Disabilità

Aggiornamenti sociali,Lessico oggi. Orientarsi nel mondo che cambia, Rubbettino, 2003
p. 70-76

Studenti

Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 129-133

Sessantotto

Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 122-128

Iperrealtà

Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 77-81

Giovinezza

Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 64-68

Tappe di avvicinamento alla “teoria del vivente” di Silvia Montefoschi | Segni di Paolo del 1948

Racconto i miei passaggi, a tutt’oggi, dentro la “teoria del vivente” di Silvia Montefoschi.

Primo passaggio è stato l’avere compreso ed introiettato il suo principio di intersoggettività.

La vera operazione di allargamento della sfera della mia coscienza avveniva attraverso l’argomentazione sul “fenomeno intersoggettivo (che lei narrava non in astratto, bensì, facendola emergere dalla sua esperienza di psicoanalista) che ho raccontato in questo audio-video:

http://amalteo.splinder.com/post/18849746/Paolo+Conte+in+Bella+di+giorno

Il secondo passaggio è contenuto nella frase

“Cosa vuole dire che è ciò che è?” 

(fra l’altro curiosamente ripetuta in libri di Peter Handke e film di Wim Wenders)

A me arriva da un ricordo/sogno//reverie. neppure io so cosa sia: risale alle origini mia infanzia più lontana. Forse tre anni, dunque 1951.

Sono nella stanza da letto dei miei genitori (era una casa che dava sul lago, per l’esattezza Torno. Oggi faccio vivere la mia psiche lì vicino: tre paesi dopo)

Guardo fuori dalla finestra, vedo un ‘isola (che in realtà non c’è). Su quell’isola c’è Garibaldi (è evidente la fusione di immagini succcessive)

E’ tutto.

Eppure in questa immagine è racchiuso un primo nucleo della mia salvezza intersoggettiva.

Sono certo che , assieme al mio cane pastore tedesco Pantò, mi sono “salvato” dall’abisso mortale perchè in me agiva una forza altra, istintuale e razionale al tempo, che mi poneva alla ricerca di un oggetto comune esterno alla relazione diadica primaria.

Il terzo passaggio è di questi giorni.

B. mi ha risolto una questione che vedevo appena. Ero piuttosto preoccupato dal tono settario dei seguaci di Silvia Montefoschi, che ne hanno fatto una specie di idolatria linguistica e gregaria.

Mi chiedevo: ma come può un pensiero così nitido, così prospettico, così capace di mettere assieme l’Uno, l’Altro e l’Infinito generare dei cloni così imitativi e ripetitivi?

E poi mi chiedevo perchè Silvia è così severa nel suo libro Il Pensiero Uno (eccezionale, una possente camminata nel pensiero del novecento) a mettere la croce NO, come una maestrina da liceo, a pensatori così basici. In questo libro riassume un pensiero e poi dice che NON E’ qualcosa, NON E’ il pensiero Uno.

Come mai sono così attratto da questo testo, pur vedendo un limite valutativo nello stesso fluire maestoso di pensiero di silvia montefoschi?

Tale questione me l’ha chiarita in modo per me soddisfacente B. quando scrive (cito a memoria) che Silvia Montefoschi è diventata pensiero allo stato puro (aggiungerei con le mie parole che è diventata come un diamante) e che i suoi allievi che la inseguono sul SUO terreno, senza collocare la loro personale posizione in nuovi quadri, ne danneggiano la stessa prospettiva. Mentre la questione è METTERE IN CONNESSIONE prospettive differenti, per lui Hillman e Montefoschi, pur nella polarità delle due posizioni.

Fine di questa mie quasi seduta di autoanalisi

——————————————————-

Pensieri associati

Dice G.:

Non so che dire dell’esperienza diretta di chi ha conosciuto Silvia Montefoschi. Dei tanti grandi che pure sono stati nostri Maestri – come piace dire a me – non resta spesso la lezione accademica né conta ogni piega della vita.

Ad esempio, non mi faccio turbare dal fatto che Martin Heidegger aderì al Nazismo. Giudico la sua opera. E non tutta la … Visualizza altrosua opera.

Allo stesso modo, credo che Montefoschi debba essere giudicata per quello che lascia in eredità. Al di là di quanto possa esserci di caduco nella vita e perfino nell’opera.

Non sono credente, eppure leggo il Vangelo. Di tutte le filosofie che ho ‘attraversato’ quello che ho preso per me e che guida la mia vita è spesso solo una parte di esse e sempre non la più importante. Ad esempio, ho proposto di Massimo Cacciari “Filosofia e tragedia” per l’Antologia del tempo che resta, per il fatto che in quella conferenza è condensata tanta parte del mio modo di sentire.

Ho compreso fin qui che c’è in quest’ultima opera un’affinità sotterranea con il mio percorso di vita, per quanto riguarda il ‘superamento’ di ogni dualismo nella vita del pensiero.

Ma per me è solo un inizio. Anche se non è poco. Mi viene in mente l’errore di Cartesio (in Damasio e poi in Galimberti)

dice B.:

menti diverse vibrano all’UNI-SONO… mi piace, un grazie di cuore a g. per questa iniziativa e per la descrizione di una modalità di procedere che sento per certi versi simile a quella mia, a paolo per il fuoco della mente che sento divampare in lui quando parla delle cose in cui crede e che riconosco molto simile a quello di silvia oltre che per le tracce biografiche di cui spesso ci fa dono, a f. che si è subito immesso con grande agilità nel flusso di questo discorso, ecco a lui non consiglierei di partire dagli studi clinici, ma dalla teoria del vivente perchè è qui che la montefoschi è maestra, per cui partire da questo libro che è l’ultimo per me può andar bene, oppure da “sistema uomo” seguito da “essere nell’essere” (che è il percorso che ho fatto io, che vale come quello di paolo, ognuno trovi il suo, io all’intersoggettività ci sono arrivato indirettamente attraverso questi libri).

Riguardo l’imbarazzo o lo scandalo degli ex montefoschiani e del mondo accademico, dico solo che un grande è sempre fuori dagli schemi di pensiero comuni e del tempo storico di appartenenza, altrimenti non sarebbe tale, del resto genio e follia sono strettamente associati, non può esistere un genio “nella norma”, per cui a livello del genio, soprattutto se mistico, non dev’essere considerato patologico se giovanni evangelista è l’amante celeste di silvia . Per loro è una dimensione dell’essere altrettando reale di quella che per noi cade sotto i 5 sensi, è questo lo sfondamento del logos e del soggettività che deve essere operato se vogliamo sentirci nel cuore del vivente, altrimenti ne siamo sempre parti staccate, separate, noi alla deriva, non lei. Che poi, vista da un altro punto, è la radicalità che deriva dall’abbracciare interamente il proprio Daimon… comunque paolo ha perfettamente capito la “problematica” di chi si accosta a un pensiero così vertiginoso, e gliene sono grato, bisogna anche avere un minimo di difesa, ma non troppa!…

da: Tappe di avvicinamento alla “teoria del vivente” di Silvia Montefoschi | Segni di Paolo del 1948.

ETICA-ESTETICA sono importanti nella vita?

In questo periodo sto meditando sul tema del rapporto eros-ethos e tra etica ed estetica, per cui mi è particolarmente utile il libro di Sergio Givone proprio su questa importantissima materia, che è poi materia di vita credo, perché tutto si gioca qui, su questo crocevia dello spirito nel suo inesausto e ineffabile manifestarsi nel limite dell’esserci. Riporto uno dei brani che più mi hanno colpito, tenendo presente che io sono per trovare tra i due estremi un legame creativo, amoroso, perché in fondo, e forse non solo nell’umano, non può esserci l’uno senza l’altro.

«L’etica, nondimeno, ha molti argomenti a suo favore. In quanto espressione della serietà della vita, smaschera l’estetica, che è la vita immediata, la vita votata alla dissipazione e all’insignificanza. “L’estetica è nell’uomo ciò per cui egli è spontaneamente quello che è, mentre l’etica è ciò per cui l’uomo diventa quello che diventa”. L’uomo che è com’è, «spontaneamente», non è mai in rapporto con sé ma sempre e soltanto con l’occasione che gli si presenta. Se esiste un’arte dello scegliere, anzi, del gustare il meglio, costui certo la conosce alla perfezione. Ma in realtà non è lui che sceglie, perché piuttosto è scelto. La sua esistenza trascorre di istante in istante, ognuno raccolto in una sua meravigliosa pienezza, ma non c’è continuità, non c’è sviluppo, non c’è principio che trasformi il godimento in autentica esperienza spirituale. Nessuno come l’esteta sa sprigionare dal niente tesori di bellezza e di delizia. Ma qui scatta il rovesciamento. Se una cosa vale l’altra (come un fiore vale l’intero mondo, un microcosmo il cosmo), perché ognuna, anche la piú povera e piú misera, possiede un suo segreto che manifestato l’illumina, allora tutte, al culmine del loro rifulgere sotto lo sguardo fascinoso dell’esteta, si appiattiscono sullo zero, cessano di apparire seducenti, precipitano in un’opacità e in un mutismo che solo l’eccitazione artificiale può vincere. Ed è la disperazione, di cui l’esteta, vittima di se stesso, è destinato a restare prigioniero. Fino alla malinconia piú nera. E fino a quello spasmodico e sterile tentativo di liberarsene che è l’isterismo dello spirito. (…) Chi vive eticamente ha memoria per la sua vita, chi invece vive esteticamente non l’ha affatto. Decisivo, a questo punto, il concetto di ripetizione e anzi di “ripresa”, questa “sposa amata di cui non accade mai di stancarsi”, perché a colmare di gioia non è mai la novità, ma ciò che è già stato e che essendo sempre di nuovo riscatta il passato dall’oblio e dal non senso, fa splendere il presente, è promessa di futuro. Non comprendere che “la vita è una ripresa e in questo consiste tutta la bellezza della vita” ci condanna al destino che meritiamo: perire. C’è un’estetica nell’etica. Più vera e più alta. Grazie alla ripetizione il quotidiano acquista dignità e incanto.» (Eros/ethos, Sergio Givone, Einaudi, pp. 55-56)

Indice: Violenza; Eros; Ethos; Colpa; Fabula; Origine; Eros/ethos

UMBERTO GALIMBERTI, Per una filosofia attenta all’altro

“La via dell’amore”, il nuovo saggio di Luce Irigaray
PER UNA FILOSOFIA ATTENTA ALL’ALTRO
di Umberto Galimberti *
E se “filo-sofia” non volesse dire ” amore della saggezza” ma “saggezza dell’amore”, così come “teo-logia” vuol dire discorso su Dio e non parola di Dio, o come “metro-logia” vuol dire scienza delle misure e non misura della scienza? Perchè per “filo-sofia” questa inversione nella successione delle parole? Perchè in Occidente la filosofia si è strutturata come una logica che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nelle università dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo un sapere che non ha alcun impatto sull’esistenza e sul modo di condurla? Sarà per questo che da Platone, che indica come condotta filosofica “l’esercizio di morte”, ad Heidegger, che tanto insiste sull’essere-per-la morte, i fillosofi si sono innamorati più del saper morire che del saper vivere?
Questa è la provocazione di Luce Irigaray che, nel suo ultimo libro: La via dell’amore, denuncia l’atteggiamento tipico e totalmente irriflesso del filosofo che, nella cura della purezza del logos, trascura il dia-logo con uno o più soggetti differenti, come le donne, per esempio, onde evitare i delicati problemi relazionali che nascono dal confronto con l’altro. E’ saggio tutto questo? O è semplicemente il sintomo di una paura o di una incapacità di entrare in relazione con l’altro?
Con questa provocazione Irigaray non intende distruggere l’edificio concettuale che la filosofia ha costruito in Occidente, ma denunciarne il carattere parziale, dovuto al fatto che si è preferito coltivare la purezza delle idee piuttosto che il rapporto intersoggettivo tra gli uomini, tutti portatori di idee, amputando così la verità, l’etica, la teologia stessa dei suoi valori di base, per privilegiare un monologo solipsistico, sempre più lontano dal reale.
Tutto ciò non corrisponde a una saggezza umana, ma piuttosto a un esilio circondato da fortificazioni dove il filosofo si ripara, servendosi soprattutto di una lingua difficilmente accessibile e più preoccupata di ” parlare di” invece che di ” parlare con” gli altri e così apprendere che non c’è una sola verità, una sola bellezza, una sola scienza.
E questo vale soprattutto oggi dove, per effetto della globalizzazione sperimentiamo che la diversità non è solo tra l’uomo e la donna, e più in generale fra i soggetti, ma tra le differenti culture, ciascuna delle quali è portatrice di un’oggettività difficilmente catalogabile con le nostre categorie, oltre che di una simbolica e di una sensibilità che richiedono di essere non solo comprese, ma pensate.
Qui più del logos conta il dia-logo, che è possibile solo quando riconosco che l’altro possa avere un gradiente di verità superiore al mio. Questa è l’essenza della tolleranza che le religioni, nonostante il gran parlare che ne fanno, misconoscono. Perchè non si può dialogare con chi si ritiene depositario di una verità assoluta. Questo la filosofia deve dire alle religioni, ma solo se si presenta non tanto come amore per la saggezza quanto come saggezza dell’ amore. Perchè è proprio dell’amore il riconoscimento dell’alterità dell’altro.
Bisogna allora passare dalla “trascendenza verticale” proposta dalle religioni alla “trascendenza orizzontale” che riconosce l’altro non nel Grande Altro ma nell’altro che ogni giorno incontriamo e che invoca un discorso per elaborare non la città ideale di Platone che sta nell’iperuranio, ma un universo che sia da tutti il più possibile condiviso. Meno filosofia del logos e più pratica filosofica attenta al mondo della vita. Questo forse oggi è necessario se non addirittura urgente.
– LUCE IRIGARAY, La via dell’amore, Bollati Boringhieri – Traduzione di Roberto Salvatori – Pagg. 117, – Euro 14
* La Repubblica/Almanacco dei libri, 12.04.2008.

Emmanuel Lèvinas – Il volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’infinito.


La filosofia di Lèvinas origina da un pensiero personale nato dallo stupore del silenzio di Dio verso le tragedie, pensiero nel quale confluiscono diverse tradizioni e culture – l’ebraismo lituano, intellettualista e non mistico; la letteratura russa; la filosofia francese, in particolare quella di Bergson; la fenomenologia di Husserl e Heidegger – che si integrano tra loro in una unità elaborata grazie alla sua riflessione e alla sua personale esperienza di vita, molto segnata dalla Seconda Guerra Mondiale e dai campi di concentramento.

“Configurandosi come fagocitazione dell’altro, l’ontologia fino ad Heidegger si delinea, secondo Lèvinas, come una filosofia della potenza che porta al dominio ed alla sopraffazione del prossimo. Alla violenza teorica dell’approccio ontologico, corrisponde, sul piano pratico, l’annientamento della dignità e della libertà dell’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tanto che lo stesso Heidegger nel 1933 aderirà al nazismo; scelta quest’ultima che determinerà il radicale distacco di Lèvinas dal filosofo tedesco.

Dolcezza, accoglienza, ospitalità, dimora, passività della ragione in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, vulverabilità, verginità ossia l’inviolabilità dell’infinito che resta, e deve restare, desiderato e mai posseduto, alterità, questi tratti femminili per eccellenza, secondo la tradizione, sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Lèvinas, il quale nel suo percorso filosofico cerca di ridefinire l’identità del soggetto mettendo in questione il Logos greco, razionalità arida ed avvilente. Il primato dell’ontologia è il paradigma dell’Occidente: Da Parmenide ad Heidegger non c’è mai stata la possibilità della singolarità. In Totalità e infinito Lèvinas scrive:

“Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale […] resta all’interno dell’obbedienza dell’anonimato e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. […] L’essere prima dell’ente. L’ontologia prima della metafisica – cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’altro”.

Secondo Lèvinas, infatti, il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione del medesimo nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere.

Fin dal saggio del 1935 L’evasione, Lèvinas si domanda se per dire l’umano sia possibile intraprendere un’altra strada rispetto a quella dell’essere: “Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via”.” (Tratto da: Mirko di Bernardo, Emmanuel Lèvinas: La metamorfosi del femminile come via che conduce all'”altrimenti che essere”?)



Per Lèvinas, come per quasi tutti i filosofi contemporanei, l’etica non è fatta solo di regole o direttive, ma anche di attenzione alle realtà umane, specialmente alle azioni e alla responsabilità di ogni essere libero.


Egli fonda tutta la sua teoria dell’etica della società su “il faccia a faccia con l’altro”. E’ lì che è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.



Così egli scrive: “Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
In “Dio, la morte e il tempo” scrive: “La morte apre al volto d’Altri, il quale è espressione del comandamento “Non uccidere”. Tentare di partire dall’omicidio come da ciò che suggerisce il senso esauriente della morte. Pensare la morte a partire dal tempo – e non come in Heidegger, il tempo a partire dalla morte – è uno degli inviti tratti dal primo sguardo all’utopismo di Bloch; pensarla d’altra parte a partire dall’interrogazione sul senso dato all’emozione che accoglie la morte. Porre in risalto la questione che la morte solleva nella prossimità del prossimo, questione che, paradossalmente, è la mia responsabilità per la sua morte”.

All’origine dell’etica lèvisiana sta l’appello dell’alterità/esteriorità d’altri che significa nel “volto”, in quanto esso mi comanda di aiutarlo nella sua indigenza, nudità, esposizione, fragilità e altezza al tempo stesso. Il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, “che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire”. “La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina in una dimensione di maestosità”. L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, “anzi, comando etico incondizionato che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” del Signore e del Maestro, e rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui”.

“Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza”.


Quella del volto è una delle tesi fondamentali del suo saggio “Totalità e Infinito”. Nella Prefazione Lèvinas scrive: “Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità. In essa si consuma l’idea dell’infinito”, il luogo in cui si manifesta la totale alterità di Dio, che si fa strada nell’incontro con l’Altro.



Oltre a una relazione diretta con l’altro nel faccia a faccia della prossimità, esiste una relazione più indiretta e mediata, che non passa necessariamente attraverso la vicinanza dell’incontro. È quello che Lévinas chiama “il terzo” e che in “Altrimenti che essere” definisce come “un altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo”. È qui che si pone l’esigenza di giustizia come istanza di colmare, nell’uguaglianza, la distanza che separa il prossimo dal lontano. Questa responsabilità si allarga nella giustizia e nello Stato, a un livello universale.

La Diaconia da: E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore.



“La visitazione del volto non è il disvelamento di un mondo. Nella concretezza del mondo, il volto è astratto o nudo. E’ denudato della propria immagine. E’ solo grazie alla nudità del volto che la nudità in sé diventa possibile nel mondo.



La nudità del volto è una spoliazione priva di ogni ornamento culturale, un’assoluzione, un distacco in seno stesso alla propria produzione. Il volto entra nel nostro mondo a partire da una sfera assolutamente estranea, e cioè proprio a partire da un assoluto che, del resto, è il nome stesso dell’estraneità innata. Nella sua astrazione, il significato del volto è, in senso laterale, stra-ordinario. Com’è possibile una simile produzione? Com’è possibile che, nella visitazione del volto, la venuta d’Altri a partire dall’assoluto non si trasformi, in nessun modo, in rivelazione, non fosse che come simbolismo o suggestione? Perché il volto non è semplicemente una rappresentazione vera in cui l’Altro rinuncia alla propria alterità? Per poter rispondere a tali domande dovremo studiare la significazione eccezionale della traccia (in E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza” con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore) e l’ordine personale in cui tale significazione è possibile.



Insistiamo per ora sul senso implicito nell’astrazione o nella nudità del volto che ci apre tale ordine e sullo sconvolgimento della coscienza che risponde a tale astrazione. Spogliato della sua stessa forma, il volto è irrigidito nella sua stessa nudità. E’ una miseria. La nudità del volto è indigenza e già supplica nella rettitudine che mi concerne. Ma tale supplica è un esigere. In essa l’umiltà si unisce all’alterigia. E con ciò si annuncia la dimensione etica della visitazione. Mentre la rappresentazione vera resta possibilità di apparenza, mentre il mondo che ostacola il pensiero non può nulla contro il libero pensiero che nella propria intimità è capace di non aderire al mondo, di rifugiarsi in sé, di rimanere appunto libero pensiero dinnanzi al vero e di esistere “per primo” come origine di ciò che riceve, di dominare con la memoria ciò che lo precede, mentre il libero pensiero resta “lo Stesso”, il volto mi si impone senza che io possa rimanere sordo al suo appello o obliarlo, e cioè senza che io possa smettere di essere ritenuto responsabile della sua miseria. La coscienza perde il suo primato.



La presenza del volto significa anche un ordine irrecusabile – un comandamento – che fa venir meno la disponibilità della coscienza. Il volto mette in questione la coscienza. La messa in questione non è nuovamente presa di coscienza di tale messa in questione. L’assolutamente altro non si riflette nella coscienza. Vi resiste a tal punto che la sua resistenza non si trasforma in contenuto di coscienza. La visitazione consiste nello sconvolgere l’egoismo stesso dell’Io, il volto disorienta l’intenzionalità che mira ad esso.



Si tratta della messa in questione della coscienza e non di una coscienza della messa in questione. L’Io perde la sua sovrana coincidenza con sé, la propria identificazione in cui la coscienza ritorna trionfalmente a se stesa per riposare in sé. Dinnanzi all’esigenza d’Altri, l’Io espelle se stesso da tale riposo e non si identifica con la coscienza, già orgogliosa, di tale esilio. Qualsiasi compiacimento distruggerebbe la rettitudine del movimento etico.



Ma la messa in questione di questa selvaggia e ingenua libertà, sicura del proprio rifugio in sé, non è soltanto questo movimento negativo. La messa in questione di sé è proprio l’accoglimento dell’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è il volto in cui l’Altro mi interpella e mi impartisce un ordine attraverso la sua stessa nudità, la sua stessa indigenza. La sua presenza è un’ingiunzione a rispondere. L’Io non prende solo coscienza della necessità di tale risposta, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere rispetto a cui ci sarebbe possibilità di scelta. Nella sua stessa posizione, egli è integralmente responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.



Essere Io significa allora non potersi sottrarre alla responsabilità. Questo più d’essere, questa esagerazione che chiamiamo essere io, questa sporgenza dell’ipseità nell’essere, si compie come una turgescenza della responsabilità. La messa in questione di me stesso da parte dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. Solidale, non nel senso in cui la materia è solidale con il blocco di cui fa parte, o come lo è un organo con l’organismo in cui ha la propria funzione; solidarietà, qui, significa responsabilità come se tutta la struttura della creazione poggiasse sulle mie spalle. L’unicità dell’Io consiste nel fatto che nessuno può rispondere al mio posto. La responsabilità che svuota l’io del suo imperialismo e del suo egoismo, persino del sano egoismo, non lo trasforma in un momento dell’ordine universale. Lo conferma nella sua ipseità, nella sua funzione di supporto dell’universo.



Svelando all’Io un simile orientamento lo si identifica con la moralità. L’Io dinnanzi ad Altri è infinitamente responsabile. L’Altro che suscita questo movimento etico nella coscienza, e che sconvolge la buona coscienza della coincidenza dello Stesso con sé, implica un sovrappiù inadeguato all’intenzionalità. E’ questo il Desiderio: bruciare di un fuoco diverso da quello del bisogno che l’appagamento estingue, pensare al di là di ciò che si pensa. A causa di questo sovrappiù inassimilabile, a causa di questo al di là, abbiamo chiamato la relazione che ricongiunge l’Io all’Altro “Idea di Infinito”.



L’idea di Infinito è Desiderio. Essa consiste, paradossalmente, nel pensare più di ciò che è pensato, mantenendo comunque questo più nella sua dismisura rispetto al pensiero, consiste nell’entrare in relazione con l’inafferrabile, garantendo tuttavia a quest’ultimo il suo statuto di inafferrabile. L’infinito non è dunque il correlato dell’idea di infinito, come se l’idea fosse un’intenzionalità che ha termine nel proprio oggetto. La meraviglia dell’infinito nel finito è uno sconvolgimento dell’intenzionalità, uno sconvolgimento di questo appetito di luce: contrariamente alla saturazione in cui l’intenzionalità viene appagata, l’infinito disorienta la sua idea. L’Io in relazione con l’Infinito non può arrestare la propria marcia in avanti, non può abbandonare il proprio posto, come afferma Platone nel Fedone; non ha letteralmente il tempo di volgersi indietro. E’ questo l’atteggiamento irriducibile alla categoria. Non potersi sottrarre alla responsabilità, non disporre di un’interiorità come nascondiglio in cui rientrare in sé, andare avanti senza preoccuparsi di sé. Diventare sempre più esigenti rispetto a se stessi: quanto più faccio fronte alle mie responsabilità tanto più sono responsabile. Potere costituito dall’impotenza, è questa la messa in questione della coscienza che la fa entrare in un tessuto di relazioni che rompono con il disvelamento.”.

Pensieri correlati



“… Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a parlare, e nemmeno a formulare un pensiero, se non mi sta davanti qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono sicuro che il discorso si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di praticaccia. E’ così: non mi viene la parola se non mi rappresento qualcuno in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui quasi tutto il mio scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si snoda il discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio.

No, non c’è praticaccia che tenga: se non guardo in faccia la gente, non riesco a parlare.

Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono uno dal colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi perseguita con graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi lampeggiano dentro, da sempre.” (David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)



“La mia conoscenza personale di Don Dilani risale addirittura al 1954. Una disadorna stanza di Cadenzano, alle porte di Firenze,gli serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente: un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto. Già dall’ora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici. E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui.” David Maria Turoldo

“La mia faccia annuncia la mia presenza, riferisce sulla mia natura e soprattutto, rivolta com’è verso l’esterno, reca un messaggio agli altri. Gli angeli suonano la tromba. Ridestano dal sonno. Altrettanto fa la faccia: pretende una risposta”. (James Hillman)

“La faccia umana in realtà assomiglia a una di quelle divinità orientali: un’intera serie di facce giustapposte su piani diversi; è impossibile vederle tutte contemporaneamente” ebbe a dire Proust.



Una faccia va osservata nel tempo, sotto luci variate, durante molte scene diverse. Nessuno ha “una” faccia. La faccia invecchiata mostra la sovrapposizione di “un’intera serie di facce”. Le sette età che passano e ripassano, una trama da leggersi tra le righe. Perfino la faccia del neonato lascia intravedere tutta la gamma; fuggevoli espressioni di disposizioni irrealizzate, ma possibili”.
In: “La forza del carattere”, James Hillman

AGGIORNAMENTI SIGNIFICATIVI

Lunedì 2 marzo: alla fine del sesto capoverso ho aggiunto
A questo riguardo, Cacciari, ad esempio, parla di arrischio della relazione.

Martedì 3 marzo: all’interno del capoverso che segue ho aggiunto due link che rinviano a MASSIMO CACCIARI sull’angelo che conduce poi a WALLACE STEVENS, L’angelo necessario, utilizzato da Cacciari per dare il titolo alla sua opera omonima.
Vorrei ‘chiarire’ quanto precede alla luce dell’esperienza, illuminando i più importanti paradossi dell’esperienza – il mistero della bellezza, l’amore come forza che divide, il rapporto originario tra libertà e nulla, tra silenzio e parola, tra visibile e invisibile… – con l’aiuto della teoria.


Mercoledì 4 marzo: in fondo al sesto paragrafo ho inserito il link a MASSIMO CACCIARI, Sul concetto di relazione: ritrovare la prossimità nella distanza.

Il carattere di questo perdersi può essere ‘tradotto’ così: come l’eroe deve deporre le insegne regali per andare incontro al proprio destino, così noi dobbiamo affrontare la nuda vita per scegliere ogni volta di nuovo da che parte stare. A questo riguardo, Cacciari, ad esempio, parla di arrischio della relazione.

Martedì 10 marzo: all’interno dell’ottavo paragrafo ho inserito in link a SALVATORE NATOLI, Costituirsi come soggetti morali.
Comunque, solo imparando tutti a consistere come soggetti morali – non potendo forse più farci partigiani di un’idea per la quale valga la pena di morire -, ritroveremo la forza indispensabile per dare fiato alla timida ala della speranza.

e all’interno dell’undicesimo paragrafo ho inserito il link all’idea di sradicamento dell’ethos.
Vorrei ‘chiarire’ quanto precede alla luce dell’esperienza, illuminando i più importanti paradossi dell’esperienza – lo sradicamento dell’ethos, il mistero della bellezza, l’amore come forza che divide, il rapporto originario tra libertà e nulla, tra silenzio e parola, tra visibile e invisibile… – con l’aiuto della teoria.

_

IL VIAGGIO DI ULISSE, relatori: Giovanni Reale, Tiziano Scarpa, da Fondazione Corriere della Sera. Sulla strada del viaggio, 7 ottobre 2008 – 28 ottobre 2008

Fondazione Corriere della Sera.
Sulla strada del viaggio, 7 ottobre 2008 – 28 ottobre 2008
7 ottobre 2008
“Il viaggio di Ulisse ovvero della conoscenza”
Relatori: Giovanni Reale, Tiziano Scarpa.
Coordina: Pierluigi Panza.

Alberto Ronchey su Raymond Aron, Il Foglio 19 febbraio 2005

ronchey324 ronchey326 ronchey327

VITO MANCUSO, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, prefazione di Edoardo Boncinelli, Mondadori , 2002

MANCUSO1866 MANCUSO1867 MANCUSO1868 MANCUSO1869 MANCUSO1870 MANCUSO1871 MANCUSO1872 MANCUSO1873 MANCUSO1874