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Gli antefatti personali descritti mi hanno condotto a individuare per questo appuntamento on linecinque titoli esemplari, che ora vi presenterò brevemente; i quali, dopo quanto detto, spiegheranno da soli la ragione per cui li abbia scelti tra altri. Presentano tutti una consonanza con ciò di cui mi occupo, seppur da punti di vista differenti. Si tratta infatti di saggi innanzitutto sempre connotati dalla presenza di un io che si narra in prima persona; in secondo luogo, sono connessi a scelte che hanno cambiato non poco la vita degli autori e delle autrici nel mentre li andavano scrivendo. In essi, costoro presentano un loro punto di vista interessante e originale sulla nozione di cura di sé e di auto guarigione sempre attraverso “esperimenti con la scrittura” e in relazione a momenti dell’ esistenza particolari nei quali lo scrivere si sia reso necessario, in un caso, per non vivere più la solitudine come malessere; in un altro, per uscire dalla depressione grazie ad un contatto diretto e continuativo con la natura; oppure per rallentare la frenesia del vivere quotidiano e tornare ad occuparsi di sé ben al di là di uno sterile egotismo; o anche per sconfiggere la malattia anche con la scrittura introspettiva e, infine, per riuscire a convivere con le parti diverse di noi stessi grazie alla fedeltà assoluta alla creazione poetica. Si tratta dunque di cinque vissuti autobiografici, che ci dimostrano quanto la scrittura agisca come un balsamo e un farmaco nei momenti critici delle nostre vite, i quali nondimeno ci forniscono prove inequivocabili di quanto il por mano alla penna ci consenta di auto educarci con continuità, perseveranza, eccitazione emotiva, riflessività ben oltre gli sconfitte subite. Poiché in tutte le situazioni citate, gli autori ci mostrano di aver compreso quanto, da adulti, si apprenda da noi stessi frugando nella memoria, dalla nostra esperienza in divenire, dagli errori più che dai successi, dai torti subiti oltre che da quelli inflitti ad altri. La materia che abbiamo a disposizione in ogni istante – ci hanno insegnato tra i primi Sant’Agostino, Michel di Montaigne, J. Jacques Rousseau – è la nostra storia; il nostro rievocare diventa sempre introspezione e “esame di sé”, purché si abbia la perseveranza e l’appagamento di trasformare tale condotta interiore in una sorta di rito laico pressoché quotidiano. Purché si abbia il coraggio di guardarci senza sotterfugi sulle pagine che andiamo scrivendo come in un anomalo specchio. Per tali motivi, la scrittura autobiografica, in quanto forma autoanalitica di cura, rappresenta un’ attività non da tutti amata e perseguita. Soprattutto i maschi ne evitano le implicazioni emotive, per un’atavica resistenza a raccontare di sé anche là dove questo apertura sarebbe educativa per gli altri. In tempi in cui l’apparire conta più dell’essere; la finzione, più della ricerca della verità; lo spettacolo, più dell’ indagine introspettiva sincera e lontana da ogni riflettore, è ovvio, che la scrittura pur dando forma a qualcosa di noi, al contempo nasconde sia quanto vogliamo resti soltanto nostro, sia quanto di noi non riusciremo mai a comprendere.
Duccio Demetrio è professore ordinario di filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca (duccio.demetrio@unimib.it). Ha fondato e diretto la rivista Adultità (ed. Guerini) nel 1995; e inoltre la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari; nel 2006 la Società di Pedagogia e didattica della scrittura Gràphein. Con la giornalista Nicoletta Polla-Mattiot ha dato vita all’ Accademia del silenzio, che verrà presentata alla Casa della Cultura di Milano il prossimo 9 marzo. Sono molti i suoi saggi monografici e le opere collettanee dedicati all’approccio autobiografico e alle sue applicazioni (cfr: Raccontarsi 1996;Pedagogia della memoria 1998; Ricordare a scuola 2003; Album di famiglia 2002; Autoanalisi per non pazienti, 2003; La scrittura clinica 2008). Si è sempre occupato di età adulta come filosofo oltre che come studioso di formazione (fra gli altri citiamo: L’età adulta 1990; Elogio dell’immaturità, 1997; Manuale di Educazione degli adulti 1997; Filosofia dell’educazione ed età adulta 2004; In età adulta 2005). Di questa età ha indagato ogni più riposto problema esistenziale, soffermandosi in modo particolare sulla presenza del mito dentro di noi, sulle forme della religiosità , contemporanea; sulla debolezza e la fragilità umana come risorsa: vedi: Di che giardino sei? 2000; Filosofia del camminare, 2005; La vita in schiva 2007; Ascetismo metropolitano, 2009; e, il recentissimo: L’ interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, 2010. Il prossimo libro si intitolerà: La religiosità della terra. Il divino nelle cose finite, la cui uscita è prevista per l’ autunno del 2011 edito da Ponte alle Grazie.
Il libro del silenzio
[http://www.cairoeditore.it/]
Inizia così: “E’ mattino presto. Una mattina straordinariamente radiosa e, cosa insolita quassù, non c’è praticamente vento. Il silenzio è quasi assoluto”.
Il libro mette in luce quanto si abbia timore del silenzio. Quanto in molti casi ci angoscia e si faccia di tutto per rifuggirlo. Ma in tal modo neghiamo il valore della solitudine nello sviluppo umano sano; il nostro diritto alla autonomia e libertà personale. Tendiamo a colmare di suoni e rumori anche questi rari momenti ormai nei quali non siamo tra una folla anonima o tra persone a noi note.
Sara ci narra che allora un bel giorno fugge trova rifugio in un paesaggio selvaggio della Scozia; in un cottage trova finalmente la quiete e la concentrazione che cercava. Impara di nuovo ad ascoltare suoni, a vedere con pacatezza quanto la circonda, ma soprattutto è la scrittura che le fa compagnia. Lo stress si allontana, si accorge di diventare più riflessiva giorno dopo giorno. Il lavoro in giardino la mette in contatto con energie prima sconosciute e si incontra con lo spazio interiore che si va riempiendo di pensieri, emozioni scoperte ben più di quanto non le accadesse nel caos della metropoli. Scopre anche i benefici del pensiero filosofico, vi si dedica come se fosse tornata adolescente. E in questo suo maturare interiore scopre che la sua forza le consentirà di tornare e di trasferire il silenzio meditativo dentro di sé, in circostanze anche frastornanti.
Natura come cura
Queste le prime parole: “E’ una bella giornata di ottobre. Sono fermo sulla soglia di casa e sembro un adolescente impacciato: per la prima volta in vita mia sto traslocando: oggi faccio fagotto e me ne scappo nelle piatte terre dell’East Anglia…”
Richard Mabey è un botanico inglese già famoso, senza apparenti ragioni cade in depressione, si isola, sente su di sé una stanchezza spossante che gli impedisce, provandone nausea, di fare qualunque cosa. Anche di occuparsi della natura cui ha dedicato tutta la vita. Dentro di lui c’è solo uno smisurato senso di smarrimento, senza motivi. Sceglie di isolarsi nella campagna del Norfolk. Parte all’improvviso con poche cose essenziali. Giorno dopo giorno confrontandosi con le necessità di sopravvivenza non comunque impossibili da affrontare scopre che può farcela; si riprende e leggiamo di questo rito di passaggio in età adulta descritto con grande suggestione e passione. Con la attenzione scrupolosa tipica dello scienziato. Torna a quello che era, gli altri non lo infastidiscono più, riprende il contatto con la scrittura in forme autobiografiche e si accorge che lo stare in mezzo alla natura è stata la sua medicina, un balsamo il rapporto fisico con animali, fiori, campi e vento.
“Io ho scelto – questo l’inizio del libro – a stare dalla parte della lentezza. Amavo troppo i meandri del Lot, un fiumiciattolo pigro, e la luce di settembre si attarda sugli ultimi frutti dell’estate e declina impercettibilmente… mi sono ripromesso di vivere lentamente, religiosamente, attentamente, tutte le stagioni e le età della vita”.
L’Autore è professore di Filosofia a Grenoble, si guarda intorno e non fa che osservare frenesia, fretta eccessiva, velocità in ogni attività umana: la tecnologia invece di indurre un rallentamento dei ritmi, grazie ai suoi indubbi vantaggi pratici, viceversa accresce ancor di più i ritmi della vita quotidiana. Si lavora male, si ama di meno, si sprecano ore che potrebbero essere dedicate ad altro, senza la ricorsa al superfluo e al superficiale. Si dedica così alla rilettura dei filosofi dell’antichità che più si sono dedicati alle arti del vivere (alle Technai tou bios) e riscopre che anche centinaia di anni fa alcuni consigli valgono per il momento presente: rallentare, fare più attenzione, imparare a non fare nulla, resistere alla velocità, imparare a passeggiare; a sognare ancora; ad assaporare il presente prolungandone gli istanti e gli incanti imprevisti. Rinobilita quindi la lentezza, reimpara ad ascoltare gli altri a toccarli con affetto, ad aspettare il sorgere del sole.
Non avere paura
Edizioni San Paolo, Milano 2010
[http://www.paolinitalia.it/libri/default.asp]
“Sono seduta come sempre dietro questa mia scrivania – questa è la prefazione di Sonia – e la scrittura mi chiede oggi una maggiore trasparenza, perché il tempo ha costruito, per me, un percorso nuovo e ricco … Mi chiede di essere ardita come solo la scrittura sa rendermi, quando non le volto le spalle”.
Si tratta di una testimonianza autobiografica di malattia grave, oncologica. Sonia si sottopone alle cure e, al contempo, scopre quanto scrivere l’aiuti nel corpo oltre che a contenere il dolore non solo fisico. Dinanzi alla messa in crisi del suo ruolo di madre, di donna. Scrivere le consente di risalire la china, di contrastare lo scoramento psicologico e scopre di aver un talento poetico che prima non era emerso. Scrive, oltre alla sua storia, e non solo di paziente, poesie e racconti. Si accorge del sollievo e dell’aumento di autostima che la penna le procura. Questo è anche un libro sul tempo: sulla pazienza, sull’attesa, sullo stupore ritrovato per l’esistenza di cui Sonia si accorge di essere ancora avida. Lavora però su di sé non da sola; con altre donne fa nascere un’associazione che si occupa di auto narrazione e di mettere in scena i racconti. Il fare comunità tra eguali, con il fine di raccontare che è possibile non avere paura del cancro, diventa quindi scopo solidale e nuova ragione d’essere, sia in una solitudine non più dolorosa, sia insieme in una gioia ritrovata.
La speranza del testimone
[www.ilmelangolo.com]
Si tratta di un piccolo libro di poesie: la prima ha questo incipit:
“Il vento dell’ inverno strappa foglie
All’albero più amico al dolce fico
Che mi cresce in terrazza. Tu mi lasci
Per gettarti nel freddo di dicembre,
cerchi riparo tra luci e negozi
…
Sì, per ora
resistiamo alle raffiche. Si ignora
chi sarà il ramo, di noi, e chi la foglia”
Adriano Sansa è un uomo del diritto e impegnato in politica. E’ stato sindaco di Genova, riuscendo a mantenersi fedele alla sua altra passione, la poesia. Quasi ininterrottamente, parallelamente al suo impegno civile, ha scritto diverse raccolte (fra cui: Vigilia, del 1967; La casa a Sant’Ilario, 1977, fino al testo precedente a questo ora presentato Il dono dell’inquietudine, del 2003). Ancora una volta la scrittura è riuscita ad evitare che si debba sprofondare ineluttabilmente nelle frenesie del proprio lavoro. Sansa è la dimostrazione vivente che si può essere l’uno e l’altro: l’uomo d’azione e l’uomo della contemplazione, della meditazione lirica. Le sue liriche sono dialoghi col passato, con il tempo che passa e si rinnova attraverso altre presenze e voci, quanto l’irreversibilità del tempo, la malinconia di questa constatazione, ci sgomenta. Ma anche soprattutto con l’inquietudine come condizione esistenziale preziosa quando non si voglia rinunciare alla parte migliore di sé: il dubbio, la critica, la mancanza accettata di sicurezze. Il poeta è abitato da un’ambivalenza che gli è indispensabile, da un’altra possibilità di autocura. Rinverdita da evocazioni d’amore, da immagini della giovinezza, dalla presenza vivificante del mare. Ancora una volta dal connubio tra natura e mente che la muta in letteratura.
L’interiorità maschile > Riflessione di Paolo Ferrario
Raffaello Cortina, Milano 2010
pagg. 280, € 14,50 [www.raffaellocortina.it]
La scrittura di Duccio Demetrio è “eccentrica”, nel senso che parte dal bordo delle onde determinate dal sasso gettato nello stagno e procede per gradazioni e continui riverberi a una serie di centri. Il suo è un linguaggio per certi versi affabulatorio, e anche piuttosto seduttivo, che arriva ai punti nodali attraverso processi leggeri di avvicinamento che partono dall’esterno.
Qui si parla ancora di “maschile” in rapporto al “femminile”. Sappiamo che è un tema che ha una storia lunga, se la riferiamo a quella dell’umanità, ma recente se la riferiamo ai vissuti di tutti noi che siamo viventi del mondo contemporaneo, e in particolare dalla seconda metà del ‘900.
Distinguo in questa storia una serie di fasi. La prima è quella collettiva, “estroversa” e movimentista del femminismo, anche con le sue ineluttabili traduzioni estremistiche, degli anni ‘70. C’è poi una fase “reattiva”, nella quale alcune psicologie (in Italia Claudio Risè) ripropongono un ritorno del maschile e ai suoi valori psichici, sia pure ridefiniti nel nuovo quadro culturale. Parte di questa ricerca proveniva da un letterato americano (Robert Bly) che parlava della necessità umana di “recuperare le nostre zone d’Ombra”. C’è ora una fase riflessiva e “introversa” a cui questo libro fornisce un contributo piuttosto importante e di solide fondamenta.
Tre fasi quindi, tre momenti di accentuazione delle problematiche che si dipanano attorno allo sviluppo del maschile e del femminile e quindi, inevitabilmente, anche dei rapporti intersoggettivi tra queste due dimensioni dell’esistere. Dentro questa storia ciascuno estrae gli oggetti che più hanno influenzato la propria esperienza. La lettura di questo libro mi ha fatto andare allo scaffale della memoria per mettere di nuovo sotto la lampada un testo che è cruciale sia per la mia biografia che per i miei studi. Si tratta di La donna e la sua ombra, maschile e femminile nella donna d’oggi (1980) di Silvia Di Lorenzo, una grande psicanalista italiana. Da questo libro estraggo due citazioni di estrema attualità anche rispetto alla ricerca di Demetrio:
“Mi pare che il principale conflitto della donna di oggi consista nella sua esigenza di realizzare il proprio maschile interiore senza per questo perdere o svalutare il femminile nella sua vita cosciente” (p. 13).
E poche righe dopo aggiunge:
“Il maschile e il femminile sono, da sempre, le due polarità dialettiche essenziali della vita sia all’esterno nel rapporto tra uomo e donna dalla cui fecondità dipende la conservazione della specie, che all’interno come tensione dinamica tra gli opposti, il Logos e l’Eros che determina lo sviluppo trasformativo della personalità attraverso la nascita di una sintesi nuova”.
A me questi due passaggi sembrano piuttosto cruciali e di significato durevole. Quando la De Lorenzo parla del conflitto della donna si potrebbe dire in modo speculare, come in uno specchio, che “il principale conflitto dell’uomo di oggi consiste nel realizzare il proprio femminile interiore senza per questo perdere o svalutare il maschile della sua vita cosciente”.
Mi sembra ci sia una simmetria tra la storia delle donne che in questi ultimi quaranta anni hanno sviluppato una propria strada sociale e psicologica talvolta a detrimento della propria funzione femminile, diventando in alcune professioni persone che si comportano “come uomini” nelle relazioni pubbliche, e quella degli uomini che sono diventati incerti e “morbidi” perdendo alcuni tratti di carattere maschili indispensabili anche per “stare bene” nella vita familiare e sociale.
Il percorso da fare sta, forse, nella sintesi interpersonale tra queste due visioni: stare nel mondo con stili psicologici derivanti dalla elaborazione culturale dei due generi. E questo lo si fa costruendo giorno per giorno la relazione, facendola diventare sempre di più intersoggettiva.
Ma quale è il contributo originale e fecondo che Demetrio suggerisce per queste situazioni problematiche?
Il suo sguardo è quello di chi propone il compito di educare se stessi in tutte le fasi del ciclo di vita. Ed è piuttosto interessante il fatto che usa la stessa parola-chiave che Silvia De Lorenzo utilizzava nel 1980: “interiorità”.
Questo è il concetto che sta al centro della sua riflessione e viene riproposto in moltissimi modi e con diverse strategie argomentative e testuali. Un esempio:
“Interiorità è pensare, custodire intimità è avere una memoria alla quale poniamo domande, è tutto quanto non può sfuggire alla coscienza” (p. 15).
Qui l’interiorità viene connotata come capacità di guardarsi dentro e valorizzare il proprio ricordo, ossia il proprio tempo di essere vivente.
In un altro punto il tema dell’interiorità è raccontato in questo modo:
“è l’infinito dentro di noi e per andare verso l’infinito si deve avere il mondo dentro di sé. Bisogna essere fatti di mondo per poter ispezionare con qualche successo e speranza il mondo” (p. 55/56).
E queste parole Demetrio le dice in modo corale con il filosofo Giovanni Reale. Qui la prospettiva è quella di elaborare una interiorità che unisca la finitezza e l’infinito.
Un altro elemento estremamente interessante e coinvolgente di questo libro è il percorso analitico attraverso cui arriva a costellare il tema dell’educarsi alla interiorità. Mi riferisco alla parte in cui vengono esposte al lettore immagini pittoriche corredate da testi letterari e elaborazioni sotto traccia dello stesso Demetrio: sono bambini, adolescenti, uomini adulti. Percorriamo qui una varietà di profili biografici: l’indocile, un bambino che si ribella all’educazione, il predestinato, l’innocente, la sentinella, lo scriba, il sognatore, il poeta dal colletto bianco, l’eremita, il pilota di alianti, il canonico libertino, il padre taciturno, il seduttore svogliato, il mendicante, lo schiavo d’amore, l’invitto. Sono figure rappresentative di modi di essere che per Demetrio diventano tipi di persone attraverso cui meditare e rafforzare con prove il suo ragionamento sul processo di coltivazione della propria interiorità. E la stessa operazione analitica viene effettuata con alcuni miti greci particolarmente pertinenti per la sua proposta: Perseo, Orfeo, Chirone sono figure mitologiche rappresentative di modi diversi attraverso cui l’uomo perviene a curare, coltivare, elaborare una propria interiorità. Rappresentazioni pittoriche e personaggi mitici vanno a comporre sottili e raffinate tipologie umane e riverberano attorno a loro suggestioni e significati che portano Demetrio a sostenere con passione esistenziale la proposta educativa di concentrarsi sul tema dello sviluppo dell’interiorità come compito dell’uomo di oggi.
Un elemento che mi sembra interessante sottolineare è che questa elaborazione Demetrio la sta facendo da più di 10 anni. Basta scorrere alcuni titoli dei suoi libri: L’educazione interiore del 2000, ancora prima L’elogio dell’immaturità del1998, La filosofia del camminare del 2005; La vita schiva del 2007; L’ascetismo metropolitano del 2009. Può non colpire in un autore così prolifico questa coincidenza temporale? La collego al fatto che essendo tra l’altro noi quasi della stessa generazione, siamo entrambi entrati in quella fase che chiamo della prevecchiaia, ossia quella in cui si ha la possibilità di guardarsi indietro e si ha anche uno sguardo sul nostro presente più pacato, più sopito, più meticoloso nel vedere le zone inespresse della personalità, nell’autocriticare alcuni comportamenti in modo leggero.
Trovo estremamente densa di potenzialità la prospettiva di guardarsi dentro per ritrovare tracce rimosse e continuare a crescere sotto il profilo psicologico e formativo.
L’altro elemento rilevante di questa ricerca è la distinzione che Demetrio fa tra il “maschio” e l’”uomo”: in questo scarto fra le due configurazioni esistenziali c’è un compito evolutivo da percorrere. Il maschio deve farsi uomo attraverso un percorso di interiorità, cioè di introversione, come direbbe Carl Gustav Jung: la strada è quella di un ritorno dentro di sé, pur senza perdere il contatto con il mondo esterno.
Gli attributi caratteriali del maschio sono così rappresentati:
“maschi che si uccidono fra di loro, maschi che si misurano in base alla forza e alla debolezza, maschi che abbandonano chi un istante prima idolatravano, maschi che si vantano di imprese cruente, maschi che rinascono dalle proprie ceneri già in armi, maschi che usano il bene comune delle libertà per asservire e concedersi licenze, maschi che non possono stare senza sconfitti, vittime e clientele, maschi che non sanno cosa sia il senso di colpa” (p.26) e così via tutta una serie di aspetti , connotazioni negative degli attributi del maschile.
Viceversa il percorso verso la vita interiore, il passaggio dal maschio all’uomo è così rappresentato:
“Uomini che salgono e scendono le scale più impervie contandone i gradini in silenzio, uomini che a testa alta pongono a se stessi domande sensate, uomini che non cessano di riprodursi ogni volta in controcorrente, uomini che conoscono il sapore della libertà come segreta ricchezza, uomini che vogliono essere soli per sentirsi maschi diversi, uomini che non sono tentati dall’istinto di opprimere chicchessia” (p. 45/46).
Questi in sintesi mi sembrano essere i valori di questo libro: un forte punto di vista che parte dal paradigma educativo, cioè quello attraverso cui la persona modifica se stessa attraverso processi di apprendimento. Trovo che il paradigma educativo sia molto tangenziale con quello psicologico però occorre riconoscere che in quello educativo è molto presente un lavoro di apprendimento. Ed è per questi motivi che Demetrio propone alla fine del testo una serie di “esercizi autoeducativi” orientati alla ricerca di una propria personalissima “centratura” interiore per trovare le strade più adatte a definire meglio il proprio profilo esistenziale di essere uomini dentro questa modernità che ci mette al confronto con il mondo psicologico e relazionale delle donne.
I percorsi suggeriti sono questi. Avvicinarsi al linguaggio poetico, facendosi coinvolgere dalla musicalità delle parola e lasciandosi andare alla poesia come linguaggio autonomo capace esso stesso, attraverso la sola forza delle immagini, di creare nuovi effetti di senso, nuovi significati.
Il secondo esercizio consiste in un lavorio di autocoscienza alla vita interiore dedicandosi agli interrogativi che costellano i dilemmi dell’esistere, la morale, la consapevolezza delle proprie azioni e le relative conseguenze. Il suggerimento è quello di usare il silenzio assieme al piacere della conversazione intersoggettiva.
Giova a questa azione autoeducante praticare i gesti del camminare all’aria aperta (e questo è il terzo esercizio), ma con un taccuino ed una matita. La proposta è chiara e concreta: scrivere un diario, raccontarsi senza avere paura di raccontarsi.
Sono suggerimenti che vengono da lontano. Vengono dalla riattualizzazione matura di quando eravamo bambini sognanti e desiderosi di crescere.