Ninna nanna della guerra
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Ché quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finché dura sto macello:
fa la ninna, ché domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
Categoria: POLITICA (Filosofia e Sociologia)
Filosofi apologeti della guerra: HEGEL, DE MAISTRE, PROUDHON, JUNGER, QUINTON. Articolo di Nunzio Dell’Erba in La Ragione, febbraio 2022
il “PRINCIPIO DI RESPONSABILITA’ “, Hans Jonas
Mappe nel Sistema dei Servizi alla Persona e alla Comunità
“Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la sopravvivenza di un’autentica vita umana sulla terra.“
Fonte: https://le-citazioni.it/frasi/173942-hans-jonas-agisci-in-modo-che-le-conseguenze-della-tua-azione/
Il principio responsabilità è un libro di Hans Jonas del 1979, da cui prende il nome il principio cardine di un’etica razionalista applicata in particolare ai temi dell’ecologia e della bioetica.Wikipedia Prima pubblicazione:1979
ogni gesto dell’uomo che “deve” prendere in considerazione le conseguenze future delle sue scelte edeisuoi atti
Laresponsabilitàci obbliga ad essere responsabili e a fare in modo che se ne garantisca la permanenza della sua presenza nel mondo. L’essere-così, l’essere-in un determinato modo è, dunque, la capacitàdiessere responsabili,diessere capacidiesercitare laresponsabilità.

Hans Jonas cerca in questo lavoro di andare alle radici filosofiche del problema della responsabilità, che non concerne soltanto la sopravvivenza, ma l’unità della specie e la dignità della sua esistenza. Tra…
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Il sistema della COMUNICAZIONE e la SCRITTURA ARGOMENTATIVA, schede didattiche e dispensa di Paolo Ferrario
Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa … Hannah Arendt, in Le origini del totalitarismo
THOMPSON Jonny, Filosofia in breve. 150 grandi idee in poche parole, Corbaccio, 2021. Indice del libro
COMUNITA’, etimologia, definizione
La zattera della Medusa, di Théodore Géricault
Franco Volpi, con la collaborazione di Guido Boffi, DIZIONARIO DELLE OPERE FILOSOFICHE, Bruno Mondadori, 2000. Elenco delle voci e degli autori
STORIA DEL PENSIERO OCCIDENTALE: IL PENSIERO ANTICO. Volume 1°: DALLE ORIGINI DELLA FILOSOFIA A PLATONE, a cura di Emanuele Severino, Mondadori editore, 2019. Indice del libro
QUANTE STORIE, dai libri alla realtà, a cura di Giorgio Zanchini, 2019/2020, Rai 3
Ogni giorno storie, personaggi e temi con l’intento di approfondire alcuni aspetti della complessità che ci circonda.
Dall’arte alla letteratura, dalla musica alla storia recente, dalla filosofia alla politica, Giorgio Zanchini e i suoi ospiti offrono spunti di riflessione per comprendere le mille facce di un paese meraviglioso e contraddittorio
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MACHIAVELLI Niccolò, citazioni
MACHIAVELLI Niccolò, scheda di Massimo Cacciari
“La macchina tecnologicamente più efficiente che l’uomo abbia mai inventato è il LIBRO”, Northrop Frye
“La macchina tecnologicamente più efficiente che l’uomo abbia mai inventato è il LIBRO”
Northrop Frye
citazione tratta da Guida tascabile per i maniaci dei libri, Edizioni Clichy
A offendere sono le OPINIONI, non i fatti in sè. Citazione 20 di: EPITTETO, Manuale, nella traduzione di Enrico V. Maltese e di Pierre Hadot
A offendere , ricordalo, non è chi insulta o percuote, ma il giudizio che queste azioni siano offensive.
Perciò, quando uno ti irrita, sappi che è la sua OPINIONE che ti ha irritato.
Come prima cosa , quindi, cerca di non farti trascinare subito dalla rappresentazione: una volta che avrai guadagnato un po’ di tempo per riflettere, potrai dominarti più facilmente
citazione da
citazione da
MANUALE DI EPITTETO, introduzione e commenti di Pierre Hadot (edizione francese del 2000), Einaudi, 2006. Indice del libro – da TRACCE e SENTIERI
Mattia Feltri sul premio Nobel per la letteratura a Peter Handke, 15 ottobre 2019
Morto MICHEL SERRES, il filosofo che non credeva nel «declinismo»: “non idealizzate il passato, la nostra è un’epoca dolce” – Corriere.it, 3 giugno 2019
Serres era una figura molto popolare in Francia, anche perché non esitava a comparire in dibattiti e trasmissioni televisive per confutare il «declinismo» e la tendenza di molti intellettuali, reazionari e non, a idealizzare il passato ritenendolo un’epoca d’oro rispetto alla presunta barbarie e decadenza contemporanea. Serres era convinto del contrario, e chiamava il nostro tempo l’«epoca dolce»: guerre, attentati e orrori esistono ancora, ma nella sua visione sono scorie di una civiltà superata.
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Morto Michel Serres, il filosofo che non credeva nel «declinismo» – Corriere.it
i sei amici che mi hanno insegnato tutto quello che so: CHI? CHE COSA? DOVE? QUANDO? COME? PERCHE’, Rudyard Kipling, in Storie sempre così, Mursia editore
ETIENNE DE LA BOETIE, Discorso della servitù volontaria, Feltrinelli, 2014. Con saggi di Enrico Donaggio, Miguel Benasayag, Miguel Abensour. Indice del libro
La via dell’anima. George SIMMEL e la filosofia della cultura | in Filosofia e nuovi sentieri
La CONOSCENZA per CARTESIO e per DILTHEY
I governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati … , Giambattista VICO (1688-1744)
“I governi debbon esser conformi alla natura degli uomini governati, perchè dalla natura degli uomini governati escon essi governi”
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Michel De Montaigne: OPINIONI
Gli uomini, secondo un antico detto greco, sono torturati dalle opinioni che essi hanno sulle cose stesse più che dalle cose stesse
I, 14
AGENDA
elenco degli argomenti che devono essere trattati.
Dal verbo àgere, “fare”, da cui agèndus, che deve essere fatto
DEMOCRAZIA PROCEDURALE
Si deve al giurista austriaco Hans Kelsen (Praga, 11 ottobre 1881 – Berkeley, 19 aprile 1973) la definizione puramente procedurale della democrazia, come
esercizio di un governo poggiante su decisioni prese a maggioranza da un’assemblea popolare o da uno o più gruppi di individui, designati attraverso un’elezione basata sul suffragio universale, libero e segreto
(cfr. I fondamenti della democrazia, p.186, Bologna, Il Mulino, 1981.)
Michelangelo Bovero – Democrazia (2009)
Michelangelo Bovero – Democrazia (2009)
www.mediafire.com/?t23tlzx9rr7ykka
FESTIVAL FILOSOFIA MODENA (lezioni magistrali complete) – PODCAST FILOSOFIA.
Destra e Sinistra
in Giovanni Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori editore, 2008
pagg. 77-80
Opinione pubblica
in Giovanni Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori editore, 2008
pagg. 19-22
Titolarita ed esercizio
in Giovanni Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori editore, 2008
pagg. 9-12
Demos e Populus
in Giovanni Sartori, La democrazia in trenta lezioni, Mondadori editore, 2008
pagg. 5-8
Anomia
Remo Cantoni, Antropologia quotidiana, Rizzoli, 1975
47-57
Potere
Leszek Kolakowski, Breviario minimo: piccole lezioni per grandi problemi, Il Mulino
7-11
Politica
Warburton Nigel, Filosofia: i grandi temi, Il Sole 24 Ore, 2007
100-136
Politica e Persona
Alfonso Berardinelli, L’abc del mondo contemporaneo, Minimum Fax, 2004
p. 73-76
Politica e terrore
Alfonso Berardinelli, L’abc del mondo contemporaneo, Minimum Fax, 2004
p. 47-49
Catastrofe
Alfonso Berardinelli, L’abc del mondo contemporaneo, Minimum Fax, 2004
p. 34-46
Politica
Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 109-114
Nazione
Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 95-97
Elezioni
Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 50-52
Populismo
Paolo Prodi, Lessico per un’Italia civile, Diabasis, 2008
220-224
Centro
Paolo Prodi, Lessico per un’Italia civile, Diabasis, 2008
81-86
Democrazia e rappresentanza
Paolo Prodi, Lessico per un’Italia civile, Diabasis, 2008
101-103
Alternanza
Paolo Prodi, Lessico per un’Italia civile, Diabasis, 2008
65-69
Patriottismo
Reinhart Kosellek, Il vocabolario della Modernità, Il Mulino, 2009
p. 111-132
Potere
Pier Paolo Portinaro (a cura di), I concetti del male (Carlo Galli), Einaudi, 2002, p. 299-324
Odio
Pier Paolo Portinaro (a cura di), I concetti del male (Adriano Fabris), Einaudi, 2002, p. 230-245
Odio
GRAYLING A.C., Il significato delle cose, Il Sole 24 Ore, 2007
p. 11-114
Potere
GRAYLING A.C., Al cuore delle cose, Longanesi, 2007
p. 162-165
Democrazia
GRAYLING A.C., Al cuore delle cose, Longanesi, 2007
p. 140-143
Opinione
GRAYLING A.C., Al cuore delle cose, Longanesi, 2007
p. 98-101
Democrazia
Salvatore Veca, Dizionario minimo, Frassinelli, 2009
p. 63-78
Politica
Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 149-151
Democrazia
Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 47-48
Opinione
Fernando Savater, Dizionario filosofico, Laterza,1996
p. 160-168
Democrazia
Fernando Savater, Dizionario filosofico, Laterza,1996
p. 44-61
Patto
Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 1996
p. 101-103
Principio di precauzione
Aggiornamenti sociali,Lessico oggi. Orientarsi nel mondo che cambia, Rubbettino, 2003
p. 184-190
Devolution
Aggiornamenti sociali,Lessico oggi. Orientarsi nel mondo che cambia, Rubbettino, 2003
p. 56-61
Capitale sociale
Aggiornamenti sociali,Lessico oggi. Orientarsi nel mondo che cambia, Rubbettino, 2003
p. 35-41
Bioterrorismo
Aggiornamenti sociali,Lessico oggi. Orientarsi nel mondo che cambia, Rubbettino, 2003
p. 16-22
Democrazia
Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 49-52
Esuli
Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 58-60
Max Weber (1864 -1920): ETICA DEI PRINCIPI ed ETICA DELLA RESPONSABILITA’, 1919. Scheda di Paolo Ferrario, redatta nel 2009 per un corso di formazione
Nella sua ormai famosissima conferenza sul tema Politica come professione (tenuta a Monaco il 28 gennaio 1919, un anno prima della sua morte), Max Weber trattò in modo disincantato il tema del rapporto fra etica e politica.
La politica è il dominio della forza. Chi ha la «vocazione» per la politica (Beruf in tedesco significa sia professione sia vocazione) sa di dover affrontare aspre lotte. Solo uomini astuti e dal carattere forte potranno affrontare le insidie «diaboliche» della politica, il cui terreno proprio è l’uso della forza.
E’ per definire questo carattere che Weber introduce la distinzione tra
- “etica della convinzione” — o più precisamente “etica dei princìpi” (Gesinnungsethik)
- ed “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).
La prima è un’etica assoluta, di chi opera solo seguendo principi ritenuti giusti in sé, indipendentemente dalle loro conseguenze. E’ questa un’etica della testimonianza assolutizzata: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.
La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica. L’etica della responsabilità si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mette in atto.
Il problema, scrive Weber, è che «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle volte dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determinare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente pericolose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il male — «in politica è un fanciullo».
Le due etiche non sono però «antitetiche ma si completano a vicenda, e solo- congiunte formano il vero uomo, quello che può avere la “vocazione per la politica“», salvo ribadire che tra esse non potrà mai darsi vera conciliazione né armonia a buon mercato.
La lezione di realismo di Weber si spinge così fin dentro le pieghe dell’etica. Egli afferma che solo un atto di reponsabilità può risolvere, nell’azione, i “dilemmi etici” che il politico, e in generale chiunque abbia responsabilità verso il prossimo, si trova inevitabilmente di fronte. I valori sono più d’uno, ognuno ugualmente importante nella propria sfera, e non sempre sono armonizzabili, ma possono scontrarsi ed entrare in conflitto quando è il momento di agire.
Questo è il senso del concetto di “politeismo dei valori“.
Le precedenti annotazioni sono tratte dalle conferenze La scienza come professione e La politica come professione, pubblicate (con il titolo Il lavoro intellettuale come professione) nei “Saggi” Einaudi, tradotti da Antonio Giolitti e con l’introduzione di Delio Cantimori.
Nel 2001 sono state ripubblicate dalle edizioni Comunità a cura di Pietro Rossi e Francesco Tuccari. Il traduttore Wolfgang Schuchter sostituisce la locuzione “etica dei princìpi” a quella di “etica della convinzione” e così ne spiega la motivazione:
La difficoltà più rilevante riguarda la coppia concettuale Gesinnungsethik-Verantwortungsethik, che ha un ruolo centrale in Politik als Beruf. mentre il secondo termine trova una ovvia corrispondenza in «etica della responsabilità», la stessa cosa non vale per il primo, data l’assenza in italiano (ma anche nelle altre lingue principali) di un equivalente preciso del tedesco Gesinnung. Esso è stato tradotto da Giolitti con «etica dell’intenzione», mentre in seguito si è preferito, sulla scorta della versione inglese e di quella francese, renderlo con «etica della convinzione». L’una e l’altra soluzione sono però insoddisfacenti, poiché la Gesinnungsethik weberiana non costituisce un’etica della pura intenzione in senso kantiano, né trova la propria base in una semplice «convinzione»: essa riveste per un verso un significato soggettivo, in quanto designa l’incondizionata adesione personale a certi principi che devono guidare l’agire dell’individuo, e per l’altro verso un significato oggettivo, in quanto comporta il riferimento a principi assunti come incondizionatamente validi, che l’individuo assume come propri scopi indipendentemente dalla considerazione dei mezzi necessari e delle prevedibili conseguenze della loro realizzazione. Si è perciò preferito adottare qui un’altra versione (ancorché legata, in parte, a una diversa tradizione di filosofia morale), rendendo Gesinnungsethik con «etica dei principi».
Ma leggiamo direttamente il testo:
L’etica può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale. Facciamo alcuni esempi.
Raramente troverete che un uomo, il quale abbia smesso di amare una donna per un’altra, non senta il bisogno di giustificarsi con se stesso dicendo che la prima non era più degna del suo amore, o che lo aveva deluso, o adducendo altre «ragioni» simili. Si tratta di una mancanza di cavalleria che, al semplice dato di fatto che egli non la ama più e che la donna deve portarne le conseguenze, aggiunge ancora una parvenza di legittimità, in forza della quale egli pretende un diritto e cerca di rovesciare sulla donna, oltre all’infelicità, anche un torto. Si comporta esattamente allo stesso modo il concorrente fortunato in amore: il rivale deve valere di meno, altrimenti non sarebbe stato sconfitto.
Le cose non vanno ovviamente in modo diverso quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vincitore afferma con una tracotanza priva di dignità: ho vinto perché avevo ragione. Oppure, quando qualcuno crolla interiormente di fronte agli orrori della guerra e, invece di dire semplicemente che era troppo, sente il bisogno di giustificare di fronte a se stesso la sua stanchezza della guerra con questo sentimento: «Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa moralmente cattiva». E lo stesso accade per chi è sconfitto in guerra. Dopo una guerra, invece di andare in cerca del «colpevole» con una vecchia mentalità da donnicciole -quando è stata invece la struttura della società a determinare la guerra – chiunque assuma un atteggiamento virile e sobrio dirà al nemico: «Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è ormai cosa fatta: concedeteci ora di discutere su quali conseguenze se ne debbano trarre in relazione agli interessi oggettivi che erano in gioco e – questa la cosa principale – in rapporto alla responsabilità di fronte al futuro, che grava specialmente sul vincitore».
Tutto il resto è privo di dignità e ha gravi conseguenze. Una nazione perdona una ferita dei propri interessi, ma non una ferita del proprio onore, e tanto meno una ferita inflitta con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni fa sorgere nuovamente grida di sdegno, l’odio e l’ira, mentre la guerra, una volta terminata, dovrebbe essere almeno moralmente sepolta. Questo è possibile soltanto attraverso l’oggettività e la cavalleria, ma soprattutto mediante la dignità. E mai attraverso un’« etica», che in verità significa mancanza di dignità da entrambe le parti. Invece di preoccuparsi di ciò che interessa l’uomo politico – il futuro e la responsabilità di fronte a esso – l’etica si occupa della questione della colpa commessa nel passato, una questione politicamente sterile perché indecidibile. Agire in questo modo è una colpa politica, se mai ve n’è una. E inoltre, l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene occultato da interessi assai materiali: l’interesse del vincitore al guadagno – morale e materiale – più alto possibile, le speranze dello sconfitto di procurarsi qualche vantaggio attraverso il riconoscimento della propria colpa: se vi è mai qualcosa di « v o l g a r e », è proprio questo, ed è la conseguenza di un siffatto modo di utilizzare l’«etica» come pretesto per «mettersi dalla parte della ragione».
Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica ? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta affermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire?
Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sarebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero essere formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Dovrebbe essere davvero cosi indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo cosi specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza ? Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica, giungono esattamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore militare ? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del potere del vecchio regime ? E in che cosa, ancora, si distingue la polemica che la maggior parte dei rappresentanti della presunta nuova etica ha scatenato contro i suoi avversari da quella di qualsiasi altro demagogo? Ci si dirà: per la nobile intenzione! Bene. Ma qui è dei mezzi che si sta parlando, e anche gli avversari con cui si combatte pretendono per sé allo stesso identico modo, in piena sincerità da un punto di vista soggettivo, la nobiltà delle proprie intenzioni ultime. «Chi di spada ferisce, di spada perisce», e la lotta è sempre lotta. E dunque, l’etica del sermone della montagna? Con il sermone della montagna – vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo – si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla leggera. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scienza: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per salirvi o scenderne20. Al contrario: tutto oppure niente, è proprio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Cosi, per esempio, la parabola del giovane ricco: «Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ricchezze». Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto. L’uomo politico dirà: una pretesa insensata dal punto di vista sociale, fintantoché non viene realizzata per tutti. E dunque: tassazioni, espropriazioni, confische, in una parola: coercizione e ordine per tutti. Ma il precetto etico non chiede affatto una cosa del genere, ed è questa la sua natura. Oppure: «Porgi l’altra guancia». Incondizionatamente, senza chiedere come mai spetti all’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità, eccetto che per un santo. Questo è il punto: si deve essere santi in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli Apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora quest’etica è dotata di senso ed è espressione di una dignità. Altrimenti no. Infatti, quando in conseguenza di un’etica acosmica dell’amore si dice: «Non opporti al male con la violenza», per l’uomo politico vale il principio opposto: devi resistere al male con la violenza, altrimenti sarai responsabile della sua affermazione. Chi intenda agire secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi – poiché essi rappresentano una forma di coercizione – e si iscriva ai sindacati gialli. E soprattutto non parli di «rivoluzione». Infatti quell’etica non intende certo insegnare che proprio la guerra civile sia l’unica forma di guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo i precetti del Vangelo rifiuterà o getterà via le armi, come veniva raccomandato in Germania, in quanto ciò rappresenta un dovere morale, allo scopo di porre fine alla guerra e dunque a ogni guerra. L’uomo politico dirà: l’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un periodo in qualche modo prevedibile sarebbe stata una pace di status quo. I popoli si sarebbero chiesti allora: a che scopo la guerra? Essa sarebbe stata ridotta ad absurdum, ciò che oggi non è più possibile. Infatti per i vincitori – o quanto meno per una parte di essi – essa è stata politicamente vantaggiosa. E di ciò è responsabile quella condotta che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Quando dunque l’epoca della stanchezza sarà trascorsa, non la guerra, ma la pace sarà screditata: una conseguenza dell’etica assoluta.
Infine: il dovere della verità. E un dovere incondizionato per l’etica assoluta. Se ne è dunque dedotta la conseguenza di pubblicare tutti i documenti, soprattutto quelli che accusano il proprio paese, e sul fondamento di questa pubblicazione unilaterale di riconoscere la propria colpa unilateralmente, senza condizioni, senza riguardo alle conseguenze. L’uomo politico troverà che in tal modo non si è promossa la verità, ma la si è sicuramente oscurata attraverso l’abuso e lo scatenamento delle passioni; che soltanto una verifica generale, condotta secondo un piano e attraverso giudici imparziali potrebbe dare buoni frutti, e che ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che cosi agisce, conseguenze che si dovranno ancora riparare tra decenni. Ma è proprio sulle «conseguenze» che l’etica assoluta non si interroga.
Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ricondotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dall’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsabilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo.
Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima dell’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, recita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agire nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sindacalista convinto che agisca in base all’etica dei principi voi potrete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’azione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudizio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati tali.
Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media degli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giustamente detto Fichte” – di dare per scontata la loro bontà e perfezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguenze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro principio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continuamente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare.
Ma nemmeno cosi il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fini «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eticamente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o anche alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente pericolosi e le sue possibili conseguenze collaterali.
Per la politica il mezzo decisivo è la violenza, e quanto sia grande la portata della tensione tra il mezzo e il fine da un punto di vista etico lo potete desumere dal fatto, noto a tutti, che i socialisti rivoluzionari (corrente di Zimmerwald) già durante la guerra professavano un principio che si potrebbe cosi formulare: « Se ci trovassimo a dover scegliere tra un anno di guerra ancora e poi la rivoluzione, oppure la pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di guerra! » All’ulteriore domanda: «Che cosa può portare questa rivoluzione?», qualsiasi socialista dotato di una qualche preparazione scientifica avrebbe risposto che non si poteva parlare di un passaggio a un’economia che si potesse definire socialista nel senso da lui inteso, ma che sarebbe sorta una nuova economia borghese, la quale avrebbe potuto soltanto far piazza pulita degli elementi feudali e dei residui dinastici. Dunque, per questo modesto risultato: «Ancora qualche anno di guerra! » Si potrà certo affermare che in questo caso, anche con una assai salda convinzione socialista, si potrebbe respingere il fine che richiede un tale mezzo. E tuttavia nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni forma di socialismo rivoluzionario, le cose stanno esattamente allo stesso modo, ed è naturalmente assai ridicolo quando da questa parte vengono moralmente rimproverati i «politici della forza» del vecchio regime a causa dell’impiego dell’identico mezzo, per quanto possa essere del tutto giustificato il rifiuto dei loro fini.
Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principi sembra in generale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente soltanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principi si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre «l’amore alla violenza», nell’istante successivo invitano alla violenza – alla violenza ultima , la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza – cosi come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace.
Colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità etica del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione.
Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principi e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine debba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio.
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Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevole di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi dell’amore acosmico per l’uomo e del bene – provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani – non hanno operato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo», e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Karataev e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di altre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto soltanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile.
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In verità: la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. In ciò coloro che agiscono in base all’etica dei principi hanno pienamente ragione. Ma se si debba agire in base all’etica dei principi o all’etica della responsabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. Si può dire soltanto una cosa: se adesso, in questi tempi (come voi pensate) di n o n «sterile» agitazione – ma l’agitazione non è sempre del tutto genuina passione – se adesso improvvisamente i politici che agiscono in base all’etica dei principi si presentassero in massa con la parola d’ordine: «Non io, ma il mondo è stupido e mediocre, la responsabilità per le conseguenze non riguarda la mia persona, ma gli altri, al cui servizio io lavoro, e la cui stupidità o volgarità io sradicherò», io dico allora apertamente che in primo luogo vorrei interrogarmi sulla sostanza interiore che sta dietro questa etica dei principi. Ho la sensazione che in nove casi su dieci mi troverei di fronte a degli spacconi che non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebriano di sensazioni romantiche. Ciò non mi interessa molto dal punto di vista umano e mi lascia del tutto indifferente. Suscita invece un’enorme impressione sentir dire da un uomo maturo – non importa se vecchio o giovane anagraficamente – il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: «Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo». Questo è un atteggiamento umanamente sincero e che commuove. E infatti una tale situazione deve certamente potersi verificare una volta o l’altra per chiunque di noi non sia privo di una propria vita interiore. Pertanto l’etica dei principi e l’etica della responsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto insieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vocazione per la politica».
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La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. E certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica.
Da: Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, 2001, pagg. 97-113
Altre informazioni su questo argomento rintracciabili in rete:
In morte di Fernanda Pivano: declino e morte del mito americano fra gli intellettuali di sinistra
Fernanda Pivano ha vissuto la sua vita in modo creativo ed intenso: fortunata lei e bravo il suo angelo custode.
In una giornata piena di elogi per la sua opera, individuo una traccia minore che parla della unilateralità delle culture ideologiche e dei cicli letterari del “mito dell’America”.
Fernando Pivano negli anni Quaranta, aiutata da Cesare Pavese, contribuì a tradurre e diffondere in Italia gli scrittori americani, che vennero usati in chiave antifascista.
Tuttavia questa fiammata, carica di soffi ispirati alla libertà individuale, durò poco. Già negli anni Cinquanta la sinistra italiana tornò al mito comunista e a collocarsi sul contraddittorio confine del totalitarismo stalinista e post-stalinista.
DECLINO E MORTE DEL MITO AMERICANO
Il mito non si presenta come un blocco compatto, ma con vette, cupole, pianure: una cupola negli anni 1930- 1935 (i grandi articoli di Pavese); una pianura fra il 1934 e il 1940, con due depressioni più accentuate, nel 1936 e nel 1938; una vetta, il punto culminante, nel 1941-42 (Americana di Vittorini); poi, una lunga estensione declinante in dolce pendio, interrotta qua e là da alture, quali la montagna di traduzioni nell’Italia liberata (1944-46), e il vulcano in eruzione del «Politecnico» (1945-47). Dopo, è il declino irrimediabile, fino al livello dello zero raggiunto nel 1950.
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L’illusione americana, nell’euforia della Liberazione, dura ancora uno o due anni. Nel 1947, nessuno dubita che essa sia tramontata, nello stesso modo in cui ha fatto cilecca l’alleanza fra il partito cattolico e i socialisti e i comunisti. Pavese non trova più romanzi americani degni di essere introdotti in Italia … Nello stesso 1947, Vittorini interrompe il suo secondo discorso sull’America, quella Breve storia della letteratura americana rimasta ferma all’epoca dei pionieri. Il fatto è che egli si persuase allora, come confesserà in seguito, che la « nuova leggenda », celebrata con tanto entusiasmo nel commento ad Americana, era morta, ed era morta bambina. « Contavo su William Saroyan; e Saroyan non ha fatto che ridescrivere continuamente gli stessi gesti fino a renderli in poco tempo privi di ogni incentivo per chiunque, e meccanici, vuoti. Contavo su Erskine Caldwell; e Caldwell… oggi si confonde coi più estemporanei produttori di letteratura industrializzata ». Stessa delusione a proposito dei giovani dell’anteguerra, John Fante, Richard Wright, e dei giovani del dopoguerra, Nelson Algren, Norman Mailer, Saul Bellow, Truman Capote, Wright Morris, Flannery O’Connors.
Né Pavese né Vittorini continuano ad occuparsi di letteratura americana, dopo il 1947, se non per esprimere i loro dubbi e i loro pentimenti. Le cause di questo disincanto possono essere divise in tre categorie.
1. – Cause politiche
Sono le più evidenti. Il mito dell’America poggia fin dagli inizi su un paradosso: se conseguente con se stessa, mai la sinistra intellettuale italiana avrebbe scelto gli Stati Uniti capitalisti come terra di esilio. Li ha scelti per solidarietà sentimentale con gli emigrati di Sicilia
e per reazione contro le ingiurie rivolte dalla propaganda fascista all’indirizzo della giudeo-plutocrazia di New York. All’indomani della Liberazione, è normale che la contraddizione esploda: la sinistra marxista ritrova la sua vera patria, la Russia sovietica, e gli Stati Uniti si rivelano per quello che sono: una potenza economico-finanziaria con fini imperialisti. L’inizio della guerra fredda, il calare del sipario di ferro mostrano ad ognuno che si deve scegliere tra Est ed Ovest: e siccome in quegli anni il cuore è ad Est, si ha la tendenza a denigrare l’Occidente. …. Pavese constatando il declino della cultura americana, si pone il problema sulle colonne del-YUnità, il giornale del Partito comunista italiano. « Ci pare che la cultura americana abbia perduto il magistero, quel suo ingenuo e sagace furore che la metteva all’avanguardia del nostro mondo intellettuale. Né si può non notare che ciò coincide con la fine, o sospensione, della sua lotta antifascista… Senza un fascismo a cui opporsi, … senza un pensiero e senza lotta progressiva, rischierà anzi [l’America] di darsi essa stessa a un fascismo, e sia pure nel nome delle sue tradizioni migliori ».”
Notiamo il tono moderato: Pavese esprime delle perplessità più che delle certezze. Non si assiste a una palinodia. Pavese è sì comunista, adesso, ma non dà certo alle fiamme ciò che ha adorato. Allo stesso modo Vittorini, comunista anche lui, non baratta il suo mito americano per un mito dell’U.R.S.S. : non dà ragione né a Steinbeck né a Fadeev, l’uno e l’altro colpevoli, ai suoi occhi, di cadere in un conformismo post-rivoluzionario.
Nello stesso modo in cui il mito dell’America, molto più che un’infatuazione letteraria è stato per Pavese e Vittorini un’esperienza cruciale, così il declino del mito lascia in essi un vuoto che niente più può colmare. Nel giugno 1950 scoppia la guerra di Corea. La sinistra deve abbandonare definitivamente l’America, non senza una stretta al cuore. Il 1950, inquesto campo come negli altri, segna la fine di un’epoca.
2. – Cause filosofiche
Fin dalla sua nascita, il mito dell’America poggia su una seconda contraddizione, che esplode pure dopo la caduta del fascismo. La nuova leggenda dell’uomo, quella che Pavese e Vittorini hanno creduto di trovare in America, è una leggenda ottimista, che celebra la dignità dell’uomo, la vittoria della « purezza » sulla « corruzione », vittoria conquistata a caro prezzo e rimessa in discussione di continuo, ma la lotta contro le forze che soffocano e alienano l’uomo è di per sé la migliore testimonianza della rinascita dell’uomo, della fiducia in se stesso che l’uomo riacquista dopo secoli di tenebre, d’incultura e di rassegnazione.
Ora, quale nuovo avvenimento prodottosi dopo la guerra rivela l’inconsistenza di questa metafisica dell’uomo e, nel contempo, l’errore d’interpretazione commesso a spese della letteratura americana? Quale nuovo avvenimento indica che l’uomo svincolato dall’umanesimo borghese non è affatto un uomo che cessa di essere alienato, non è affatto un uomo fiero della sua dignità di uomo, come invece piaceva credere ai cuori sentimentali? Quale nuovo avvenimento mostra che la letteratura americana ha contribuito meno di ogni altra a questa illusione?
L’avvenimento è il folgorante propagarsi dell’esistenzialismo nell’ambito della cultura europea e la scoperta che, sì, c’è un uomo nuovo, in effetti, ed è un uomo i cui tratti derivano in parte dai modelli americani: ma quest’uomo è tutto il contrario del tipo che i cuori sentimentali si attendevano, quest’uomo è un puro nulla. Sartre e Camus sviluppano al massimo le premesse filosofiche contenute nei romanzi americani e approdano alla descrizione di un mondo vuoto e arido, senza anima e senza lacrime. …
Le intuizioni di Pavese e Vittorini, disseminate lungo vent’anni di scritti, tanto più valore hanno, in effetti, quanto meno si cerchi di codificarle troppo rigorosamente. Sarebbe posto in evidenza come non solo si siano « sbagliati » sull’America — ciò avrebbe poca importanza, dopotutto — ma anche come la loro filosofia sia una chimera da sognatori. Quel che può insegnare la letteratura americana è una visione totalmente nichilista dell’uomo: dunque è giusto riconoscere che l’esistenzialismo francese ha raccolto tale insegnamento, e che solo esso l’ha raccolto, quando il sentimentalismo italiano viene già a trovarsi spoglio di ogni sua speranza.
Come dubitare di questo, quando si vede Vittorini rinunciare a scrivere quasi nello stesso momento in cui rinuncia a mitizzare l’America? Dopo Le donne di Messina, un grosso romanzo pubblicato nel 1949, egli interrompe per sempre la sua produzione romanzesca, fatta eccezione per un solo racconto, La Garibaldina, apparso nel 1956 (può darsi che si scoprano degli inediti: resta il fatto che egli avrà dubitato a tal punto di sé da non voler più consegnare al pubblico i propri lavori). Si è tentati di concludere che Vittorini rinuncia a scrivere perché, insieme con l’inconsistenza della sua chimera americana, scopre il vuoto della sua filosofìa, l’esagerazione retorica del suo ottimismo sentimentale.
La cosa più strana però è che, malgrado la loro interpretazione sbagliata della « nuova leggenda », tanto Vittorini quanto Pavese riuscirono a scrivere romanzi molto più belli di quelli di Sartre o di Camus. Nessun romanzo esistenzialista francese si può paragonare a Conversazione in Sicilia o a La Luna e i falò. Se dunque l’esistenzialismo francese ha raccolto l’insegnamento teorico degli scrittori americani, si deve fare osservare come, guidati dal loro mero istinto, i romanzieri italiani abbiano saputo trarre dal messaggio americano una lezione più vitale, un’ispirazione più profìcua.
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Forse la differenza fra l’atteggiamento francese e l’atteggiamento italiano verso la letteratura americana si può riassumere in due nomi : Faulkner e Melville. Il mito francese si cristallizzò su Faulkner, il mito italiano su Melville. Melville è rimasto sempre il parente povero dei grandi stranieri introdotti in Francia; lo stesso si può dire per Faulkner in Italia. Dobbiamo dedurre che il largo afflato poetico di Moby Dick è più congeniale al temperamento italiano, come la disperazione caotica di Sanctuary è più congeniale al temperamento francese?
3. – Cause psicologiche
Più aspramente deluso di Vittorini, ferito più profondamente, Pavese non rinuncia soltanto a scrivere: Pavese si uccide nel 1950, e questo suicidio rivela, a quanti avrebbero potuto ignorarlo, l’angoscia in cui lo scrittore piemontese non cessò di dibattersi e il significato profondamente pessimistico della sua opera. Se egli arrivò a celebrare la virtù tonica di Melville e a cercare in America le ragioni per riacquistare la fiducia nella dignità dell’uomo, si comprende ormai che ciò non fu per intonare un peana sentimentale in gloria del genere umano, ma per riattaccarsi a un qualcosa che fosse meno insopportabilmente sinistro della sua infelicità, per sopravvivere.
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Parimenti scolastici, per lo spirito e per lo stile, sono gli articoli e i saggi dei nuovi americanisti: da Salvatore Rosati a Fernanda Pivano, da Paolo Milano a Gabriele Baldini. Nomi ai quali bisognerebbe aggiungere, ora, quelli di Agostino Lombardo e Vito Amoruso, di Nemi D’Agostino e Glauco Cambon, di Biancamaria Tedeschini ed Elémire Zolla. Tutti, o quasi tutti, professori nelle università italiane, hanno sovente studiato o insegnato per qualche anno in una università americana. Dal 1956 al 1964, essi pubblicano a Roma una rivista (« Studi americani ») che esamina metodologicamente gli autori che la generazione del 1930 aveva scoperto un po’ a casaccio, che rimette ordine, traccia prospettive e nel contempo rivede i giudizi espressi dagli illustri predecessori. È così che si torna a Emily Dickinson e a Henry James, per correggere la leggenda di un’America « barbara », violenta e antiumanista. È così che si assegna un ruolo più modesto a Sherwood Anderson e a Lee Masters, a Saroyan e a Caldwell, che si riesuma Fitzgerald e si accorda il primo posto —- senz’altro meritato — a Faulkner.
Sarebbe inutile tanto rimpiangere il caos eroico degli anni Trenta quanto rallegrarsi perché si dispone infine di un metodo storico per poter apprezzare nel loro giusto valore gli americani. Ciò che bisogna comprendere è questo: lo spirito dei tempi è mutato. La prima generazione di americanisti — i Cecchi, i Praz, i Linati — si era servita dell’America per illustrare una certa concezione dell’uomo. La seconda generazione —, i Pavese, i Vittorini, i Pintor —- se ne servì per illustrare una concezione opposta. Era inevitabile che l’ultima parola toccasse a una terza generazione, quella degli storici e dei professori, i quali studiano le cose come sono e non già secondo prevenzioni ideologiche.
In Dominique Fernandez, Il mito dell’America negli intellettuali italiani, Salvatore Sciascia Editore, Roma/Caltanisetta, 1969, p. 103-112
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