Alla fine degli anni ’70 mi capitò di confidare ad una collega di lavoro (una femminista ed aspirante antropologa) che leggevo con gusto della conoscenza e con significativi riflessi sul corso della mia unica esistenza gli scritti di Carl Gustav Jung.
Mi guardò malamente è disse con disprezzo : ” … un religioso …”
A quell’epoca ero all’avvio del mio processo di analisi (il più fortunoso investimento economico ed esistenziale che ho fatto per significare il corso della vita) e mi sembrava – al contrario della superficiale rappresentazione che ne aveva la collega – che Jung fosse un empirico. Leggendo nelle pieghe della sua magmatica scrittura mi appariva come uno straordinario osservatore dei fatti che metteva sotto osservazione: sia che fossero fatti interni alla psiche o esterni ad essa e rappresentati nei simboli della umanità.
Ne ho oggi conferma illuminante nella nota di un libro bellissimo:
In una famosa intervista della BBC con John Freeman, fu chiesto a Jung se credeva in Dio. La sua risposta, “Adesso lo so. Non ho bisogno di credere“, suscitò molte domande e commenti, Jung proseguì dicendo che non avrebbe mai potuto “credere” alcunchè sulla base dell’autorità e dell’insegnamento della tradizione; la sua era piuttosto una mente scientifica e aveva bisogno di conoscere le cose sulla base di fatti e di prove. Intendeva dire che sapeva di Dio per esperienza personale. Questo genere di “sapere”, tuttavia, è personale e “gnostico”, e non è verificabile o confutabile scientificamente.“
in Murray Stein, Trasformazione, compito umano fondamentale, Moretti & Vitali, 2005, nota 1 a pag 119-120