Con la punta dell’unghia posso schiacciare i vulcani,
accarezzare i poli senza guanti grossi,
posso con un’occhiata
abbracciare ogni deserto
insieme al fiume che sta lì accanto.
Segnalano le selve alcuni alberelli
tra i quali è ben difficile smarrirsi.
A est e ovest, sopra e sotto
l’equatore, un assoluto
silenzio sparso come semi,
ma in ogni seme nero
la gente vive.
Forse comuni e improvvise rovine
sono assenti in questo quadro.
I confini si intravedono appena,
quasi esitanti – esserci o non esserci?
Amo le mappe perché dicono bugie.
Perché sbarrano il passo a verità aggressive.
Perché con indulgenza e buon umore
sul tavolo mi dispongono un mondo
che non è di questo mondo.
Map
Flat as the table it’s placed on. Nothing moves beneath it and it seeks no outlet. Above—my human breath creates no stirring air and leaves its total surface undisturbed. Its plains, valleys are always green, uplands, mountains are yellow and brown, while seas, oceans remain a kindly blue beside the tattered shores. Everything here is small, near, accessible. I can press volcanoes with my fingertip, stroke the poles without thick mittens, I can with a single glance encompass every desert with the river lying just beside it. A few trees stand for ancient forests, you couldn’t lose your way among them. In the east and west, above and below the equator— quiet like pins dropping, and in every black pinprick people keep on living. Mass graves and sudden ruins are out of the picture. Nations’ borders are barely visible as if they wavered—to be or not. I like maps, because they lie. Because they give no access to the vicious truth. Because great-heartedly, good-naturedly they spread before me a world not of this world.
D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla. Spalanchi la finestra, e la camera è subito inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno umido, in parte di caffè e di preghiere. Non importa la qualità e la quantità delle pillole che ti tocca inghiottire questa mattina: senti che per te non è ancora finita. … In giorni come questi la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo.
Se capiti d’un tratto fra erbe di pietra,
più splendenti nel marmo che nel vero,
o se vedi una ninfa inseguita da un fauno,
felici entrambi più nel bronzo che nel sogno,
posson lasciare il bordone le affrante dita:
sei nell’Impero, amico.
Aria, acqua, fiamma, fauni, leoni, naiadi,
copie dal vero o corpi immaginari,
tutto ciò che ha inventato Dio e che il cervello
s’è stancato di continuare, s’è fatto pietra, metallo.
Questa la fine delle cose, questo alla fine della strada
lo specchio per entrare.
Mettiti in una nicchia vuota e, rovesciando
gli occhi, guarda svanire dietro l’angolo
i secoli, e il muschio ricoprire il ventre
e le spalle la polvere, tinta del tempo.
Qualcuno spezza un braccio, e con un tonfo rotola
la testa giù dal collo.
E resta un torso, anonima somma di muscoli.
Mille anni dopo abiterà qui un topo, ma,
l’unghia rotta sul granito, uscirà una sera,
squittendo, zampettando oltre la strada,
per non tornare a mezzanotte in tana.
E neppure al mattino
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