Eudaimonía si potrebbe tradurre, con una certa approssimazione, usando la parola “felicità”. Ma il campo semantico del termine eudaimonía, ovvero ciò che questa parola comprende, è molto più ampio.
All’inizio di quello che forse è il primo grande libro sull’etica, sulla struttura del comportamento degli uomini – l’Etica Nicomachea di Aristotele – si dice che tutti gli uomini, com’è ovvio, perseguono il bene, ovvero ciò che è loro utile, che non distrugge, ma arricchisce la loro personalità, consentendole di svilupparsi, di continuare a vivere, di permanere nell’essere.
Prima di acquisire un senso filosofo più tecnico, più complesso, la parola “bene” aveva dunque questo significato semplice, elementare. Quando si persegue il bene e ciò che questa parola indica, dice Aristotele, si persegue nello stesso tempo la felicità, la eudaimonía.
Eudaimonía è una parola molto bella, molto interessante. Essa è composta da due termini. Il primo è eu: bene, buono, in modo buono. L’altro è daímon. Daímon significa demonio, o meglio un piccolo dio, o un dio particolare: il termine non si riferisce dunque alla possibilità dell’essere umano di conseguire la propria felicità, bensì a ciò che gli dei, questi dei minori, per così dire, possono accordarci.
In un passo dell’Etica Nicomachea Aristotele cita un brano della tragedia greca in cui si afferma che chi ha un buon daímon non ha bisogno di amici. Sembrerebbe dunque che la felicità sia indipendente da noi. E perciò, in un primo momento, la parola “felicità” è legata a ciò che ci viene da altri esseri, da altre forze; ciò che ci viene offerto da misteriosi personaggi che, gratuitamente e liberamente, ad alcuni concedono beni, e ad altri li negano.
È chiaro che questa prima idea di felicità derivava da una concezione, o meglio da un’ideologia, legata alla constatazione che c’era chi aveva molto e c’era chi aveva poco.
Il mondo era avaro, la vita era povera o, per meglio dire, i beni erano scarsi. E i Greci, colpiti dall’arbitrarietà nella ripartizione dei beni, pensavano che essa fosse dovuta allo eudaímon, a un piccolo dio, a un duende (un folletto, per dirlo nello spagnolo tipico dell’Andalusia, alla Garcia Lorca), che dava agli uni e agli altri negava. Questa idea di felicità, di eudaimonía, conosce tuttavia un’evoluzione durante il corso della filosofia greca, e in Aristotele ha già assunto quel secondo aspetto per il quale l’eudaimonía è qualcosa che si può conseguire, che dipende dalle energie e dalle possibilità umane.
Di conseguenza l’eudaimonía, la felicità, non è più uno stato passivo, di esclusivo godimento corporale. La felicità è un processo, una lotta. La ricerca della felicità è connessa, oltre che con un godimento personale, un’intima soddisfazione, con una tensione, un percorso, un progresso verso una struttura di adeguamento dell’io, della persona, del soggetto, al mondo circostante. Intesa in questo senso, l’eudaimonia può diventare un processo democratico – e possiamo constatarlo nella storia della filosofia greca – collegandosi con l’evoluzione di una società in cui ormai non si dipende più da quanto gli dèi – il daímon – ci concedevano arbitrariamente. L’eudaimonia entra così in rapporto con le possibilità offerte da una società nella quale tutti gli elementi che la compongono collaborano a un progetto comune. La felicità dell’individuo, del soggetto, si trova perciò ad essere condizionata e determinata dalla creazione di felicità per gli altri; i quali, da parte loro, ci rispondono consentendoci di realizzare, nello spazio sociale, la nostra propria, personale, felicità.
La parola eudaimonía è in effetti una parola-chiave perché corrisponde ai bisogni individuali e collettivi legati a quel “bene comune” che pone gli uomini in tensione reciproca e che tutti cercano per la propria soddisfazione, come rapporto con il mondo attraverso il proprio io.