ARMINIO Franco, La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica, Bompiani, 2020

La cura dello sguardo. Nuova farmacia poetica di Franco Arminio (Bompiani) (ore 18.30). Gianluigi Simonetti su Il Sole 24 Ore: «Nella nota introduttiva, l’autore si presenta come un malato e insieme un guaritore, armonizzando due sottogeneri narrativi oggi fra i più diffusi: opere che raccontano un’infermità, opere che propongono qualche forma di assistenza o auto-aiuto. Alla confluenza tra i due ambiti, Arminio offre “istruzioni semplici”, “consigli che posso dare, piccoli precetti fatti in casa” – dove l’accento cade tanto sull’artigianato quanto sull’efficacia della scrittura (“la poesia è letteralmente un farmaco”; “la lingua è una grande cura”; “la medicina del futuro è la poesia”). […] Per funzionare, cioè per agire sul numero più alto possibile di lettori, un testo deve essere veloce: “un mondo che si è fatto velocissimo richiede una letteratura semplice e breve, diretta e limpida”; “molti ancora indugiano a scrivere come se le persone avessero ancora tempo per star dietro ai giochi con la lingua”. […] Aprendo il libro di Arminio troviamo innanzitutto una grande quantità di “poesia”, intesa come emotività decomplessata; ma una poesia che si dispiega quasi sempre nella prosa – cioè senza la fatica, la scommessa e il rischio dell’andare a capo (i testi versificati sono sei in duecento pagine). […] Nella Cura dello sguardo c’è un passo, rivelatore, in cui chi scrive esprime il proprio umanissimo bisogno di conferme: “Ho sempre cercato vanamente l’approvazione del paese, come quella del padre. Ma forse per un poeta questa è la cosa più difficile”. Infatti. Per molto tempo Arminio ha cercato l’approvazione della critica, che lo ha consacrato scrittore “di qualità”; adesso cerca l’approvazione di un pubblico vasto, che lo consacri scrittore “di successo”. E tuttavia non si può dire che il suo impianto retorico sia sostanzialmente cambiato (come non è cambiato il suo ansioso bisogno di padri); si è solo adeguato a un posizionamento differente, attenuando i marcatori stilistici associati alla qualità “per pochi” (per esempio il registro lugubre e autoptico, l’ipocondria nera, l’ironia fantastica, la fissità elencatoria) ed enfatizzando quelli che si associano alla letteratura “per tutti” (per esempio l’enfasi sentimentale, lo slancio terapeutico, i picchi patetici, i dispositivi oratori). Ma gli uni e gli altri erano già presenti nella sua scrittura. […] Il percorso di questo autore, al di là di ogni liquidazione o idolatria, è interessante per almeno due ragioni: mostra dove va la letteratura che vuole farsi leggere da molti, e quale prezzo può pagare per realizzare questo scopo; fa riflettere sulle contraddizioni della critica – su come la qualità, al pari dell’impegno, possa rivelarsi niente più che un’etichetta».
Un estratto, da Doppiozero: «Con grande sorpresa sono arrivato al sessantesimo anno. Sono nato a Bisaccia, Irpinia d’oriente, il 19 febbraio del 1960. Mio padre Luigi e mia madre Flora tenevano l’osteria, allora la chiamavano cantina. Era appartenuta a mio nonno Vito, morto a trentasette anni, e al mio bisnonno. Quando avevo tre mesi fui ricoverato al Cotugno di Napoli. Avevo la difterite, malattia per cui mia madre mi raccontava che morivano tanti bambini che erano in quell’ospedale. Lei divenne cardiopatica, e mi diceva sempre che era per colpa della mia malattia. Mio padre aveva un malumore di fondo, mischiato a una straordinaria capacità, anche comica, di intrattenere i clienti. Niente sembrava che gli andasse bene: neppure io, ovviamente. Non aver goduto della sua stima forse mi ha creato quella voragine di incredulità intorno a cui ruota tutta la mia vita. Anzi, le voragini sono due. L’altra viene da mia madre, dal suo perenne sentirsi malata. Per anni ho temuto la sua morte, poi sono passato a temere la mia. Evento cruciale un attacco di panico sulla sedia del barbiere, il 29 maggio 1986. Da allora vivo come se avessi davanti a me un’ora di vita. L’ansia e la scrittura si sono ben presto intrecciate, formando un nodo inestricabile nel mio corpo. Nella scrittura si fondono le due voragini: scrivo a oltranza perché ogni giorno c’è un guasto da riparare, sono la vittima e il miglior custode della mia nevrosi».

Autore: Tracce e Sentieri

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