- BENEDETTO CROCE, Perché non possiamo non dirci cristiani, in La mia filosofia
- EMANUELE SEVERINO, Perché non possiamo non dirci post-cristiani, CORRIERE DELLA SERA, 27 dicembre 2002
- P. ALDO BERGAMASCHI, PERCHE’ NON POSSO DIRMI “POST-CRISTIANO”, FRATE FRANCESCO – Anno 78 – n°2 – Febbraio 2003
BENEDETTO CROCE
Perché non possiamo non dirci cristiani
in La mia filosofia
Rivendicare a se stessi il nome di cristiani non va di solito scevro da un certo sospetto di pia unzione e d’ipocrisia, perché più volte l’adozione di quel nome è servita all’autocompiacenza e a coprire cose assai diverse dallo spirito cristiano, come si potrebbe provare con riferimenti che qui si tralasciano per non dar campo a giudizi e contestazioni distraenti dall’oggetto di questo discorso. Nel quale si vuole unicamente affermare, con l’appello alla storia, che noi non possiamo non riconoscerci e non dirci cristiani, e che questa denominazione è semplice osservanza della verità.
Il cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non maraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo.
Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina, e di quant’altro si deve all’Oriente e all’Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il prima perché l’impulso originario fu e perdura il suo.
La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità.[…] La coscienza morale, all’apparire del cristianesimo, si avvivò, esultò e si travagliò in modi nuovi, tutt’insieme fervida e fiduciosa, col senso del peccato che sempre insidia e col possesso della forza che sempre gli si oppone e sempre lo vince, umile ed alta, e nell’umiltà ritrovando la sua esaltazione e nel servire al Signore la letizia. E si tenne incontaminata e pura, intransigente verso ogni allettamento che la traesse fuori di sé o la mettesse in contrasto con se stessa, guardinga persino contro la stima e la lode e il luccicore sociale; e la sua legge attinse unicamente dalla voce interiore, non da comandi e preconcetti esterni, che tutti si provano insufficienti al nodo che di volta in volta si deve sciogliere, al fine morale da raggiungere, e tutti, per una via o per un’altra, risospingono nella bassura sensuale e utilitaria. E il suo affetto fu di amore, amore verso tutti gli uomini, senza distinzione di genti e di classi, di liberi e schiavi, verso tutte le creature, verso il mondo, che è opera di Dio e Dio che è Dio d’amore, e non sta distaccato dall’uomo, e verso l’uomo discende, e nel quale tutti siamo, viviamo e ci moviamo.[…] Continuatori effettivi dell’opera religiosa del cristianesimo sono da tenere quelli che partendo dai suoi concetti e integrandoli con la critica e con l’ulteriore indagine, produssero sostanziali avanzamenti nel pensiero e nella vita.
Furono dunque, nonostante talune parvenze anticristiane, gli uomini dell’umanesimo e del Rinascimento, che intesero la virtù della poesia e dell’arte e della politica e della vita mondana, rivendicandone la piena umanità contro il soprannaturalismo e l’ascetismo medievali, e, per certi aspetti, in quanto ampliarono a significato universale le dottrine di Paolo, slegandole dai particolari riferimenti, dalle speranze e dalle aspettazioni del tempo di lui, gli uomini della Riforma; furono i severi fondatori della scienza fisico-matematica della natura, coi ritrovati
che suscitarono di mezzi nuovi alla umana civiltà; gli assertori della religione naturale e del diritto naturale e della tolleranza, prodromo delle ulteriori concezioni liberali; gl’illuministi della ragione trionfante, che riformarono la vita sociale e politica, sgombrando quanto restava del medievale feudalismo e dei medievali privilegi del clero, e fugando fitte tenebre di superstizioni e di pregiudizi, e accendendo un nuovo ardo e un nuovo entusiasmo pel bene e pel vero e un rinnovato spirito cristiano e umanitario; e, dietro ad essi, i pratici rivoluzionari che dalla Francia estesero la loro efficacia nell’Europa tutta; e poi i filosofi, che procurarono di dar forma cristiana e speculativa all’idea dello Spirito, dal cristianesimo sostituita all’antico oggettivismo, Vico e Kant e Fichte e Hegel, i quali, per diretto o per indiretto, inaugurarono la concezione della realtà come storia, concorrendo a superare il radicalismo degli enciclopedisti con l’idea dello svolgimento e l’astratto libertarismo dei giacobini con l’istituzionale liberalismo, e il loro astratto cosmopolitismo col rispettare e promuovere l’indipendenza e la libertà di tutte le varie e individuate civiltà dei popoli questi, e tutti gli altri come essi, che la chiesa di Roma, sollecita (come non poteva non essere) di proteggere il suo istituto e l’assetto che aveva dato ai suoi dommi nel concilio di Trento, doveva di conseguenza sconoscere e perseguitare e, in ultimo, condannare con tutta quanta l’età moderna in un suo sillabo, senza per altro essere in grado di contrapporre alla scienza, alla cultura e alla civiltà moderna del laicato un’altra e sua propria e vigorosa scienza, cultura e civiltà. E doveva e deve respingere con orrore, come blasfemia, il nome che a quelli bene spetta di cristiani, di operai nella vigna del Signore, che hanno fatto fruttificare con le loro fatiche, coi loro sacrifici e col loro sangue la verità da Gesù primamente annunciata e dai primi pensatori cristiani bensì elaborata, ma non diversamente da ogni altra opera di pensiero, che è sempre un abbozzo a cui in perpetuo sono da aggiungere nuovi tocchi e nuove linee. Né può a niun patto piegarsi al concetto che vi siano cristiani fuori di ogni chiesa, non meno genuini di quelli che vi son dentro, e tanto più intensamente cristiani perché liberi. Ma noi, – che scriviamo né per gradire né per sgradire, agli uomini delle chiese e che comprendiamo, con l’ossequio dovuto alla verità, la logica della loro posizione intellettuale e morale e la legge del loro comportamento –, dobbiamo confermare l’uso di quel nome che la storia ci dimostra legittimo e necessario..[…]
E il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano lo Spirito, che sempre ci supera e sempre è noi stessi; e, se noi non lo adoriamo più come mistero, è perché sappiamo che sempre esso sarà mistero all’occhio della logica astratta e intellettualistica, immeritatamente creduta e dignificata come «logica umana», ma che limpida verità esso è all’occhio della logica concreta, che potrà ben dirsi «divina», intendendola nel senso cristiano come quella alla quale l’uomo di continuo si eleva, e che, di continuo congiungendolo a Dio, lo fa veramente uomo.
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CORRIERE DELLA SERA, 27 dicembre 2002
Perché non possiamo non dirci post-cristiani
di EMANUELE SEVERINO
La Chiesa non intende «per prima cosa condannare gli errori dell’epoca», ma vuole «innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede». (Sono parole del Papa). Il progetto è risultato vincente. Soprattutto perché la cultura del nostro tempo dà un consistente contributo perché i propri «errori» diventino meritevoli di condanna. Essi si raccolgono attorno a uno, fondamentale. La cultura «laica» grida sempre di più che nessuno, nemmeno essa stessa, può pretendere di possedere la verità assoluta e incontrovertibile. In questo modo, avvalora la critica che la Chiesa le rivolge: di essere semplice «relativismo», «scetticismo», «agnosticismo», che fa acqua da tutte le parti.
Eppure la cultura «laica» ha ereditato dal proprio formidabile inizio – cioè da pensatori come Nietzsche, Gentile e altri, ma innanzitutto Leopardi – una straordinaria potenza concettuale, capace di distruggere il grande passato dell’Occidente. Ma, come i Proci, non ha saputo impugnare e tendere l’arco di questa potenza, non ne ha capito l’invincibilità, quindi vive oggi come se ne fosse priva. Figlia imbelle di una potente genitura.
Che cosa aveva ereditato? L’unica verità assoluta che può e dev’essere affermata dal pensiero dell’Occidente – divenuto ormai planetario – e che il grande inizio della filosofia del nostro tempo sa scorgere: che l’esistenza del divenire implica necessariamente l’inesistenza di ogni Dio eterno. Questa tesi non ha nulla a che vedere con lo scetticismo, perché essa si fonda su ciò che per tutti gli abitatori dell’Occidente (cristianesimo incluso) è la verità più indiscutibile, ossia che nel loro divenire le cose e gli eventi sporgono provvisoriamente dal nulla.
Ma che sa di tutto questo la cultura «laica», «critica», «aperta», «liberale» del nostro tempo? che sa di quel suo potente inizio che ha portato inevitabilmente al tramonto la tradizione dell’Occidente? Essa ripete che Dio e la verità sono morti. Un ritornello innocuo perché è ridotto a un opinione, a una fede non più consistente di quella cristiana. E tanto più assordante quanto più vuoto nell’idiozia delle masse che vivono inconsapevolmente la morte di Dio. Il vero grande nemico della tradizione religiosa dell’Occidente (il grande inizio a cui accennavo) giace infatti addormentato nel sottosuolo, nascosto dall’idiozia e dai ritornelli sapienti. Il che facilita, per ora, la vita della chiesa, che a buon diritto può celebrare il successo dei propri concili e sostenere che la «fiducia» nel patrimonio cristiano è la «base» su cui «si possono affrontare con lucidità i problemi, pur complessi e difficili, del momento presente – come ha detto recentemente il Papa -. Lo Stato può essere vero Stato solo se è guidato dalla verità cristiana. Lo Stato ha il dovere di essere Stato cristiano».
Esiste una oggettiva omogeneità tra questa concezione della Chiesa e le forme teocratico-integralistiche delle diverse religioni mondiali. Lo vado indicando da tempo col seguente argomento. Non c’è Stato cristiano senza leggi cristiane, cioè leggi che proibiscono di violare il messaggio cristiano. Ma una legge dello Stato è tale solo se la sua trasgressione implica una sanzione terrena. Pertanto, quando nella società viene trasgredito un tratto qualsiasi del messaggio cristiano, il vero Stato, secondo la Chiesa, deve mettere in moto il proprio apparato repressivo per punire le trasgressioni.
A «Rainews» il cardinale Silvestrini mi ha recentemente risposto, con la sua consueta amabilità, che la Chiesa non intende compiere alcuna pressione di tipo politico, ma «si rivolge alle coscienze».
D’accordo, questa è indubbiamente l’intenzione della Chiesa. Ma che cosa dice la Chiesa alle coscienze? Di costruire in coscienza e liberamente uno Stato cristiano. Ma uno Stato cristiano non può che essere teocratico e integralista. Non cessa di esserlo per il fatto di essere liberalmente voluto dall’intimo convincimento degli individui. In piena buona coscienza si può volere uno Stato dove il comportamento non cristiano è raggiunto da sanzioni giuridico-penali. In piena buona coscienza si può volere anche di peggio.
I «laici» del nostro tempo sono imbelli, ma lo strumento con cui la Chiesa vorrebbe «affrontare i problemi, complessi e difficili del momento presente» è, proprio esso, uno dei grandi problemi che rimangono ancora, non risolti, sul tappeto.
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FRATE FRANCESCO – Anno 78 – n°2 – Febbraio 2003
PERCHE’ NON POSSO DIRMI “POST-CRISTIANO”
di P. ALDO BERGAMASCHI
“Io ho fatto la mia parte; la vostra ve la insegni Cristo”
(S.Francesco, morente, ai frati)
Con questo titolo intendo rispondere all’Elzeviro del Prof. Emanuele Severino, pubblicato nella terza pagina del CORSERA del 27 dic. 2002, sotto il titolo “Perché non possiamo non dirci post-cristiani”.
Il Prof. Severino inizia citando queste parole del Papa: (La Chiesa) “per prima cosa (non intende) condannare gli errori dell’epoca” (ma vuole) innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede”. A giudizio del Prof. questo “progetto è risultato vincente”. Soprattutto perché la cultura (laica) del nostro tempo espone alla condanna i propri “errori”.
Ebbene, no: nego che il progetto papale sia risultato vincente e nego che la cultura laica sia vittima di “errori”. Il progetto papale è antico di almeno diciotto secoli e nacque il giorno in cui anziché scrivere l’Apologia dei Cristiani (Giustino), qualcuno dovette limitarsi a scrivere l’Apologia del Cristianesimo. Poi Giustiniano dà ordine di chiudere la Scuola (filosofica) di Atene e su su si arriva fino al SILLABO che condanna gli errori dell’epoca nell’atto in cui afferma la propria verità. Breve: il progetto papale è risultato vincente solo per metà; la cultura laica – negando il possesso della verità anche per se stessa – è colpevole fino a metà, perché il “relativismo”, lo “scetticismo”, “l’agnosticismo”, non sono “errori” ma visioni del mondo. E qui comincia il problema.
Che Platone dica: «Dio è la massima misura di tutte le cose»; e che Protagora replichi: «l’uomo è misura di tutte le cose», ci crea qualche problema di logica, ma non è il caso di perdere la calma. Certamente uno dei due ha torto, se le due proposizioni sono “contraddittorie”; ma con strumenti mentali, forse non è possibile decidere. A questo punto io esco dal “linguaggio” e seguo la via evangelica dell’esame dei risultati (ex fructibus). Qualifico quelle due affermazioni come due “visioni del mondo”, legittime alla stadio enunciativo. Il vero problema, adesso, è di vedere come Platone e Protagora – partendo da quei principi – risolvono i problemi esistenziali. Si dovrebbe dire: ognuno faccia la sua Repubblica e si vedrà a occhio nudo dove sta la soluzione dei problemi (il volto eterno del divenire).
Il Prof. Severino dice che la cultura laica ha un formidabile inizio e una potenza concettuale “capace di distruggere il grande passato dell’Occidente”. Mamma li turchi! Mi viene subito in mente Epimenide, qualificato da Aristotele come “Profeta sul passato”; nel senso che distrugge le fondamenta teologiche del tempio di Delfo, monopolizzato dagli Achemenidi. Egli, infatti, nega che ci sia l’Omphalos – se mai c’è lo conoscono gli Dei, i mortali lo ignorano – e che dunque sia lì l’ombelico del mondo.
Così – a giudizio del Prof. Severino – il grande passato dell’Occidente sarebbe stato distrutto dalla potenza concettuale della cultura laica identificata in Nietzsche, Gentile, Leopardi. Sicché – guardando in bocca ai tre cavalli – la potenza della cultura laica niciana, sarebbe la scelta di Dioniso che sgambetta per la foresta senza pedagogia, pronto a identificare la sua etica con la verità, a fronte del Cristo statico, legato alla croce. Oppure sarebbe la celebrazione di Napoleone come esempio di “volontà di potenza”? Oppure la teoria dell’eterno ritorno?
E la forza della cultura laica gentiliana, sarebbe questo tratto de La mia religione (1943): «La religione cresce, si espande, si consolida e vive dentro la filosofia che elabora incessantemente il contenuto immediato della religione e lo immette nella vita della storia»? Oppure la forza della cultura laica leopardiana sarebbe la santificazione del naufragio?
Ahi ahi! Questo è il cristianesimo abbassato al rango di religione e perduto per sempre come “rivelazione” (unico luogo del divenire in cui appare l’eterno). In questo modo posso ammettere che la potenza della cultura laica sia capace di distruggere non solo la “religione cristiana” (il troncone più importante del passato dell’Occidente) ma anche tutte le “religioni” esistenti. E ciò che essa ha infatti distrutto è il cristianesimo ridotto al rango di religione dagli stessi cristiani (Gentile insegni).
Ma per uscire dalla palude, ai cristiani è sufficiente riguadagnare la metánoia e cioè la capacità di attuare il Messaggio e di trasformare il divenire nell’apparire dell’eterno!
Ma ecco come il Prof. Severino presenta sinteticamente la “potenza” teoretica ereditata dalla cultura laica: «L’esistenza del divenire implica necessariamente l’inesistenza di ogni Dio eterno». Per altri filosofi, invece, il divenire è portatore di uno scandalo per la ragione – contiene il non-essere dell’essere – che può essere tolto con l’ipotesi del teorema di Creazione. Per il Prof. Severino – visto che «gli eventi sporgono provvisoriamente dal nulla» – il divenire è l’apparire dell’eterno e in definitiva tutto è eterno (anche l’inferno Prof.?).
Forse questo colossale colpo di coda, mi aiuta a capire qualcosa della novità cristiana. Il cristianesimo, infatti, dice che Dio si è fatto uomo (il Logos si è fatto carne) e i cristiani dovrebbero attuare ciò che tale Logos ha loro suggerito per presentare Dio al mondo (ut videant opera vestra bona est). Ora, la cultura laica non ha saputo esprimersi come non ha saputo esprimersi il cristianesimo reale. Essa “ripete che Dio e la verità sono morti” ma si tratta di ritornello innocuo, ridotto a “religione” non più consistente di quella cristiana.
Non a caso il Prof. Severino dice che «il vero grande nemico della tradizione religiosa dell’Occidente (…) giace addormentato nel sottosuolo, nascosto dall’idiozia e dai ritornelli sapienti». Tutto bene se il bersaglio è la “tradizione religiosa dell’Occidente”; ma il Messaggio non è “religione”, ergo… frecce per mulini a vento!
Il Prof. Severino – con amara ironia – dice che tutto ciò «facilita, per ora, la vita della Chiesa, che a buon diritto può celebrare il successo dei proprii Concili e sostenere che la “fiducia” nel patrimonio cristiano è la “base” per avere la soluzione dei problemi complessi del momento». Infatti «Lo Stato può essere vero Stato solo se è guidato dalla verità cristiana. Lo Stato ha il dovere di essere Stato cristiano». E siamo al punto, caro Professore! Questo non è il Messaggio cristiano, ma la “religione cristiana”. Già il Manzoni, in polemica con Helvetius – il quale suppone che esista o debba o possa esistere uno Stato cattolico – osservava che siamo di fronte a una tesi assurda, se si ammette che il cristianesimo è indipendente dalle relazioni politiche. I cristiani non fanno mai “nazione a sé” perché essi, per costituzione, ipotizzano lo svuotamento e il superamento del concetto stesso di “nazione”.
Un disimpegno di tale specie può convogliare su di essi l’odio dì tutto il mondo; ma proprio in quell’istante diventano i testimoni della Verità e dunque i salvatori dell’umanità (i costruttori di pace). E infatti, se il soggetto è la “religione cristiana”, il Prof. Severino centra il bersaglio: «Esiste una oggettiva omogeneità tra questa concezione della Chiesa e le forme teocratico-integralistiche delle diverse religioni mondiali». Questa è la logica della “religione” già denunciata da Lucrezio e applaudita dai primi scrittori cristiani.
Caro Prof. Severino, io, al Card. Silvestrini avrei risposto: «Non è la Chiesa che si rivolge alle coscienze; ma il Messaggio che le interpella attraverso (medium quo) la Chiesa». II Manzoni, appena citato, è in linea diretta con un altro laico intellettuale cristiano del secondo secolo, conosciuto come l’autore della Lettera a Diogneto. Aveva capito che, per il cristiano «Ogni paese straniero è patria e ogni patria è paese straniero». In termini attuali: lo Stato Nazionale sovrano è il nemico numero uno del secondo comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso». Sì, certo: in piena buona coscienza «si può volere anche di peggio». Esattamente il pensiero di Gesù: «Vi uccideranno credendo di dar gloria a Dio».
Conclude il Prof. Severino: i laici sono “imbelli” perché – aggiungo io – sono caduti essi pure al rango di “religione” (laica); ma la proposta della Chiesa – Stato guidato dalla verità cristiana – è proposta inaccettabile per lei; per me è proposta antievangelica. Se posso sommessamente esprimere la mia opinione, dico: «io sono per la costituzione di uno Stato planetario unico, con il compito di presiedere alla divisione delle etiche, perché la democrazia sia “compiuta” (libera determinazione dei gruppi); vanificando in questo modo la tentazione delle religioni di addossarsi allo Stato per guidarlo e la tentazione degli Stati di blandire le religioni per assicurarsi la stabilità».
Concludendo: io mi sento un post-religioso in attesa di essere cristiano. Non posso essere post-cristiano per il semplice motivo che non posso dirmi cristiano nemmeno nel senso crociano. Breve: non posso dirmi post-cristiano, perché il cristianesimo deve ancora essere attuato, soprattutto in re sociali, laddove il divenire picchia in testa a laici e religiosi, devastando l’uomo e ciò che in lui dovrebbe essere eterno: il rapporto di fratellanza.