividuo, un intreccio di unità e molteplicità. Siamo, in definitiva, una composizione dei medesimi valori e disvalori che si esprimono in dipendenza delle inaudite felicità e meravigliose cadute che il tempo ci riserva.
Indice
Introduzione Zoé: schede animali Bíos: personaggi e animali Epigenetica dei personaggi: zoé (vita) e bíos (vita) Con-dividui Appendice. Gli animali della Recherche Bibliografia Indice degli animali
Maria Cristina Palma ha una vita all’apparenza perfetta, è bella, ricca, famosa, il mondo gira intorno a lei. Poi, un giorno, riceve sul cellulare un video che cambia tutto.
Nel suo passato c’è un segreto con cui non ha fatto i conti.
Come un moderno alienista Niccolò Ammaniti disseziona la mente di una donna, ne esplora le paure, le ossessioni, i desideri inconfessabili in un romanzo che unisce spericolata fantasia, realismo psicologico, senso del tragico e incanto del paradosso.
Ecco una domanda filosofica che mi assale mentre attendo l’arrivo del risveglio dal sonno invernale: assaporiamo con gli occhi, col palato, col naso o con l’insieme dei tre sensi?
Come l’opera di Proust insegna, quel gusto della madeleine bagnata nell’infuso di tè o di tiglio, scatena emozioni che fanno risalire alle immagini di un lontano episodio dell’infanzia (Così ora tutti i fiori del nostro giardino e quelli del parco di Swann, e le ninfee della Vivonne, e la buona gente del villaggio e le loro casette e la chiesa e tutta Combray e dintorni, tutto quello che vien prendendo forma e solidità, è sorto, città e giardini, dalla mia tazza di tè”).
A significare quindi che la fabbricazione della memoria necessita di agganci forniti dai canali percettivi: più agganci possiedi, più sensi utilizzi, più dettagli consideri, maggiore sarà la possibilità di raggiungere un ricordo sopito.
«Un giorno ci verrà ridato tutto il tempo perso, i baci che non ci siamo dati, i tramonti che non abbiamo visto insieme. Verrà il giorno in cui ci perdoneremo le vite vissute, le scelte fatte, le fughe in direzioni opposte. Fino a quel giorno io ti aspetterò qui. Nella nostra stanza a picco sul mare.»
Ci sono momenti che restano indelebili. È a questo che pensa Giovanni mentre percorre la litoranea che lo porta a casa. Una casa da cui vuole stare lontano e in cui non torna da vent’anni. Vent’anni di assenza, di silenzio, di sensi di colpa.
Tutto è cominciato lì, a Villa Rosa, di fronte a un mare immenso e cristallino: una sera d’estate l’adolescente Giovanni, affacciato alla finestra della sua stanza, aveva visto una ragazza lottare tra le onde. Senza pensarci, era corso in spiaggia e si era buttato in acqua per salvarle la vita.
Quel momento aveva cambiato tutto: Giovanni ancora non lo sapeva, ma il suo destino e quello della ragazza sarebbero stati inesorabilmente legati. Ora, mentre i cancelli di Villa Rosa si riaprono, i ricordi riaffiorano vividi, prepotenti, e Giovanni si trova a fare i conti con il passato e con un sentimento che, forse, non ha mai dimenticato.
Dalla sorprendente penna di Miriam Candurro, una storia delicata e feroce al tempo stesso. Un romanzo di formazione in cui luce e ombra si fondono in modo magistrale per dare vita a personaggi indimenticabili.
Miriam Candurro è nata a Napoli nel 1980. Attrice e volto noto del piccolo schermo, Miriam ha partecipato a popolari serie tv come, per esempio, Capri e I Bastardi di Pizzofalcone ed è una delle protagoniste più amate della soap cult di Rai 3 Un posto al sole. Questo è il suo romanzo per adulti d’esordio
Asor Rosa è stato uno dei protagonisti del dibattito politico e intellettuale italiano. Ma a scandire la sua vita è stato soprattutto l’insegnamento universitario
Petrarca è un viaggio nel ricco mondo della cultura italiana con contributi dalle redazioni regionali della TGR, una tendenza a occuparsi di fatti culturali scrutando dietro le quinte, un occhio di riguardo ad arte e culture meno frequentate
Unico nel suo genere, questo libro contiene due testi.
Il primo è la storia di Marina e Carlo, trascurati da bambini e innamorati per bisogno, che per divergenze di carattere faticano a vivere in serenità. Quando lui si ammala, affrontano tante ansie; lei s’innamora del giovane Nino… L’affetto e la stima per Carlo, la ricerca di consapevolezza basteranno a risolvere i problemi? Scorrevole e vivace (anche per i vividi personaggi del tenero fi glio Andrea e della dolce zia-mamma Clara), ora sommesso ora esilarante, il racconto svela i suoi sensi pian piano, lungo i capitoli e le sequenze che si alternano musicalmente come una buona sonata per l’anima. Forse un thriller psicologico, Pennavaja l’ha scritto per tutti: tutti abbiamo sogni, desideri, utopie; e il bisogno di pacificarci con noi stessi, con il nostro passato e il nostro destino.
Il racconto dell’autrice (da 40 anni scrittrice in Germania, Olanda, Italia, docente nella sua “Casa della scrittura”) è autobiografia “filtrata”: frutto di esercizio intenso e appassionato in uno stile che nutre ed emoziona.
Il secondo, prezioso testo è un saggio che, analizzando brani di narrativa europea (Kafka, V. Woolf, Alfred Polgar, Giuseppe Pontiggia, Silvio D’Arzo, Carlo Coccioli, Ivan Della Mea, Susanna Tamaro, Cristina Pennavaja, altri), insegna a evitare le trappole dell’autobiografi a diretta e spontanea. L’autrice, traduttrice esperta di musica, dà le regole fondamentali per non cadere negli errori di un linguaggio sciatto, “rumoroso” anziché musicale; mostrando esempi di uno stile semplice ma ricco, che produce scritti buoni per l’oggi e per il domani. Nello stesso tempo svela i segreti del suo tradurre e narrare, e spiega come è riuscita a costruire racconti sapienti e avvincenti (lodati da Pontiggia, Giovanni Raboni, Giovanni Mariotti, Meeten Nasr, più volte premiati). Fornisce anche qualche variante, che è tanto utile per penetrare nel laboratorio creativo di uno scrittore nonché incoraggiante.
Questo saggio critico e didattico è rivolto anche a chi scrive per diletto; sarà di grande aiuto per chi (magari tastando a lungo nel buio) vuole creare un racconto o un romanzo davvero artistico.
Cristina Pennavaja è nata a Roma nel 1947. Ha vissuto in Germania e in Olanda, anche come ricercatrice universitaria; a Cambridge (Inghilterra) e ad Alessandria d’Egitto. Dopo studi di filosofi a e di marxismo, da 40 anni si dedica con passione a scrivere bene. Allieva di Giuseppe Pontiggia, ha poi dato vita alla “Casa della scrittura” tenendo per quasi vent’anni lezioni su retorica e stile nella narrativa. Traduttrice dal tedesco per Adelphi, scrittrice ormai esperta, ha pubblicato racconti e saggi in Germania, Olanda e Italia presso numerosi editori. Vive a Milano. Canta in un coro, cura le sue amiche piante, insegna a bambini immigrati. Ha avuto tre gatte, amate e longeve. Cerca di praticare la mindfulness buddhista. Ha una gemella e un figlio padre di due gemellini.
Questa mattina, a Milano Bicocca, ho acquistato questo folgorante libro che era ben esposto sul tavolo della Libreria Cortina:
Ella Berthoud, Susan Elderlin, CURARSI CON I LIBRI: rimedi letterari per ogni malanno, edizione italiana a cura di Fabio Stassi, Sellerio editore, Palermo, 2013
Di ritorno, sul treno, l’ho sfogliato ed ho letto alcune schede di miei e nostri autori prediletti.
So che questo libro avrà un posto stabile e duraturo nelle nostre vite.
Vi si sentono le biografie delle autrici e del curatore italiano. Loro hanno saputo trasmettere, in schede talvolta perfette per equilibrio di linguaggio e capacità di riassunto, il distillato della creazione letterarie degli autori e delle autrici.
Mi viene meglio parlarne in due audio, proprio per catturare all’istante questa sensazione di avere in mano qualcosa di prezioso…
Narratore, saggista, traduttore, poeta, regista: tante sono le facce di Gianni Celati, uno dei maggiori scrittori italiani del XX e del XXI secolo. Ora se ne aggiunge un’altra, quella del parlatore. Sempre disponibile nei confronti dell’avvenimento fortuito, dell’incontro estemporaneo, Celati si intratteneva indifferentemente con studiosi affermati e con perfetti sconosciuti, con estimatori della sua opera e con quanti di lui non avevano mai sentito parlare. Le pagine di questo volume di conversazioni e interviste danno modo di riascoltare la sua voce inconfondibile. Sono sessantasette incontri apparsi su giornali, riviste, libri o registrati nel corso di trasmissioni radiofoniche e televisive. Con lucidità non comune, talvolta occultata in toni bonari e divaganti, Celati espone le sue idee sul lavoro dello scrittore, sulla letteratura, su autori del presente e del passato, sull’arte, sul cinema, sulla musica rock, sulla filosofia e su tanto altro. L’autore più antiletterario della nostra tradizione e insieme il più appassionato cultore della nostra letteratura traccia così la sua rotta all’interno di quella attività artistica che è lo scrivere, da lui concepito come atto artigianale, ricerca senza posa di forme e pensieri imprevisti al riparo da ogni dogma e parola d’ordine. Sempre pronto a rimettere in discussione la sua idea del raccontare, e lontanissimo dal ruolo dell’autoritario dispensatore d’indicazioni e istruzioni, Celati si conferma un autentico maestro segreto, di stile e di vita.
INDICE
Il disponibile quotidiano, di Marco Belpoliti
Nota dei curatori
Il transito mite delle parole. Conversazioni e interviste 1974-2014
Cinque domande a Gianni Celati (1974)
Avanguardie e falsa alternativa (1977)
Beatles & filosofia (1979)
Intervista sull’arte affettuosa (1979)
Dissenso a tempo di rock (1980)
La scrittura italiana oggi (1982)
L’incertezza dello sguardo (1982)
L’avventura non deve finire (1982)
Padania-Texas (1985)
Racconto la gente che ho ascoltato (1985)
Forme di finzione, rifugi contro la mediocrità (1985)
L’esitazione del pensiero (1985)
Corpi nello spazio (1985)
Per lo scrivere non c’è rifugio (1986)
Scrivere è come fare yoga (1988)
Delegati alla rappresentazione (1988)
Scuola aperta. A colloquio con gli scrittori (1989)
Il transito mite delle parole. Narrare è artigianato e cerimoniale (1989)
Le virgole di Celati (1989)
La novella e il nuovo paesaggio italiano (1990)
La fuga dello straniero (1990)
Non fatti, ma parole! (1991)
Narratore delle pianure (1991)
Il sentimento dello spazio (1991)
Il narrare come attività pratica (1992)
Scrivere è un viaggio nella paura, con le cose che ci chiamano… (1993)
Ferrara (1994)
Celati, parole dalle riserve (1995)
«Un lavoro dedicato ai luoghi e ai momenti». Gianni Celati sul lavoro con Luigi Ghirri (1995)
La lettura dei classici come terapia (1995)
I sonetti di Vecchiatto (1997)
All’altezza del simulacro (1998)
In viaggio verso il niente (1998)
Latitudine Celati (1999)
Elogio della novella (1999)
Teatro come incantamento (2000)
L’assoluto della prosa (2002)
Documentari imprevedibili come i sogni (2003)
Qualche idea sui luoghi e il lavoro con Luigi Ghirri (2003)
La realtà e la storia sono dei miti (2003)
Mondo senza mondo (2005)
La lingua dei gamuna (2005)
Celati, ovvero la scrittura come visione (2005)
Parola con vista (2006)
Intervista per la pubblicazione basca di Parlamenti buffi (2006)
Guardare è un fatto di immaginazione (2006)
Letteratura come accumulo di roba sparsa (2007)
Riscrivere, riraccontare, tradurre (2007)
Memoria su certe letture (2007)
Celati, scrittore e regista (2008)
A passeggio con un rabdomante (2008)
Celati a Zurigo (2009)
Vecchie e nuove Comiche (2009)
Su Jonathan Swift e lo sviluppo degli alieni (2010)
Sulla Fantasia, il Badalucco e la Contentezza (2005-2010)
Diol Kadd (2010)
Dialogo sulla comicità (2010)
Da «il Caffè» di Vicari a Ghirri (2011)
Il disponibile quotidiano (2011)
Gianni Celati sul suo cinema (2011)
La valle del Po vista con gli occhi di Gianni Celati (2011)
Le opere e i giorni di un ultimo sapiente (2011)
Camminare, scrivere e Robert Walser (2012)
Le fatiche di Ulisse (2012)
Il grande scrittore si racconta (2013)
«Eccesso di serietà, limite per la scrittura» (2013)
«La storia vale solo se sfugge dalle mani» (2014)
Bibliografia delle interviste
Indice dei nomi
L’AUTORE
GIANNI CELATI
Di Gianni Celati (Sondrio 1937 – Brighton 2022) Quodlibet ha pubblicato Conversazioni del vento volatore (2011), Comiche (2012, già Einaudi, 1971), La banda dei sospiri (2015, già Einaudi, 1976), Studi d’affezione per amici e altri (2016), Quattro novelle sulle apparenze (2016, già Feltrinelli, 1987), Narrative in fuga (2019), Costumi degli italiani (2020). Presso altri editori sono stati pubblicati Le avventure di Guizzardi (Einaudi, 1972), Lunario del paradiso (Einaudi, 1978), Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985), Verso la foce (Feltrinelli, 1988), Recita dell’attore Attilio Vecchiatto nel teatro di Rio Saliceto (Feltrinelli, 1996), Avventure in Africa (Feltrinelli, 1998), Cinema naturale (Feltrinelli, 2001), Fata Morgana (Feltrinelli, 2005), Sonetti del Badalucco nell’Italia odierna (Feltrinelli, 2010), Passar la vita a Diol Kadd. Diari 2003-2006 (Feltrinelli, 2011), Romanzi, cronache e racconti («I Meridiani», Mondadori, 2016). Gianni Celati ha tradotto, tra gli altri, Swift, Melville, Conrad, Stendhal, Céline; nel 2013 presso Einaudi è uscita la sua versione dell’Ulisse di James Joyce. Parte dei suoi primi saggi è raccolta in Finzioni occidentali (Einaudi, 1975), di prossima riedizione presso Quodlibet.
La distanza nasconde, sfuma o aiuta a vedere meglio? Ernesto Ferrero incolla come sulle pagine di un album le immagini di editori, scrittori, scienziati, artisti che hanno fatto grande la cultura del Novecento italiano, «classici contemporanei» con cui dialogare. Una galleria di penetranti ritratti dal vivo e da vicino, per reinterpretare la nostra storia recente.
Nelle sue vesti di editore, direttore del Salone del libro e scrittore, Ernesto Ferrero ha avuto il privilegio di conoscere molti grandi protagonisti della nostra cultura. Ha lavorato con loro, ne ha curato i libri, ha goduto della loro amicizia. E ce ne consegna ritratti brillanti e rivelatori, restituendoli alla loro verità umana. Sono «maestri, padri e fratelli elettivi, amici, compagni di lavoro e di viaggio, presenze vive con cui dialogare». Forti personalità che hanno ancora molto da dire e da insegnare. Ecco sfilare in un intreccio di incontri e di storie sorprendenti editori come
Einaudi,
Garzanti,
Inge Feltrinelli,
Roberto Calasso,
Elvira ed Enzo Sellerio.
Padri nobili come
Pavese,
Montale,
Bobbio,
Mila,
Foa,
Revelli
e Rigoni Stern.
Signore di ferro come
Natalia Ginzburg,
Elsa Morante,
Lalla Romano,
Chichita Calvino.
Maghi e funamboli come
Gianni Rodari,
Bruno Munari,
Fruttero & Lucentini,
il fisico Tullio Regge,
Guido Ceronetti.
Inquieti come
Parise,
Del Buono,
Sciascia,
Consolo,
Celati.
Vittime di destini crudeli, come
Fenoglio,
Atzeni,
Del Giudice.
Mattatori come
Guttuso,
Pasolini,
Garboli,
Eco.
In apertura, due autori a cui Ferrero si è sentito particolarmente vicino,
Italo Calvino
e Primo Levi.
Veniamo introdotti nel backstage della loro vita professionale e privata, alla scoperta di tratti rivelatori, magari segreti o poco noti, tra arte e vita, dramma e commedia, confessione e narrazione. Sono capitoli di un avvincente romanzo della conoscenza, sullo sfondo di una stagione di intense passioni intellettuali e civili, colte nella loro vitalità creativa.
Chi racconta questa storia di scrittori e editori, stampatori e mecenati, talenti e miserie è stato un protagonista dell’editoria italiana del Novecento. Ha lavorato in case editrici medie e grandissime, si è occupato di patrie lettere e letterature straniere, soprattutto ha incontrato persone e cose, attraversato epoche, inventato collane, assunto e licenziato.
Chi racconta somiglia abbastanza all’editoria italiana, elegante e iraconda, generosa e umbratile, colta e commerciale. Perché l’editoria, si legge in queste pagine, è figlia dell’intellettualità e del commercio, non appartenendo in fondo a nessuno dei due.
E poi, annosa questione, sono gli editori capitani d’azienda? Esistono ancora come i primi trent’anni del Novecento ce li hanno consegnati?
Chi racconta ricostruisce con passione e puntualità una storia che si suppone magmatica, casuale, con accelerazioni improvvise e sacche, costellata di invidie e affetti, rabbie e riconciliazioni, amori e antipatie.
Chi racconta sa che attraverso l’editoria si può raccontare la storia d’Italia, quella tra le due guerre e quella degli anni di piombo, quella dei magnifici anni Ottanta e la più recente, quando i protagonisti sono forse meno eroici ma più inattesi.
Con tono epico e comico, affettuoso e tagliente, con occhi distanti e nel contempo vicinissimi, Gian Arturo Ferrari ci accompagna nelle avventure umane e culturali degli uomini e delle donne che si sono occupati di scegliere come, quando e quali libri pubblicare in un paese in cui tutti scrivono e pochi leggono.
Se esiste un filo che lega le poesie e le prose uscite dalla penna di Alda Merini, e raccolte in questo volume, è un filo intessuto di follia e verità, di amore e corpo, che avvolge il buio dell’esistenza. I versi più indimenticabili e gli incipit più riusciti della poetessa dei Navigli paiono infatti scritti nella notte più profonda, spremendo l’oscurità per ricavarne lampi di luce. Questa antologia originale e preziosa è un omaggio al talento inarginabile dell’autrice e insieme un viatico per i lettori che ancora non la conoscono. Tra le sue pagine scopriamo un ritratto inedito di Alda Merini attraverso i suoi testi più noti e altri dimenticati: dalle poesie di Un’anima indocile, La volpe e il sipario e Le madri non cercano il paradiso agli aforismi di Nuove magie e Colpe di immagini senza dimenticare la prosa, con Lettere a un racconto e La nera novella, unico esperimento noir della sua ampia produzione. Respiro nella notte ci immerge nel mondo della poetessa più amata e citata della nostra contemporaneità, un mondo in cui la follia è paura, solitudine, lavaggio del cervello, ma anche atto di creatività suprema. Un mondo fatto di amici veri o immaginati, di echi di sogni lontani e di corpi che reclamano carezze, vicinanza e amore. Perché, in fondo, Alda Merini è la poetessa dell’amore: quello che consuma e salva, che nasconde l’urgenza di essere visti e ascoltati nonostante le nostre fratture. L’amore più alto, cantato in quell’impasto unico e inarrivabile tra la lingua comune – con la quale tutti noi raccontiamo le emozioni – e quella letteraria, quasi mistica, che è la cifra profonda della parola meriniana.
Illustrazione di Valeria Petrone per Gelsomino nel paese dei bugiardi di Gianni Rodari
In edicola ogni venerdì fino a giugno la collana in 32 volumi con i capolavori del maestro di Omegna. Arricchiti dai disegni dei più famosi illustratori italiani, da Bruno Munari a Giulia Orecchia
Adattarsi è una storia di emozioni, di perdite, di miracolosi ritrovamenti, di paure, di smarrimenti, di rabbie, di speranze e di infinite dolcezze. Ed è anche una storia di montagne, di rocce, di acqua e di vento, di luoghi e solitudini.
La vicenda è abbastanza semplice, nella sua terribile realtà: in una famiglia della montagna francese nasce un bambino, è bello e sorride e tutti vengono a rendergli omaggio. Ma dopo poco tempo ci si accorge che è gravemente disabile: non vede, non può muoversi, non crescerà, morirà presto.
Questo sconvolge tutti gli equilibri della famiglia, ridefinendo per sempre il destino dei due fratelli, il maggiore e la minore, e dei suoi genitori. Perché questo bambino con gli occhi scuri che si perdono nel vuoto, è un neonato eterno, un bambino «inadatto», e traccia una frontiera invisibile tra la sua famiglia, gli altri e il…
In un’epoca di nostalgia, politica e non solo, ha vinto il premio Nobel per la Letteratura Annie Ernaux, la scrittrice che si è occupata in maniera vasta e ossessiva della memoria.
Affrontare i libri di Annie Ernaux è un’esperienza fondamentale per un lettore, e lo è per le ragioni profonde che legano la letteratura all’esistenza.
Molte persone che non hanno mai letto Ernaux si chiedono da dove iniziare: iniziate da dove volete, forse ricreando come meglio riuscite il percorso delle origini, dei traumi e dei successivi sviluppi, al quale ha dedicato la parte maggiore dei propri sforzi.
C’è il libro sul padre, Il posto, quello sulla madre, Una donna. C’è L’altra figlia, che parla della sorella morta prima che Ernaux nascesse, e di cui Ernaux scopre l’esistenza per caso, da bambina, ascoltando una conversazione: «I genitori di un figlio morto non sanno ciò che il loro dolore fa a quello vivo». La sorella, in questo senso, diventa un simbolo dell’indicibile, dell’anti linguaggio. Di tutto quello che Ernaux cerca di superare, e pensarci è terribile.
Poi c’è il libro sull’età indifesa, i dodici anni: La vergogna. I genitori mandano la piccola Annie in una scuola cattolica privata, è l’unica del suo mondo ad andarci. Da allora Ernaux assocerà sempre la parola “privato” alla paura e alla chiusura. E scrivere diverrà il contrario del privato. «Scrivere è una cosa pubblica».
In Memoria di ragazzatroviamo Annie diciottenne che va a fare l’educatrice in una colonia estiva, qui scopre il sesso e soprattutto il giudizio degli altri. Accanto a questo libro, per relativa prossimità temporale, quello sull’aborto giovanile, L’evento (che gran titolo). E anche il libro su come Ernaux apprende la propria disparità di donna, la catastrofe della disuguaglianza: La donna gelata. Per arrivare all’autobiografia impersonale del suo romanzo più esteso, che è anche una cronaca collettiva, la sua opera più nota in Italia, forse: Gli anni.
«Tutte le immagini scompariranno», dice Ernaux, e mentre lo dice noi ci sentiamo soffocare, ci sembra di trovarci già dopo la fine del mondo. Le immagini scompariranno, e noi con loro, e di noi non resterà nulla. E siamo grati a Ernaux quando ci mostra tutto il male e tutto il bene della memoria: le strade che percorriamo, le gerarchie sociali e morali, il chiacchiericcio, i gesti piccoli, le violenze.
Ernaux recupera la storia dal letto di un fiume dove si sono depositati gli oggetti perduti, usando la scrittura di chi dà le notizie essenziali, ma senza la certezza di saperle dare. Scriviamo con un perenne senso di mancanza. Fino a «salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più».
Chi si interessa di scrittura autobiografica ieri ha festeggiato l’assegnazione del Premio Nobel ad Annie Ernaux. Noi lo facciamo oggi, con le parole di gratitudine di Duccio Demetrio.
Grazie Annie…!
“Ciò che c’ è di appassionante nel mestiere di scrivere è non sapere dove si finirà, perché si cerca una risposta d’ amore di cui non abbiamo certezza”.
Quando ho appreso che Annie Ernaux aveva vinto il premio Nobel per la letteratura, questa frase di Roland Barthes mi è tornata all’ improvviso alla mente.
Riassume un tratto importante della filosofia esistenziale alla quale la scrittrice francese ha dedicato il suo scrivere. In primo luogo, ogni suo libro – sempre autobiografico, diaristico, romanzesco, sociologico, storiografico al contempo – è una voce alla ricerca di risposte d’ amore affidate alla letteratura, alla poesia: seppur nella perenne incertezza di saperlo ricevere e di saperlo offrire.
Ma, nondimeno, ancora Barthes ci avverte che “il mestiere di scrivere” ( e di vivere direbbe Cesare Pavese ) quando sia mosso da autentica passione ( e questa tensione abita, anzi da essi tracima, in tutti i libri celebri o meno noti di Annie Ernaux ) non può che sfidare la nostra vana e illusoria ricerca della quiete dinanzi alle tragicità individuali e storiche della contemporaneità.
Sarà per questo motivo, ben noto a chiunque si cimenti con la scrittura di sé, che opere sue come “Gli Anni” , vanno arricchendo le forme dell’ approccio alle realtà storico-sociali quando si adotti la scrittura di sé non soltanto per narrarle, ma per farle intimamente proprie.
I suoi libri sono stati definiti non per nulla “autobiografie impersonali “. Una espressione che Ernaux – e invito i nostri lettori a ritrovarla senz’ altro – ha rivendicato per sé anche nel corso di una intervista ormai celebre pubblicata nel testo “Scrivere è un dare forma al desiderio” ( Castelvecchi, 2020 ); oppure, ne “L’ evento”, dove l’ Autrice si immerge nel riesame del proprio passato e lo trasforma in un racconto collettivo.
Come Libera Università dell’ autobiografia di Anghiari non possiamo che applaudire, calorosamente, al conferimento ad Annie Ernaux del celebre Premio. Perché oltre ad averci invitato ad approfondire le nozioni di cura attraverso gli atti, i modi, le scoperte che la scrittura ogni volta ci dischiude; oltre ad averci mostrato che la strenua difesa della memoria è dovere e diritto civile, non soltanto un esercizio introspettivo e di carattere estetico, è nostro compito fare dello scrivere un metodo “socialmente utile”.
Ed anche qualcosa di più: come stamane ( 7 ottobre ) ha scritto su la Repubblica Michela Marzano, in quanto si tratta nondimeno di un “ atto politico” e soggettivo insieme; il quale ci invita a comprendere tutto il valore di una condotta etica che ci spinge a comprendere tutta l’ importanza e “ La necessità di lasciare una traccia, appunto attraverso una scrittura che scava dentro, nomina le mille sfaccettature dell’ esistenza, e rende magnificamente testimonianza della vulnerabilità della condizione umana”.
La scrittrice francese Annie Ernaux, molto amata anche dal pubblico italiano, ha vinto il Premio Nobel per la letteratura 2022, “per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”.Pubblicata in Italia da L’Orma (oltralpe da Gallimard), Ernaux è nata a Lillebonne (Senna Marittima) nel 1940
1901. La peste dilaga sull’isola di Mingher e l’uomo chiamato a fermarla viene ucciso in circostanze misteriose.
Nel destino di quella piccola isola e dei suoi abitanti Orhan Pamuk ha ricreato un mondo, parlando al nostro presente con una forza e un’intensità che sono quelle della grande letteratura.
Nell’aprile del 1901 un piroscafo si avvicina silenzioso all’isola di Mingher, «perla del Mediterraneo orientale». Dall’imbarcazione scendono due persone: il dottor Bonkowski – il maggior specialista di malattie infettive dell’Impero ottomano – e il suo assistente. Bonkowski è lí per conto del sultano: deve indagare su un nemico invisibile ma mortale, che rischia di mettere in ginocchio un Impero già da molti definito il «grande malato d’Europa» e innescare cosí una reazione a catena nei delicatissimi equilibri continentali. Sull’isola di Mingher, si dice, c’è la peste. Il morbo viene rapidamente confermato, ma imporre le corrette misure sanitarie rappresenta la vera sfida, soprattutto quando le esigenze della scienza e della medicina piú nuova si scontrano con le credenze religiose. In quest’isola multiculturale dove musulmani e cristiani ortodossi cercano di convivere pacificamente, la malattia funge da acceleratore delle tensioni sociali e non solo: poco dopo aver parlato con il governatore e chiesto che venga imposta la quarantena, il corpo del dottor Bonkowski viene trovato senza vita in un vicolo. In un drammatico crescendo la peste dilaga, spingendo le autorità a rafforzare le misure di contenimento: queste però aumentano le frizioni tra le varie identità dell’isola (e dell’Impero), tra chi le asseconda e chi nega l’esistenza stessa della malattia, o l’efficacia della quarantena, gettando la comunità nelle tenebre di una notte non soltanto sanitaria. Le notti della peste è un’opera-mondo grandiosa, universale, attraversata da echi di Tolstoj, di Manzoni, del Conrad di Nostromo, di Camus. Romanzo storico e allegorico (tra le righe si legge la deriva di ogni nazionalismo verso l’autocrazia dell’uomo forte), brulicante di personaggi e di storie, di guerre, amori e immortali tensioni etiche. In cui il particolare – le esistenze dei singoli individui travolti dalla Storia – si apre all’universale – il rapporto tra paura e potere, tra vita e destini generali, tra fede e ragione, tra modernità e tradizione.
Leopoldo Lonati, Discorso senza un alito di vento. Quartine
Centotré quartine (più una) per un Discorso enigmatico e meditativo, seducente nella sua musicalità, dove «giocosamente e non senza humour le parole convocano altre parole».
«Questa può essere una chiave per aprire alla nostra comprensione e al nostro affetto le quartine che compongono il Discorso: assumere su di sé tutte le asprezze del non facile viaggio di ispezione e scrittura effettuato dall’autore ed appropriarsi, con una lettura attenta, della ricchezza del contenuto e della maestria della forma, provandone gioia e oserei addirittura dire allegria».
Dalla nota di lettura di Aurelio Buletti
«Da dove giunge la poesia di queste quartine? Possiamo certo tenere conto dei riferimenti biblici, delle inevitabili reminiscenze di altri poeti, delle epigrafi scelte dall’autore dalle quali si potrebbe risalire almeno a una parte dei suoi riferimenti filosofici, ma la caccia alle fonti non sarebbe di grande aiuto per rispondere a questa domanda. Considererei più attentamente la presenza frequente di dispositivi fonetici – rimici, allitterativi, anagrammatici – che ci inducono a pensare che buona parte del fascino di questi versi emani dalle profondità della lingua, dove giocosamente e non senza humour le parole convocano altre parole. Credo però che la vera risposta non sia diversa da quella che le quartine stesse danno alla domanda sulla genesi della poesia e che Discorso senza un alito di vento sia il frutto, nuovo e originale, di una pura e felice ispirazione».
Dalla nota di lettura di Renato Giovannoli
L’autore:
Leopoldo Lonati (Tradate, 1960) ha pubblicato le raccolte di poesia Griselle (1998) e Le parole che so (2005, menzione speciale al Premio Schiller 2006), entrambe per le Edizioni Leggere, e la plaquette Res Rem Rien (Hic et Nunc 1996, con dieci incisioni di Samuele Gabai). Vive nella Svizzera italiana.
Scheda tecnica
Leopoldo Lonati, Discorso senza un alito di vento. Quartine. Note di lettura di Aurelio Buletti e Renato Giovannoli, Casagrande Edizioni
Quintana, con una scrittura quasi febbrile, ci trascina da subito in un ambiente che mostra in tutta la sua forza i rapporti tra mondo e natura; qui incontriamo Damaris, donna ferita da una maternità mancata, ma intensamente voluta e ricercata anche con i mezzi più ancestrali, affini alla stregoneria e fatta di unguenti e pratiche sciamaniche.
Damaris non aveva potuto avere figli. Si era messa con Rogelio ancora diciottenne e dopo un paio d’anni la gente cominciava a chiederle “A quando un bebé? A un certo punto aveva dovuto spiegare a quanti facevano domande che il problema era lei che non rimaneva incinta.
Adesso stava per compiere quarant’anni, l’età in cui le donne inaridiscono, come aveva sentito dire una volta a suo zio.
Il rapporto col marito è rude, un uomo dedito al lavoro su pescherecci, senza tante parole e dotato di quel senso pratico che a volte pare rasentare…
Ecco 100 libri consigliati da leggere, anzi, consigliatissimi. Testi che vale la pena leggere tutti. Perché vi commuoveranno, stupiranno, esalteranno, spiazzeranno e turberanno, come tutti i libri belli.Abbiamo selezionato libri importanti: classici che hanno segnato un’epoca, che hanno fatto da precursori a nuovi generi letterari o cambiato per sempre l’immaginario. Abbiamo scelto romanzi che sorprendono: libri scritti centinaia di anni fa che risultano incredibilmente attuali.
«Innumerevoli sono gli scrittori che, nel corso del Novecento, sono sopravvissuti a terrore di Stato ed epurazioni, con tutte le ambivalenze morali e politiche che questo ha comportato. Ma come sono andate davvero le cose? Erano forse troppo saldi per capitolare di fronte al potere? Devono la sopravvivenza alla loro accortezza o piuttosto alla loro intelligenza, alle loro conoscenze o alla loro abilità tattica? Sono scampati alla prigione, al campo di concentramento o alla morte per via di fortunate coincidenze che rasentano il portentoso o grazie a strategie che spaziano dalla ruffianeria al camuffamento?»
Dire la poesia non avviene sempre. Eppure anche nel dire la poesia consiste, da sempre, la poesia. Lo sapeva Carmelo Bene con il suo personalissimo teatro della crudeltà, lo sapevano i Romantici e i Surrealisti, lo sapeva García Lorca, quando trovava il suo duende nella musica, nella danza e, appunto, nella poesia a viva voce (hablada), arti tutt’e tre, sosteneva, che hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti. Lo sa bene, benissimo, Mariangela Gualtieri, che da quarant’anni «dice la poesia in pubblico», avvolgendo chi la ascolta in un «mondo orale aurale» che non ha uguali. Sí perché «spesso», come dice Gualtieri, i professionisti, gli attori, leggono il verso puntando «sulla sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto». Nella sua «arte di dire la poesia», Gualtieri ci parla invece solo del resto. E per farlo trova un linguaggio nuovo e sorprendente: non un discorso sul dire la poesia ma una scrittura con il dire la poesia. Non concetti astratti, ma figure, immagini, sensazioni fisiche, echi. E analogie, fino a costruire un libro di poesia saggistica, a opporre visione a discorso, a parlarci vicino e alto, lontani dalla chiacchiera. E cosí: «Formule magiche schiacciate nei libri – solo al pronunciarle si fanno efficaci. E formule mantriche, solo in voce trovano compimento. E spartiti di musica, tutti, chiedono fiato, gole, dita per farsi forma sonora. Cosí ogni verso. Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi».
Comincio a desiderare un linguaggio frugale come quello che usano gli amanti, parole rotte, parole spezzate, come lo sfiorare dei passi sulla strada, parole di una sillaba come quelle dei bambini quando entrano in una stanza nella quale la loro mamma sta cucendo e prendono da terra un filo di lana bianca, una piuma o uno scampolo di chintz. Ho bisogno di un urlo, un grido.
La poesia e lì, dice qualcuno, accanto a noi, basta saperla riconoscere. È quel segno rimasto nel guanciale dopo una notte d’amore con una sconosciuta. Il cenno di un manifesto nel metrò. Quell’uomo insignificante che spazza lucernari e parapetti solo per cortesia nei confronti del cielo. Quei pazzi che continuano imperterriti a cercare i loro mulini a vento nell’aria ammorbante della città. Lo sguardo assente di un ubriaco dopo la sbornia…
Proviamoci anche noi, a tempo perso. Proviamo a fare uscire i poeti dalla loro tana. Adottiamone uno a distanza, e portiamolo a vivere tra la gente. Trascriviamolo, traduciamolo, faxiamolo, incidiamolo; vandalizziamo i muri con la sua presenza, regaliamolo a qualcuno a cui vogliamo bene, a quelli con cui non vorremmo condividere nemmeno l’aria del pianeta; abbandoniamolo dal parrucchiere, dal medico, dal dentista; piazziamo una sua pagina tra i rotocalchi del giornalaio, i tanti Chi, Di Chi, Con Chi, (c’è il rischio di provocare uno shock anafilattico, ma dopo tutto nessuno vive in eterno) appendiamolo sulla porta della cabina, mentre ci cambiamo il costume, attacchiamolo sul muro nei bagni delle stazioni, tra le proposte d’incontro e la dimensione dei peni in offerta speciale, infiliamolo in una bottiglia e buttiamola nel cesso, indirizzata al mare; inseriamolo di soppiatto nell’urna elettorale… Non m’illudo. Lo so che la poesia non salverà il mondo. Non basterebbe l’acqua dell’universo per lavare tutta la sporcizia accumulata. Ma senza quell’acqua, il mondo sarebbe già morto di sete.(…)
Ci si può perdere senza il bisogno di sentirsi persi? Quanti significati assume, nel corso della vita, questo predicato verbale dalle infinite forme? Andrew Faber stravolge il concetto di fragilità, trasformandola in forza. Più che un libro di poesie, Ti passo a perdere è un manuale di resistenza in versi. Uno stradario dell’anima dove perdersi per poi ritrovarsi. Un viaggio verso la conoscenza di sé stessi e un invito alla scoperta dell’Amore, in tutte le sue forme.
A chi sta attraversando il suo buio
A chi sta attraversando il suo buio dico soltanto di non mollare. Ci siamo finiti tutti in quel posto maledetto dove il freddo ti morde le ossa e il silenzio ti piove nel cuore. A chi sta attraversando il suo buio dico soltanto di allontanarsi da chi dice di darsi una mossa di smettere di piangersi addosso. Quella gente vuole farvi del bene ma non sa cosa dice. Quella gente lì dove siamo finiti noi non c’è mai arrivata. A chi sta attraversando il suo buio dico soltanto di avere coraggio bisogna stringere i denti e aspettare che il sole riprenda a brillare. A chi sta attraversando il suo buio dico soltanto di credere nella poesia. Negli occhi di chi quella strada l’ha già ritrovata. C’è un cielo di qua che vi aspetta con un panorama di sogni da togliere il fiato.
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Perdersi
Ci ho messo un po’ a comprendere: non volevi essere abbracciata per paura di essere capita. Che essere capiti è la cosa più preziosa al mondo ma significa buttare giù le difese arrendersi consegnarsi. Significa non potersi più difendere per un istante non riuscire più a mentire. E la gente non sempre lo sa non sempre lo capisce cosa significa abbracciarsi dirsi tutto senza parlare. Perdersi. In quella terra di nessuno da qualche parte nel cuore.
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Le persone che amano stare da sole
Non giudicate le persone che amano stare da sole non fatelo mai. La loro non è cattiveria non è strafottenza ma vera e propria necessità bisogno d’essere, appartenenza. Abbiate sempre cura di aspettarle di rispettarle. Non mettetegli fretta se i loro tempi non sono i vostri lasciatele andare. Se avrete pazienza sapranno ricompensarvi perché la loro voce è una carezza scesa dalle labbra che si scioglie negli occhi. Perché il loro cuore è un posto caldo e silenzioso capace di accogliere e proteggere. Non giudicate le persone che amano stare da sole non avete la minima idea di quanto abbiano dovuto lottare di quale miracolo siano state capaci di compiere. La solitudine spaventa la solitudine è un patto di purissimo Amore con la propria anima che quasi mai nessuno ha il coraggio di fare ma loro sì, e ne sono felici. Loro ci sono riusciti. Loro ce l’hanno fatta.
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Chi rischia la felicità, non muore mai
Adesso ti passo a prendere e ti porto a mangiare un sacco di schifezze e se ti va balliamo un po’ davanti agli occhi increduli della gente seria. Ti passo a prendere e ti porto a non pensare che quando non si pensa si torna un po’ bambini. Ti porto a sognare quelle robe da imbecilli scalmanati che non si possono raccontare. Adesso ti passo a prendere e ti porto a ridere con me perché ho bisogno di sapere chi sei quando non hai bisogno di apparire quando non hai bisogno di essere. Ti porto a sbagliare a bruciare a impazzire. Come l’ultima volta che hai pianto e non sapevi perché ma ti sentivi viva. Ti porto a toccare la notte ti porto a respirare il silenzio delle parole rimaste in gola e che finiscono negli occhi e dentro ai baci dati di corsa. Ti porto a rischiare di essere felice perché non so se lo sai ma chi rischia la felicità vince sempre. Chi rischia la felicità, non muore mai.
L’oggetto di questi racconti sono i libri. Quattro azioni molto diverse che si possono fare con i libri, azioni che talvolta escludono le altre: non è detto, infatti, che chi è animato dalla smania di possedere libri sia un accanito lettore, e non sempre i grandi lettori sono anche bibliofili. Allo stesso modo vendere libri potrebbe tranquillamente non contemplare il fatto di leggerli, così come il desiderare di averne. Infine, bruciare libri – l’azione più estrema e delittuosa – potrebbe essere non soltanto l’oltraggio di chi teme la parola scritta, di chi l’ha in sospetto e la odia quando diffonde idee che avversa, ma anche l’atto supremo di un amore tanto esclusivo e assoluto da diventare perverso, omicida o forse liberatorio. I libri di mio padre ripercorre, tra tenerezza e strazio, l’eredità di un bibliofilo. Lettore di dattiloscritti e Le età dell’oro dell’editoria italiana raccolgono le riflessioni di chi ha dedicato la vita a una specie particolare di lettura, quella rivolta a testi destinati, nella maggior parte dei casi, a non veder mai la luce, a entrare nel limbo infinito delle opere non pubblicate: perché frutto di un narcisismo sterile, di ambizioni sbagliate, o di un talento non riconosciuto? Memorie di un venditore di libri apre la finestra, quasi sempre lasciata chiusa, su coloro che i libri li vendevano, e ancora li vendono, in un’Italia diversa e lontana, ma non così diversa e non così lontana. Bruciare, infine, è forse l’approdo fatale di chi, come chiunque abbia dedicato la vita a una passione esclusiva, all’improvviso si accorge che è tutto niente?
L’uomo sulla terrazza è antico quasi come la città che sta guardando. Il suo gatto Zibetto, piú nero di tutti i gatti neri, come lui conosce troppe storie. L’uomo è il conte Dracula. Ama la scienza, la fragilità degli esseri umani, e una donna dal viso sempre uguale. Nel 1897 la storia d’amore con Mina Harker non è finita: per chi non è piú legato allo scorrere del tempo, nulla può mai finire. Oggi lui sta a Roma, che è una città eterna, e lei vive a Venezia, che è una città immortale. L’eternità e l’immortalità sono due cose diverse, Dracula l’ha capito e Mina no. Sarà pur vero che l’odio è anche amore, ma dove l’amore cerca passione l’odio chiede vendetta.
Giacomo Koch è il nome del conte Dracula quando questa storia comincia. Mina Harker, la donna a causa della quale stava per essere ucciso, è sfuggita alla morte, ora si chiama Mina Monroy ed è lei stessa un vampiro. Il loro gatto Zibetto può arrampicarsi anche per dieci piani e porta alle zampe anteriori due vistosi anelli d’oro, per l’esattezza due fedi nuziali. Questa storia, ambientata oggi tra Roma e Venezia, attraversa i secoli e affonda le sue radici alla fine dell’Ottocento, quando il conte Dracula lascia la Transilvania per trasferirsi in Occidente. È allora che ha preso il nome di Giacomo Koch e ha cominciato a interessarsi alla professione medica, ed è oggi che lavora come anatomopatologo all’ospedale Fatebenefratelli. Attraversando la grande stagione delle scienze, Giacomo ha capito molte cose. La prima è che tutto ciò che scorre è nutrimento, non solo il sangue, per quanto il sangue umano rappresenti ancora il suo cibo preferito. Ha capito che non si può vincere la nostalgia per i prodigiosi limiti dei viventi, e che grazie alla forza di gravità ogni uomo e ogni donna contengono l’universo; sa, soprattutto, che quando nei vampiri scorre il sangue essi diventano umani, e come gli umani sono vulnerabili, possono essere ammazzati. Mina, invece, non ha voluto capire altro che sé stessa, ha vissuto gli ultimi sessant’anni insieme a una donna che il Conte ha ucciso – come, in effetti, ha ucciso tutti gli amori della sua vita – e pensa, per punirlo, di dover distruggere l’unica vera grande passione di Dracula: gli esseri umani. Decide, nella Venezia dove tutto scorre, di aprire un salone di bellezza in cui il tempo non scorra piú. Dal salone di Mina chiunque entri uscirà uguale a sé stesso. Per sempre. Cosí per sempre.
Una confessione e un cantico, una collezione di tesori, di parole, di espressioni, esperienze e intuizioni che ha il profumo del bosco, dei funghi essiccati, dei fiori impaginati della quotidiana avventura che è la vita. Il nuovo canto di Peter Handke, pellegrino al muro del Tempo.
Questi taccuini originali, scritti a mano con matita, pennarello o biro di diversi colori, ornati di disegni – e segnati dalle tracce del vento, delle intemperie e delle bestiole selvatiche, – sono per me i diari più belli e preziosi dell’ultimo secolo, anche per la bellezza indomita e selvaggia delle forme che prende la scrittura. Hans Höller, Der Standard
Nel tempo prolungato e sospeso che si confà alla durata e alle ore della sera, Peter Handke raccoglie frammenti di pensieri che brillano come pagliuzze d’oro e generano la luce magica più adatta ad animare gli arabeschi delle ombre. Scrive d’amore, “in cui ci si può solo perdere”, scrive di quel sentimento che nasce dalla comunione di amore e di volontà, l’entusiasmo, “che si può solo condividere”. Scrive anche delle “nefandezze della fretta”, dell’impazienza e dell’altro tempo, il tempo della natura, quello che ha a che fare con il vorticare delle foglie, l’oscillare dell’erba, il tremolio della rugiada, soglie più precise dell’alternarsi delle stagioni… Scrive infine del ritmo dell’anima (“sta lì la durata”)… Sono note che hanno il carattere della confessione, della rivelazione e i tratti, le vibrazioni della preghiera propria di un asceta laico. Note che Handke accompagna, intervalla, incastona con disegni (qui riprodotti e che fanno del volume un piccolo libro d’arte), diorama che sono danze di luce e pittura su vetro. Diario di uno scrittore autentico, preso di sorpresa, di notte, nell’ombra, taccuino di un cronista della durata, di un uomo che abita nella durata, che ha stretto amicizia con il tempo e si dice: “Smettila di immaginarti di essere giovane – Perché?”. Proprio la semplicità, la chiarezza, il nitore costituiscono la cifra stilistica di questi appunti che fanno sussultare il cuore ad ogni passo. Un libro che andrebbe imparato a memoria riga per riga.
Lucia nasce a Trieste nel 1907. Secondogenita di James e Nora Joyce, vive la sua infanzia con i genitori e il fratello Giorgio in precarie condizioni economiche. Dopo Trieste inizia un peregrinare continuo tra Parigi, la Svizzera – soprattutto Zurigo – e qualche breve ritorno in Irlanda. È a Parigi che Joyce entra in contatto con scrittori, artisti, esponenti dell’alta borghesia e generose benefattrici. In questo contesto – un tenore di vita al di sopra delle reali possibilità dello scrittore, un successo che stenta a decollare ma un fervente interesse per la sua opera da parte di alcuni estimatori di eccezione, una routine familiare delirante – Lucia e Giorgio crescono in uno strano rapporto di simbiosi. Così il matrimonio di Giorgio è vissuto come un abbandono da Lucia, che viene anche rifiutata da tre uomini nel giro di breve tempo (tra cui Beckett e lo scultore Calder). L’unico ambito in cui riesce a esprimere se stessa è la danza: frequenta corsi teatrali e coreutici, stringe amicizie femminili che le sono di ispirazione e si inserisce in ambienti artistici molto lontani da quelli del padre. Il primo crollo psichico segna per lei l’inizio di un calvario che, tra cliniche e manicomi, terapie sperimentali, psicanalisi junghiana, diagnosi contraddittorie e mai verificate, durerà tutta la sua vita. Scoprire il segreto dell’oscura malattia mentale di Lucia, della quale Joyce continuerà sempre a sentirsi colpevole, diverrà per l’autore dell’Ulysses una vera ossessione, che non gli darà mai tregua e rischierà di distruggerlo.
recensione di Federica Manzon in La Stampa/TuttoLibri 16 apr 2022
La follia rubata alla figlia fece grande l’arte di Joyce
Quando Pëtr Vavilov, un giorno del 1942, vede la giovane postina attraversare la strada con un foglio in mano, puntando dritto verso casa sua, sente una stretta al cuore. Sa che l’esercito sta richiamando i riservisti. Il 29 aprile, a Salisburgo, nel loro ennesimo incontro Hitler e Mussolini lo hanno stabilito: il colpo da infliggere alla Russia dev’essere “immane, tremendo e definitivo». Vavilov guarda già con rimpianto alla sua isba e alla sua vita, pur durissima, e con angoscia al distacco dalla moglie e dai figli: «…sentì, non con la mente né col pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua». È il fiume della Storia, che sta per esondare e che travolgerà tutto e tutti: lui, Vavilov, la sua famiglia, e la famiglia degli Šapošnikov – raccolta in un appartamento a Stalingrado per quella che potrebbe essere la loro «ultima riunione» –, e gli altri indimenticabili personaggi di questo romanzo sconfinato, dove si respira l’aria delle grandi epopee. Un fiume che investirà anche i lettori, attraverso pagine che si imprimeranno in loro per sempre. E se Grossman è stato definito «il Tolstoj dell’Unione Sovietica», ora possiamo finalmente aggiungere che Stalingrado, insieme a Vita e destino, è il suo Guerra e pace.
proponiamo una selezione ricca di spunti di lettura di varie epoche e di vari generi: dai racconti di fantascienza a quelli dell’orrore, da quelli brevi a quelli brevissimi, passando naturalmente per i grandi classici e per quelli contemporanei…
Serata Pasolini, (a 100 anni dalla nascita), Martedì 29 marzo, ore 20.45. proiezione del documentario Cinema in forma di mito – miti e mitologie nell’opera di PPP el regista Mario Bianchi che dialogherà con Davide Fent. The Art Company Como, Via Borgovico 163 (cortile interno)
Posti limitati, prenotazione necessaria al numero 335.8095646
L’intelligenza non avrà mai peso, mai nel giudizio di questa pubblica opinione. Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai da uno dei milioni d’anime della nostra nazione,
un giudizio netto, interamente indignato: irreale è ogni idea, irreale ogni passione, di questo popolo ormai dissociato da secoli, la cui soave saggezza gli serve a vivere, non l’ha mai liberato.
Mostrare la mia faccia, la mia magrezza – alzare la mia sola puerile voce – non ha…
“E alla fine si è dovuto accorgere che in realtà la ragione non vale niente, perché gli istinti sono più forti. La collera è più potente della ragione. E quando la collera ha la tecnica a portata di mano se ne infischiano della ragione. E allora la collera e la tecnica si lanciano in una danza assurda e selvaggia.
Ecco perché non si aspettava più nulla dalle parole. Non credeva più che le parole messe l’una dietro l’altra in maniera razionale potessero ancora aiutare il mondo e le persone. Ed è proprio vero, al giorno d’oggi le parole sono state talmente deformate… persino le più semplici, quelle che anche noi adesso stiamo usando per parlare. Sono diventate inutili, come i monumenti. Si sono trasformate in brusio… il loro suono si è distorto, come quando vengono urlate e gracchiate dagli altoparlanti.
Non credeva più nelle parole… ma continuava ad amarle, le…
Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d’estate. Una magnifica giornata d’estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell’imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il “Lisboa” aveva ormai una pagina culturale, e l’avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. Quel bel giorno d’estate, con la brezza atlantica che accarezzava le cime degli alberi e il sole che splendeva, e con una città che scintillava, letteralmente scintillava sotto la sua finestra, e un azzurro, un azzurro mai visto, sostiene Pereira, di un nitore che quasi feriva gli occhi, lui si mise a pensare alla morte.
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