FRAMMENTI AUDIO IN YOUTUBE:
https://www.youtube.com/results?search_query=gile+bae+pianista
Gile Bae a Caro Marziano, Rai3, 11 gennaio 2023:
https://www.raiplay.it/programmi/caromarziano
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Ezio Bosso. Le cose che restano 115 min
Il racconto di una grande storia umana: la carriera di Ezio Bosso. Il maestro stesso si svela agli spettatori, per farci entrare nel suo mondo e nel suo immaginario, come in un diario. Con le testimonianze di tanti collaboratori e amici dell’artista, tra cui Gabriele Salvatores, Enzo Decaro, Paolo Fresu, Silvio Orlando.
Ezio Bosso. Le cose che restano – Video – RaiPlay
A riveder le stelle, lo speciale concerto inaugurale della stagione 2020/2021 del Teatro alla Scala di Milano
Alberto Mattioli su La Stampa: «La prima della Scala covidata più strana di tutti i tempi: niente pubblico in sala, niente opera, ma un concertone lirico per la tivù (quasi tutto registrato). Titolo: A riveder le stelle, insieme un augurio e una constatazione, dato che le stelle del canto ci sono quasi tutte. Unica certezza: sul podio, come sempre, il direttore musicale della Casa, Riccardo Chailly. Rimpianti? “Sinceramente sì. Dovevamo inaugurare con una Lucia di Lammermoor che non abbiamo nemmeno mai potuto annunciare ufficialmente. Avevamo però già fatto due settimane di prove, lo spettacolo iniziava a prendere forma. È un grande dolore, una sofferenza, non vederlo in scena. Era dal ’67, dalla famosa edizione Abbado-De Lullo, che la Scala non apriva con Donizetti. Allora c’ero, sarebbe stato bello riportare Lucia alla prima”. Parliamo di questo 7 dicembre. Il programma è lungo e in gran parte sarà registrato prima. Che effetto le fa? “Intanto bisogna venirne a capo. La gabbia organizzativa è molto complessa, con arrivi e partenze continui di cantanti che raggiungono Milano da tutto il mondo, in un momento in cui viaggiare non è esattamente facile”. […] Però non c’è l’opera, ma una specie di antologia… “L’idea è che non sia soltanto un serie di arie staccate, ma un vero percorso sia dentro i singoli titoli, con più brani di ognuno, sia attraverso un secolo di opera italiana, dal Tell di Rossini a Turandot di Puccini. Più qualche brano non italiano, come Carmen o il finale del primo atto di Walküre di Wagner. Per l’orchestra si tratta chiaramente di un impegno enorme: non solo per la quantità di musica, circa tre ore, ma anche per le differenze stilistiche, che ovviamente non bisogna appiattire. Per chi suona, un viaggio epocale”. La fine è l’inizio: il programma si chiude con l’apoteosi finale del Tell. “L’ho voluto in italiano e non nell’originale francese perché si capiscano le parole di Calisto Bassi sulla musica sublime di Rossini: “Tutto cangia, il ciel s’abbella,/ L’aria è pura, il dì è raggiante”. Un messaggio di speranza che dalla Scala si alzerà verso Milano, l’Italia e il mondo, sperando che questa pandemia non sia soltanto una tragedia ma anche una catarsi purificatrice”. Come sarà fare musica senza pubblico? “Sono sincero: non lo so. Non mi è mai capitato. Ma so che senza il calore del pubblico, senza l’applauso finale, sarà diverso, si avvertirà un vuoto. Stiamo facendo un lavoro che non è il nostro, in condizioni che non sono quelle abituali, in una situazione di emergenza dove tutto è inusuale, a cominciare dal fatto che l’orchestra suona in platea, il coro canta nei palchi e io dirigo guardando verso il palco reale. È un unicum, un’esperienza eccezionale e non ripetibile”».
rivedi su raiplay: https://tinyurl.com/y4hp7tv7
pagina del Teatro alla Scala su youtube: https://www.youtube.com/user/teatroallascala/featured
Antonio Vivaldi (1678-1741)
Le quattro stagioni
Philipp Telemann (1681-1767)
Tafelmusik
Georg Friedrich Handel (1685-1759)
Messiah
Johann Sebastian Bach (1685-1750)
Concerto Brandeburghese n. 3
Johann Sebastian Bach (1685-1750)
Suites per violoncello solo
Domenico Scarlatti (1685-1757)
Sonate per clavicembalo
Franz Joseph Haydn (1732-1809)
Quartetto in re maggiore
Luigi Boccherini (1743-1809)
Quintetto per archi in mi maggiore op. 13 n. 5
Wolfang Amadeus Mozart (1756-1791)
Concerto per clarinetto e orchestra
Wolfang Amadeus Mozart (1756-1791)
Sinfonia n. 41 “Jupiter”
Qui si parlerà della metamorfosi di una canzone.
Ossia di come una canzone popolare, nata in una particolare situazione storica, diventa vent’anni dopo musica d’arte, cioè “musica” senza genere e senza aggettivi.
Per fare una simile trasformazione occorre attraversare un confine e occorre qualcuno che sappia fare dei sortilegi.
Nina Simone (1933-2003) sa fare sortilegi e sa attraversare i confini: I Put a Spell on You, dice il testo di un’altra sua canzone. Lei ha percorso tutti i generi della musica popolare del secondo Novecento: blues, pop, jazz, soul. Eppure lei è inclassificabile in ciascuno di essi.
Ma come attraversa queste linee di confine?
Lei lo fa con l’interpretazione del testo. Nina canta il testo della canzone. Lo trascolora, lo ricolora, lo prende e lo rivolta per catturare ciascuno di noi attraverso la testa, il cuore e la pancia.
È questa la chiave per accostarsi a You’d Be So Nice To Come Home To.
Si tratta di un classico del compositore Cole Porter (1891-1964) che, come molte altre canzoni del tempo, è diventato uno standard, ossia un brano popolare che ha resistito alla prova del tempo e che è stato ri-letto, ri-cantato, ri-suonato migliaia di volte, soprattutto dai musicisti jazz.
La canzone compare nel film d’amore in tempo di guerra Something to Shout About (1943) e si inscrive nell’epoca del trionfo degli standard, ossia delle canzoni di musica “leggera”, spesso provenienti da musical o da spettacoli di Broadway, su cui i jazzisti improvvisano e costruiscono nuovi arrangiamenti. La struttura di queste canzoni si presta facilmente a rielaborazioni jazzistiche, grazie anche alla loro ottima qualità musicale. Sono composizioni agili, dove c’è un recitativo (destinato a delineare la storia raccontata) cui seguono ritornelli melodici sostenuti da ritmi sincopati e ballabili. Sono canzoni basate su meccanismi retorici assai efficaci e seducenti. Nasce qui la distinzione di ruolo fra il compositore (l’autore di un motivo o di una semplice canzone) e l’improvvisatore o l’arrangiatore, che trasformano il pezzo.
Gli iniziatori di questi stili furono Irving Berlin e Jerome Kern, poi ci furono i fratelli George e Ira Gershwin, Richard Rodgers, Lorenz Hart e altri ancora, fra cui, per l’appunto, Cole Porter. Le sue melodie sono lievemente sofisticate e possiedono una raffinatezza che lo pone ad un livello particolare tra gli scrittori di musica leggera. Infatti, le sue combinazioni di suoni sono piene di buon gusto e di eleganza e sa offrire armonie complesse, che ne hanno fatto un autore di fama.
Per apprezzare la metamorfosi realizzata da Nina Simone occorre procedere in forma comparativa.
Si può iniziare ascoltando una prima versione solo strumentale ad opera di Coleman Hawkins e Ben Webster , dove si può ben cogliere la componente swing del jazz. Qui i due giganti del sax interloquiscono fra loro in un caldo fraseggio ben sostenuto dalla base ritmica. L’esecuzione è molto bella e fa sentire il motivo ricorsivo della canzone.
Si prenda poi una seconda versione, questa volta cantata da Helen Merrill, una cantante jazz di nascita croata, ma culturalizzata negli Stati Uniti, che si è fatta notare fin dagli anni Cinquanta in dischi con il trombettista Clifford Brown. Bel ritmo, bella voce: “canto perlaceo, smerigliato”, dice di lei Luciano Federighi.
Oppure si ascolti un’altra classica delle voci afroamericane del jazz: Sarah Vaughan . Gli estimatori di lei hanno detto: grande voce moderna, solenne nei bassi, suadente nei medi, duttile negli acuti. I denigratori (fra cui Frank Sinatra) hanno contrapposto questo giudizio: dizione vezzosamente manierata.
E ora si consideri la versione di un dolente Chet Baker. Il musicista, nella fase della vita più segnata dalla sua biografia, introduce il pezzo e poi gioca di scat con la batteria. Seguono piano, tromba, contrabbasso per assoli. E poi ancora lui a concludere, riprendendo il tema dell’inizio. Sono tutti professionisti del jazz che sanno come impastare gli ingredienti di questa musica. Si ascolta volentieri e si assapora il profumo dell’era dello swing.
Ma si potrebbero anche sentire le interpretazioni di Frank Sinatra e di di Nancy Wilson e altre ancora.
Va notato che ci sono vari elementi che accomunano queste letture e riletture: lo stile leggero, la reiterazione e soprattutto la velocità.
E ora sentiamo lei. Sentiamo Nina, Nina Simone, in una irripetuta interpretazione nel Live at Newport: cantata il 30 giugno 1960 e pubblicata nel 1961 dalla casa discografica Colpix.
Ripeto: una sola volta così e solo quella volta
Il sito JazzStandard.com ci ricorda il tema narrativo della canzone, riportando un passo della biografia di Charles Schwartz su Cole Porter: “La sua malinconica melodia ed il testo evocano un sentimento di fraterna solidarietà per i milioni di persone che sono state separate fra loro a causa della guerra” (Schwartz C., 1979).
Cosa ha cambiato? Nina ha cambiato tutto: velocità, tempo, ritmo.
Inizia creando il climax con una lunga, lenta e struggente esecuzione di piano – mirabilmente accompagnata da Al Schakman (guitar), Chris White (bass) e Bobby Hamilton (drum) – che dura ben oltre la metà della durata del pezzo.
E conclude con una sola strofa, sempre in tono lento e in un crescendo emotivo, del tema narrativo. Perchè sono le parole che lei intende usare per ricreare il pezzo.
You’d be so nice to come home to You’d be so nice by the fire While that breeze on night sings a lullaby You’d be all my heart could desire Under stars chilled by the winter Under an August moon shining above You’d be so nice you’d be paradise To come home to and love |
Sarebbe così bello se tu tornassi a casa Così bello attorno al fuoco Mentre la brezza notturna canta una ninnananna Sarebbe tutto quello che il mio cuore può desiderare Sotto le stelle gelate dell’inverno Sotto la luminosa luna d’agosto Sarebbe così bello, sarebbe il paradiso Se tu tornassi a casa e all’amore |
Nina Simone non canta solamente: Nina Simone interpreta come un attore teatrale. Questa capacità quasi unica è stata finemente colta da Charles Aznavour, che disse: “Spesso le persone che cantano il jazz cantano la musica. Nina Simone canta il testo allo stesso tempo della musica” (citato in Brun – Lambert, 2008).
Ecco perché You’d Be So Nice To Come Home To, che è uno standard jazz in tempo veloce, con Nina Simone diventa lentissimo fino allo spasimo e perché Strange Fruit è ancora più straziante che in Billie Holiday.
I suoi canti ed il suo piano, ad un ascolto appassionato, possono essere ‘visti’ come pennellate: nere, gialle, blu (molto blu), bianche … Tutto questo lo fa con la voce, con le note del piano, ma soprattutto con i tempi che mette fra le parole. Sono questi attimi di silenzio, queste pause a generare la magia, a gettare il sortilegio.
E così ha oltrepassato quel confine e You’d Be So Nice To Come Home to è diventata un’opera d’arte a se stante. Siamo in molti ad essere rapiti da Nina, l’ammaliatrice.
Racconta lo scrittore Sam Shepard:
“Portavo sempre il ghiaccio a Nina Simone. Era sempre carina con me. Mi chiamava ‘Tesoro’, Le portavo un saccone di plastica grigia pieno di ghiaccio per raffreddare lo Scotch.
Lei si strappava la sua parrucca bionda e la gettava sul pavimento. Sotto, i suoi capelli veri erano corti come il pelo tosato d’un agnello nero. Si scollava le ciglia finte e le appiccicava allo specchio. Le sue palpebre erano spesse e dipinte d’azzurro. Mi facevano sempre venire in mente una di quelle Regine Egiziane che vedevo nel National Geographic. La sua pelle era lucida di sudore. Si arrotolava un asciugamano azzurro intorno al collo e si sporgeva in avanti appoggiando entrambi i gomiti sulle ginocchia. Il sudore rotolava giù dalla sua faccia e schizzava sul pavimento di cemento rosso tra i suoi piedi.
Finiva sempre il suo spettacolo con la canzone ‘Jenny Pirata’ di Bertolt Brecht. Cantava sempre quella canzone con una sorta di profonda e penetrante rivalsa come se avesse scritto le parole lei stessa. La sua esecuzione puntava dritta alla gola di un pubblico bianco. Poi puntava al cuore. Poi puntava alla testa. Era un colpo mortale in quei giorni.
La canzone cantata da lei che mi stendeva davvero era ‘You’d Be So Nice to Come Home To’.
Mi lasciava sempre di sale. Magari ero in giro a raccogliere bicchieri di Whiskey Sour in sala e lei attaccava una specie di frana rombante al pianoforte con la sua voce roca che sgusciava attraverso gli accordi “montanti”. I miei occhi si fissavano sul palco dell’orchestra e ci rimanevano mentre le mie mani continuavano a lavorare.
Una volta rovesciai una candela mentre lei cantava quella canzone. La cera bollente sgocciolò tutta sull’abito d’un uomo d’affari. Mi chiamarono nell’ufficio del direttore. L’uomo d’affari era lì in piedi con questo lungo schizzo di cera indurita sul pantaloni. Pareva che si fosse venuto addosso. Fui licenziato quella sera.
Fuori in strada sentivo ancora la sua voce che arrivava dritta attraverso il cemento. ‘Sarebbe il paradiso se tu tornassi a casa’ ” (Shepard, 1985).
FONTI MUSICALI
Chet Baker, One Night In Tokyo, Immortal, 2008.
Helen Merrill, in AA.VV., The Cole Porter Songbook: Night and Day, Verve, 1990.
Nina Simone, At Newport, Colpix, 1961, ristampa cd, Forbidden Fruit/At Newport, Collectables/Rhino, 1998.
Frank Sinatra, A Swingin’ Affair!, Capitol 1957, ristampa cd A Swingin’ Affair!, Capitol 1998.
Sarah Vaughan, in AA.VV., Cole Porter In Concert: Just One Of Those Five Things, Verve, 1994.
Ben Webster e Coleman Hawkins, in AA.VV., Anything Goes: The Cole Porter Songbook, Instrumentals, Verve, 1992.
Nancy Wilson, The Very Best Of Nancy Wilson, The Capitol Recordings, 1960-1976, Emi, 2007.
LETTURE
Brun–Lambert D., Nina Simone: Une vie, Editons Flammarion, Paris, 2005, trad. it. Nina Simone. Una vita, Kowalsky, Milano, 2008.
Federighi L., Grandi voci della musica americana, Mondadori, 1997.
Schwartz C., Cole Porter: A Biography, Da Capo Press, Usa, 1979.
Shepard S., Motel Chronicles, City Lights, Usa, 1983, trad. it. Motel Chronicles, Feltrinelli, 1986.
Mostra FREQUENZE 140621/0712 Spazio Natta, Como, 12 luglio 2014
Nell’ambito della mostra di Doriam Battaglia BATT realizzata con il patrocinio del Comune di Como, Assessorato alla Cultura è stato organizzato un incontro-conversazione sul tema “Spazio, Tempo e Musica” che si è svolto sabato 12 luglio (giorno di chiusura della mostra) alle ore 18,30 presso lo Spazio Natta.
I relatori sono stati l’Arch. Angelo Monti ed il Prof. Paolo Ferrario (docente presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca) che dialogheranno con me e con l’artista Benny Posca che ha realizzato una installazione nel giardino antistante lo spazio della mostra
Parto dal testo di BATT che introduce le opere esposte:
“alcune considerazioni sulle opere recenti: sguardo verso l’infinito e l’eterno; pittura “preformale” (vibrazioni, frequenze, particelle, atomi); l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande; regola dei frattali; l’opera come memoria nello spazio; il pensiero che genera la materia; l’attimo fugace (pag. 9-11)
la sua idea di invitarmi parte da questa canzone di Nina Simone: “He was too good to me” (1961) dove l’emozione dell’ascolto dipende dalle pause di silenzio che lei sa introdurre nel suo canto. Di lei diceva Charles Aznavour: “Nina Simone canta le parole delle canzoni”
Da qui una prima suggestione sul rapporto fra spazio (di una tela, di un pannello, di un quadro) e musica: spesso mi capita di rappresentarmi dentro la mia percezione uditiva la musica come delle pennellate gialle, rosse, blu.
E infatti il blu, nella musica jazz (basta ricordarsi di Duke Ellington) è molto ricorrente. E ora lo vediamo nel video in quella tela di Batt.
A me sembra che i fondamenti del nostro percorso di attraversamento della vita siano:
il Tempo
lo Spazio
l’Eros
la Polis
il Destino
Sul Tempo possiamo fare riferimento ad una splendida lezione del fisico Carlo Rovelli al TedXlakeComo del 2002 nella quale “mostrava ” questi concetti:
Ecco: a mio avviso l’arte, la pittura, la musica riescono a rappresentare, tramite l’uso di spazio, colori, note soggettivamente rielaborate, questa complessità che ci appartiene
Qui il video di Carlo Rovelli:
Il Tempo nella musica è ben raccontato dal violoncellista Mario Brunello nel libro Il silenzio, Il Mulino, 2014. Vediamo alcuni passaggi del suo dire:
Leggiamo:
“ogni forma d’arte ha il suo spazio per il silenzio: la pittura, sorda a ogni commento, vive nel silenzio, ma arriva a descriverlo. La scultura, muta, silenziosa suo malgrado, custodisce gelosamente un insieme di suoni, parole o rumori. La poesia scritta o detta vive nel silenzio, rotto dalle parole, vive nel silenzio degli spazi bianchi non misurabili perchè possono durare all’infinito. La musica addirittura del silenzio ne fa materia prima. Il silenzio che precede la prima nota eil silenzio dopo l’ultima sono indispensabili affinchè la musica si riveli ed esista.” (pag14)
Qui una lezione di Mario Brunello nella quale farà “vedere” come John Cage è il cantore del silenzio, quando rovescia i rapporti fra suono e silenzio. Il silenzio diventa accettazione dei “suoni altri esistenti ” all’interno dello spazio concesso all’autore:
Ma è lo Spazio ad avvicinare molto la musica alla pittura.
Qui l’associazione mentale ed emotiva che faccio è al concetto di Cerchio dell’apparire, insegnato dal filosofo Emanuele Severino. Un quadro e una musica fanno apparire qualcosa. Lo fissano nel tempo.
Leggiamo le sue parole:
“La parola “apparire” non indica la parvenza, l’apparenza illusoria. Anche le parvenze e le apparenze appaiono – e appare il loro rapporto con la “realtà” di cui sono parvenze. L’apparire non è l’apparenza che altera e nasconde l’essere, ma è la manifestazione dell’essere, il suo illuminarsi, il suo mostrarsi. … Appaiono anche i sogni e i silenzi; anche i pensieri e gli affetti – tutte cose che, insieme a tante altre, non sono illuminate dalla luce del sole … e la stessa parola “apparire” proviene dal latino apparere, che è riconducibile a pario, che significa “partorisco” e a paro, “preparo, allestisco”. (in La filosofia futura, Rizzoli, 1989, p. 195-196)
e ancora:
“L’uomo e le altre cose vanno lungo una strada, così come gli astri eterni percorrono la volta del cielo. Il loro sorgere non è il loro nascere, il loro tramontare non è il loro morire, essi brillano eterni anche prima di sorgere e dopo essere tramontati. Tutte eterne, le cose, dalle più umili alle più grandi, tutte ingenerabili e incorruttibili, esse vanno lungo una strada, nel senso che vanno via via mostrandosi, vanno entrando e uscendo dalla volta dell’apparire del mondo. (in La strada, Rizzoli, 1983, p. 134)
Ecco, a me la figura del cerchio dell’apparire -guardo voi nella sala con i quadri di Batt ed effettivamente apparite come dentro a un cerchio- sembra perfetta per vedere le vicinanze percettive ed esistenziali fra una musica e un quadro. L’arte produce questo effetto: renderci consapevoli della eternità di ogni attimo.
C’è un’altra immagine molto adatta a far riflettere su questo tema. Le immagini di una pellicola fotografica sono una sequenza di fotogrammi. Noi percepiamo quell’attimo, che poi scompare, e nella sequenza della comparsa e scomparsa ottemiamo l’effetto della visione e dell’ascolto. Dunque i fotogrammi scorrono lungo la linea del tempo, compaiono nello spazio e scompaiono: Ma la struttura della pellicola rimane. Dunque quelle singole immagini non finiscono nel nulla, ma sono eterne.
Spiega meglio questo passaggio il filosofo Aldo Natoli, in una intervista alla vicina Radio Svizzera:
A me sembra che quando Doriam Battaglia dice “ciò che provo a rappresentare sono le vibrazioni, le frequenze dello spettro visibile, le particelle, gli atomi e le molecole che vengono a costruire la materia di cui siamo fatti e di cui è fatto l’universo” ci avvicini, con il linguaggio dell’arte, a fare esperienza diretta della struttura sottostante ad ogni evento che compaia nel cerchio dell’apparire
Cosa resta della scomparsa o affievolimento, nella pittura dell’ultimo secolo, dei volti, dei paesaggi? Resta la struttura delle cose. Le cose non sono solo “cose”, ma energia. La natura del mondo è un fluire di energia. La materia è un “campo” in cui le diverse espressioni dell’energia si muovono incessantemente. Il mondo fisico non è una serie di oggetti, ma una rete di interazioni in costante flusso.
I frattali, presenti nella espressione pittorica di BATT, ne sono una delle manifestazioni. Il frattale è una figura geometrica, sostenuta dalle regola matematiche, in cui un motivo identico si ripete su scala continuamente ridotta. le zone del dettaglio fanno vedere la struttura ricorsiva che si ripete, ma è l’effetto visivo quello che ci emoziona. Apputo: struttura sottostante e risultato complessivo. C’è una struttura che sostiene ciò che entrerà nel nostro campo della visione
Un’altra associazione mi è indotta dai pannelli di Batt, soprattutto di quello “bianco” che si vede anche nel video: il rapporto fra mente e cervello.
Qui mi sostiene il libro di Daniel J. Levitin, Fatti di musica, Codice edizioni, 2006. L’autore è un neuroscienziato che ci propone una visione cognitiva dell’ascolto estetico della musica. La mente è la parte di noi che incarna pensieri, speranze, desideri, ricordi, convinzioni, esperienze. Il cervello è un organo fisico (materia) fatto di cellule, acqua, sostanze chimiche. E’ costituito da 100 miliardi di neuroni ed è capace di una quantità enorme di connessioni. Dunque: strutture e connessioni sono alla base della nostra presenza ed identità. Una struttura di base è capace di produrre esiti infiniti. E l’opera d’arte ci offre, per via emozionale, questa vertiginosa e profonda esperienza.
La musica è una combinazione organizzata di suoni nel tempo e nello spazio. E un”arte che sa esprimere i sentimenti per mezzo di un linguaggio delle note che il cervello sa elaborare, sia per la sua struttura biologica, sia per la sua capacità di “fare memoria” e di rielaborala.
Concludo con la musica che accompagna il lavoro produttivo delle opere pittoriche di Batt. Questa mostra è stata costantemente accompagnata dalla musica di Roberto Cacciapaglia.In riferimento al suo disco “Canone degli spazi” Cacciapaglia dice: “Per comporre i miei brani io uso le triadi, che sono elementi elementari alla base dell’armonia. Usufruisco dei cicli, in cui lo strumento solista rimane sempre al centro, mentre l’orchestra ruota intorno ad esso, facendo delle fasce che vanno dal pianissimo al fortissimo, dando vita a delle orbite, come quelle dello spazio. L’orchestra diviene così come una sorta di costellazione che gira intorno, come fossero onde planetarie. Lavoro sulla presenza del suono, cercando di creare una alchimia fra gesto, suoni e intenzioni per cercare di toccare le emozioni di chi ascolta. Ad ogni modo per me è importantissimo comporre immerso nel silenzio“.
Di Nina Simone e della sua straordinaria capacità di usare il silenzio per agire con il canto e il suo pianoforte nel creare il momento “unico” dell’ascolto interiore ho già detto all’inizio.
Ma ci sono tre musicisti australiani che suonano da una trentina d’anni ad offrire, a mio avviso, una eccezionale base musicale al modo di fare pittura di Batt. Si tratta dei The Necks (Chris Abrahams, tastiere, Tony Buck batteria, Lloyd Swanton, basso).
In Italia sono praticamente sconosciuti. Io li ho inseguiti dove ho potuto, una volta a Forlì e un’altra a Berna
Ascoltiamo questo frammento musicale:
E’ difficile per i Necks proporre dei frammenti perchè la loro specificità consiste nel creare, nel qui ed ora di una serata, un unico pezzo musicale di circa un’ora. Per ascoltarli (e nel tempo di internet oggi questo sembra impossibile) occorre darsi un’ora di tempo
Vi invito a sentire i due pezzi di Aquatic e se volete a inseguire le mie successive note di ascolto.
Qui c’è un estratto di Aquatic:
I The Necks creano e suonano assieme dal 1989, fanno un jazz nuovissimo, esplorano nuove frontiere come hanno fatto i loro predecessori, che cercavano
“la nota impossibile, quella che non esiste, che non c’è sulla terra” (Steve Lacy su Thelonius Monk).
Il loro ascolto lascia sempre il segno. Eppure non hanno attraversato quella invisibile linea che passa fra il notturno trascinare gli strumenti per il piccolo pubblico e la notorietà. Ripeto: almeno in Italia.
Dipenderà anche dal fatto che abitano in una terra straordinaria, ancestrale e moderna nello stesso tempo: l’Australia. Là devono essere molto famosi, visto che continuano il loro progetto musicale difficile e inusuale: in quasi vent’anni hanno realizzato solo 34 pezzi per un totale di 20 ore. Effettivamente la loro musica assomiglia molto a quel paesaggio: sanno creare uno spazio psichico e visivo che è bello e coinvolgente attraversare con la loro guida. Sì, sanno costruire un percorso ipnotico. Come nel film Picnic ad Hanging Rock ha fatto Peter Weir (1975):
C’è una zona d’ombra su di loro e allora vorrei colmare la lacuna e illuminare qua e là.
In “Aquatic” (1999) Chris Abrahams è al Piano e all’organo Hammond, Lloyd Swanton al Contrabbasso acustico ed elettrico, Tony Buck alla batteria e alle percussioni. Questa volta c’è anche Stevie Wishart all’”Hurdy-Gurdy” (una specie di violino elettrico che ha un suono simile alla cornamusa).
I pezzi sono due: uno di 27 minuti, e l’altro di 25. Una eccezione rispetto al loro standard, che quello di un’unica scultura musicale di circa un’ora.
L’ascolto lascia vigilmente intontiti per la bellezza del ritmo (Tony Buck è un batterista eccezionale), per le armonie degli accordi pianistici, per la ripetizione ipnotica, per tutte le cose che accadono in quella che non è solo un’iterazione minimalista.
Già il primo movimento è di grande soddisfazione per la mente musicale. Suoni raffinati che alimentano l’immaginazione, rintocchi pianistici di forte energia, un drumming-beat davvero unico, rumori ambientali appena accennati e stimolatori di benessere psichico. Come a dire: “sei in un altro spazio, ma qui si può stare bene. E’ solo diverso”.
Ma il secondo movimento è incredibilmente bello (cercherò di scegliere un assaggio che lo rappresenti). Uno “Swing” che è indubbiamente jazzistico, ma che si avventura in un’Ambient Music di gran cultura. Inizia subito a grande velocità, con il contrabbasso violineggiante di Swanton, incalzato dal terribile Tony Buck, un vero monello della batteria. Poi il piano diAbrahams comincia a spingere avanti. Sempre di più: trilli, battiti, con il basso a contenere. Ecco di nuovo gli archi. Sempre più veloce, impercettibilmente veloce. Viene voglia di chiudere gli occhi. Ecco: nel nero si vede lo spazio che è attraversato dalle note del piano sorrette da quel tappeto volante che è la batteria, baroccheggiata dal contrabbasso. Ora il ritmo si fa un po’ meno frenetico. E comincia il gioco fra di loro. Sì: l’interplay jazzistico inventato dal trio di Bill Evans risorge, si riattualizza in un’altra dimensione ! I tre improvvisano dentro un sonno spaziale reso possibile dalla (leggera) elaborazione elettronica dei suoni. La conclusione è di grande pace.
Sì è bello stare qui. E dove siamo ?
Ma guarda un po’: ancora in Drive By.
La loro è un’architettura musicale: siamo sempre a casa ! O meglio: si ritorna sempre a casa. Come insegna la cadenza d’inganno, qui raccontata da Alessandro Baricco:
Infine una esperienza musicale irripetibile è quella di Prism , suonato dal trio Keith Jarrett, Gary Peacock, Jack Dejhonette.
Irripetibile perchè questo pezzo è stato suonato così solo quella sera del 1985 a Tokyo e poi mai più:
Guardate Keith Jarret che vola sul pianoforte inseguendo quel frammento di mondo che ha trovato in quell’istante
Guardate Gary Peacock che ride con il batterista come per dire: “hai visto … è partito …“
E non dimentichiamoci di Dejohnette che umilmente si mette al servizio di questa esperienza unica di spazio, tempo e suoni.
Infine: grazie Doriam Battaglia Batt che ha reso possibile questo inimmaginabile incontro nell’imbrunire sul centro storico di Como, nella giornata di sabato 12 luglio 2014.
Paolo Ferrario
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Una nuova significativa proposta del nostro sito. Potete trovare, riorganizzate e reimpaginate, tutte le diverse trasmissioni che insegnano qualcosa: si tratti della storia della musica classica o dell’arte, del jazz o delle tecnologie o ovviamente tutta intera la nostra enciclopedica Wikiradio. Con un po’ di ironia, vi proponiamo di usare l’estate per i corsi di riparazione, speriamo non intimidatori né noiosi. In fondo si tratta di farsi trovare più preparati quando comincerà la nuova stagione, scolastica e radiofonica…
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Per tutta l’estate, durante i fine settimana, Radio3 propone il sabato e la domenica alle 9.30 Radio3 suite – Lezioni di musica, una serie di ventisei lezioni a cura di Giovanni Bietti, che vede protagonisti grandi musicologi e musicisti italiani. Si tratta di un’iniziativa divulgativa (rielaborata per la radio), promossa dalla Fondazione Musica per Roma e dall’Accademia di Santa Cecilia con il patrocinio degli Amici di Santa Cecilia, che ha riscosso un enorme successo di pubblico negli scorsi tre anni presso l’Auditorium Parco della Musica di Roma.
Si comincia sabato 2 luglio con Sandro Cappelletto che parlerà di Bach e Händel e si chiude domenica 25 settembre con un percorso condotto da Guido Barbieri, intorno al pensiero musicale del Novecento. Ma nel corso delle settimane, grazie alle puntuali indicazioni di Carla Moreni, Giorgio Pestelli, Roberto Prosseda, Claudio Strinati, Quirino Principe, Enzo Restagno, Michele Dall’Ongaro, Stefano Bollani e Paolo Fresu, gli ascoltatori potranno compiere un viaggio dalla musica classica al jazz che offrirà grandi ascolti, esempi musicali eseguiti dal vivo, qualche approfondimento filologico e molto divertimento.
Dal lunedì successivo alla messa in onda, le puntate potranno essere riascoltate e/o scaricate dal programma di podcast.
Questa irripetibile interpretazione merita di restare nel tempo che resta per il Volto di Gary Peacock, per la non replicabile bravura di Keith Jarrett (il motore energetico della improvvisazione), per il lavoro di servizio di Dejhonette, per la sinergia intersoggettiva che mettono in azione.
Qui i tre si accostano e ci accostano agli Eterni cui allude il pensiero di Emanuele Severino.
Qui i tre danno valore di senso a quell’unico momento che è solo il qui ed ora della loro relazione. Anche se era nel 1985 loro restano. E sono in nostri cuori a farli restare
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