Emanuele Severino, LA PAROLA “COSA” (poi intitolato: le”Cose” e la tecnica), Festival Filosofia 2012, Modena 15 settembre – lezioni magistrali

lezioni magistrali

Le “cose” e la tecnica

Piazza Grande

da  Festival Filosofia – lezioni magistrali

 

Registrazioni Audio della lezione e delle domande/risposte:

 

La Lezione è riportata anche in questo video Youtube:

 

«La parola cosa ha un carattere architettonico ed archetipico: ci sono dei significati che dominano tutti gli altri. Noi agiamo in relazione ad un certo modo in cui il mondo ci sta dinanzi come significante – e, in particolare, nel modo in cui ci sta dinanzi quella cosa lì che è l’ombrellone con il quale ci difendiamo dal sole. Certi movimenti che potremmo fare per difenderci dal sole sono determinati dal significato “ombrellone”
Il significato guida, cioè, un insieme di azioni. L’antica saggezza diceva “nulla è voluto che non sia precedentemente conosciuto”. Mi rapporto a questo tavolo solo in quanto sta dinanzi come tavolo ed in relazione ad esso faccio delle operazioni che non farei rispetto alla bottiglietta d’acqua, che sta qui, alla mia sinistra.

I significati guidano gruppi di azioni.
Una prima conseguenza non banale è che il significato “cosa”, che noi diciamo di tutti gli eventi che ci stanno attorno ai quali possiamo riferirci, è in grado di guidare uno sterminato gruppo di azioni – appunto perché qualsiasi evento a cui un popolo si riferisce è una “cosa”, e dunque a seconda del modo in cui si concepisce l’esser cosa agiamo conseguentemente.
Le parole che indicano ciò noi indichiamo con la parola “cosa” nei linguaggi mondiali sono svariatissime. […] Molte le parole che indicano la cosa; diverse, con diversità anche rilevanti, ma con un fondo comune: mi riferisco innanzitutto alle parole indoeuropee. L’indoeuropeo è la lingua che accomuna il sanscrito, l’indiano moderno, il greco antico, il tedesco, l’inglese, lo slavo… Però, se fermiamo l’attenzione sulle parole greche, abbiamo il vantaggio di esplorare qualcosa di quel territorio, che poi è diventato in qualche modo la matrice dell’intera non dico semplicemente cultura, ma dell’intera civiltà occidentale.

Il greco, per indicare la cosa, dice “pragma”, dice “crema”, dice anche “on”. Pragma è la cosa concepita come il fatto, ciò che è fatto. Ma insieme indica la ricchezza, la sostanza. Anche la parola Crema, in greco, indica la sostanza. È curioso che anche il latino, che per dire cosa dice “res”, si rifaccia a quel “raia” del sanscrito che significa, appunto, ricchezza. E c’è un uso della parola “on” che indica, daccapo, la ricchezza – anche se l’uso prevalente nel greco antico della parola “on” è diverso: Omero parla degli oi ontes, ed oi ontes vuol dire “i viventi”. Oi uk ontes vuol dire “i non viventi”. E però già qui dobbiamo non accostarci alle antiche parole sulla base del senso che ha per noi la realtà: per le popolazioni arcaiche, e anche per questo greco antichissimo, i viventi non soltanto quelli che noi chiamiamo “i viventi”: i viventi sono anche i minerali. I minerali, nel seno della terra, crescono e maturano così come crescono i vegetali sulla superficie della terra. Quando i greci dicono oi ontes, indicano anche l’intero mondo minerale. E viventi sono persino i morti: l’abbondanza di depositi di ossa umane dell’uomo arcaico attesta questa convinzione – che, come i vegetali sono nutriti dalla terra e fioriscono, così ciò che rimane del cadavere, le ossa, è una sorta di pianta che attende di rigermogliare con la carne che si riforma attorno alle ossa del cosiddetto “morto”.
Lo scopo di questi cenni linguistici […] è rilevare che le parole che indicano le cose alludono alle sostanza, alla roba; il fatto che la parola cosa, indicando le sostanze, gli averi, indicano la situazione dove le comunità arcaiche si riunivano per discutere la distribuzione degli averi (assemblee degli antichi popoli germanici, i tribunali latini). Si discute su come le sostanze debbano essere distribuite tra i partecipanti. Ma discussione significa conflittualità, tensione. Ebbene: questa conflittualità, indicata dall’uso tranquillo della parola “cosa”, che si istituisce rispetto al senso di fondo per cui la “cosa” è “le sostanze”, questo significato allude a qualcosa di ben più originario e fondamentale. […]
Il senso pacifico, tranquillo della cosa, come tensione per la distribuzione delle sostanze, si riferisce ad un conflitto ben più originario e radicale (ad un polemos, la guerra originaria e radicale).

Abbiamo a disposizione una moltitudine di miti che raccontano questo: che il mondo nasce in seguito a uno smembramento del Dio. C’è mondo perché c’è un dio smembrato. Questo è prezioso per cercare di saggiare il senso originario dell’esser cosa. C’è un dio smembrato. ([Atea, miti del Pacifico], Osiride, Dioniso, Krono, il Cristo). […] Possiamo riflettere su ciò che significa la parola “Volontà”. Tutto quanto detto fino ad ora allude ad una volontà di impossessarsi dei beni: solo perché c’è questa volontà c’è tensione e conflittualità. Noi, come individui, iniziamo a vivere quando iniziamo a spingere indietro, a far recedere il muro che inizialmente ci si presenta da quando riusciamo a percepire qualcosa: dobbiamo riuscire a succhiare il latte materno; dobbiamo riuscire a sfondare la barriera che separa il neonato dal seno materno. Se andiamo alla dimensione filogenetica (quello che capita ai popoli): la volontà riesce a vivere solo se trasforma il mondo. Se il mondo è una parete che schiaccia la volontà fino a non lasciarle spazio, l’uomo non può né volere qualcosa, né respirare, né vivere: è necessario un agio, uno spazio, perché la volontà riesca ad ottenere.

La volontà vive solo in quanto ottiene; ma ottiene solo in quanto non ottiene immediatamente ciò che vuole. Nemmeno noi, quando incominciamo a volere, otteniamo tutto ciò che vogliamo: vogliamo “un po’ alla volta”. Il senso originario della cosa è la resistenza che ciò che ho chiamato barriera oppone alla volontà. La cosa è il resistente. Anche il tedesco dice Wiederstand (che riesce a stare). C’è cosa solo in quanto c’è resistenza. Ma è una resistenza che la volontà deve infrangere o spezzare, è una resistenza che va progressivamente cedendo, una resistenza progressivamente vinta. La resistenza originaria, nella misura in cui si presenta come inflessibile, risponde a quella designazione di quel personaggio, Rudolf Otto, per il quale il sacro è innanzitutto il “Tremendum”: e, in effetti, la barriera contro cui la volontà sbatte la testa è il “tremendum” – che però è visto innanzitutto come l’assoluta potenza, e la parola “sacro”, come la parola “dio”, allude innanzitutto all’assoluta potenza con la quale la volontà dell’uomo deve fare i conti. Ma, proprio perché l’uomo riesce a vivere e la volontà riesce a respirare; proprio perché l’uomo riesce a vivere solo in quanto infrange la barriera; è proprio per questo, in ciò che innanzitutto si presenta come inflessibile, c’è il segreto della vita: il materiale della vita è ottenuto dalla frantumazione della barriera. Il materiale della vita, in relazione alla barriera frantumantesi, è dunque “Fascinans”. È da questo immutabile e inflessibile che si ottengono le parti del mondo che riescono a fare vivere l’uomo. Insistendo ancora sul concetto di volontà: dovrebbe diventare chiaro che noi riusciamo a volere solo se stiamo dinanzi a parti frantumate e spezzate del mondo: perché posso afferrare la bottiglietta d’acqua, perché posso decidere questo? Solo se la ritengo staccata, non necessariamente legata al resto. Decido di agire solo se ciò verso cui rivolgo il mio agire lo considero come isolato, staccato, membro di uno smembramento, rispetto al solido globale – che inizialmente mi si presentava quando ancora non pensavo di servirmi del mondo.
Questo ci ha portato a dire che dunque la cosa è la resistenza che progressivamente cede, e la resistenza è il sacro che, cedendo, lascia essere il mondo e che quindi è “fascinans”. Terribile e affascinante».

 

(trascrizione della prima mezz’ora a cura di Simone Picenni, che ringrazio)

12 pensieri riguardo “Emanuele Severino, LA PAROLA “COSA” (poi intitolato: le”Cose” e la tecnica), Festival Filosofia 2012, Modena 15 settembre – lezioni magistrali

    1. GRAZIE A TE PER IL COMMENTO. non ho più l’età per girare l’italia e cos’ non riesco a partecipare ai festival della filosofia. ma ormai nel mondo della rete c’è quasi sempre qualcuno che registra e condivide. e io è -quasi-come se ci fossi. ciao e buon futuro paolo ferrario

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  1. Gentile prof. Ferrario,
    Riporto qui una trascrizione della prima mezz’ora della lezione. Ho dovuto, difatti, riprendere e trascrivere alcune sezioni di questo bellissimo intervento per motivi di studio. Tento dunque di “ringraziarLa” a mio modo per aver reso questa conferenza disponibile online riportandoLe qui, in forma scritta, parte delle parole del Maestro.

    «La parola cosa ha un carattere architettonico ed archetipico: ci sono dei significati che dominano tutti gli altri. Noi agiamo in relazione ad un certo modo in cui il mondo ci sta dinanzi come significante – e, in particolare, nel modo in cui ci sta dinanzi quella cosa lì che è l’ombrellone con il quale ci difendiamo dal sole. Certi movimenti che potremmo fare per difenderci dal sole sono determinati dal significato “ombrellone”
    Il significato guida, cioè, un insieme di azioni. L’antica saggezza diceva “nulla è voluto che non sia precedentemente conosciuto”. Mi rapporto a questo tavolo solo in quanto sta dinanzi come tavolo ed in relazione ad esso faccio delle operazioni che non farei rispetto alla bottiglietta d’acqua, che sta qui, alla mia sinistra. I significati guidano gruppi di azioni.
    Una prima conseguenza non banale è che il significato “cosa”, che noi diciamo di tutti gli eventi che ci stanno attorno ai quali possiamo riferirci, è in grado di guidare uno sterminato gruppo di azioni – appunto perché qualsiasi evento a cui un popolo si riferisce è una “cosa”, e dunque a seconda del modo in cui si concepisce l’esser cosa agiamo conseguentemente.

    Le parole che indicano ciò noi indichiamo con la parola “cosa” nei linguaggi mondiali sono svariatissime. […] Molte le parole che indicano la cosa; diverse, con diversità anche rilevanti, ma con un fondo comune: mi riferisco innanzitutto alle parole indoeuropee. L’indoeuropeo è la lingua che accomuna il sanscrito, l’indiano moderno, il greco antico, il tedesco, l’inglese, lo slavo… Però, se fermiamo l’attenzione sulle parole greche, abbiamo il vantaggio di esplorare qualcosa di quel territorio, che poi è diventato in qualche modo la matrice dell’intera non dico semplicemente cultura, ma dell’intera civiltà occidentale.
    Il greco, per indicare la cosa, dice “pragma”, dice “crema”, dice anche “on”. Pragma è la cosa concepita come il fatto, ciò che è fatto. Ma insieme indica la ricchezza, la sostanza. Anche la parola Crema, in greco, indica la sostanza. È curioso che anche il latino, che per dire cosa dice “res”, si rifaccia a quel “raia” del sanscrito che significa, appunto, ricchezza. E c’è un uso della parola “on” che indica, daccapo, la ricchezza – anche se l’uso prevalente nel greco antico della parola “on” è diverso: Omero parla degli oi ontes, ed oi ontes vuol dire “i viventi”. Oi uk ontes vuol dire “i non viventi”. E però già qui dobbiamo non accostarci alle antiche parole sulla base del senso che ha per noi la realtà: per le popolazioni arcaiche, e anche per questo greco antichissimo, i viventi non soltanto quelli che noi chiamiamo “i viventi”: i viventi sono anche i minerali. I minerali, nel seno della terra, crescono e maturano così come crescono i vegetali sulla superficie della terra. Quando i greci dicono oi ontes, indicano anche l’intero mondo minerale. E viventi sono persino i morti: l’abbondanza di depositi di ossa umane dell’uomo arcaico attesta questa convinzione – che, come i vegetali sono nutriti dalla terra e fioriscono, così ciò che rimane del cadavere, le ossa, è una sorta di pianta che attende di rigermogliare con la carne che si riforma attorno alle ossa del cosiddetto “morto”.

    Lo scopo di questi cenni linguistici […] è rilevare che le parole che indicano le cose alludono alle sostanza, alla roba; il fatto che la parola cosa, indicando le sostanze, gli averi, indicano la situazione dove le comunità arcaiche si riunivano per discutere la distribuzione degli averi (assemblee degli antichi popoli germanici, i tribunali latini). Si discute su come le sostanze debbano essere distribuite tra i partecipanti. Ma discussione significa conflittualità, tensione. Ebbene: questa conflittualità, indicata dall’uso tranquillo della parola “cosa”, che si istituisce rispetto al senso di fondo per cui la “cosa” è “le sostanze”, questo significato allude a qualcosa di ben più originario e fondamentale. […]
    Il senso pacifico, tranquillo della cosa, come tensione per la distribuzione delle sostanze, si riferisce ad un conflitto ben più originario e radicale (ad un polemos, la guerra originaria e radicale). Abbiamo a disposizione una moltitudine di miti che raccontano questo: che il mondo nasce in seguito a uno smembramento del Dio. C’è mondo perché c’è un dio smembrato. Questo è prezioso per cercare di saggiare il senso originario dell’esser cosa. C’è un dio smembrato. ([Atea, miti del Pacifico], Osiride, Dioniso, Krono, il Cristo). […] Possiamo riflettere su ciò che significa la parola “Volontà”. Tutto quanto detto fino ad ora allude ad una volontà di impossessarsi dei beni: solo perché c’è questa volontà c’è tensione e conflittualità. Noi, come individui, iniziamo a vivere quando iniziamo a spingere indietro, a far recedere il muro che inizialmente ci si presenta da quando riusciamo a percepire qualcosa: dobbiamo riuscire a succhiare il latte materno; dobbiamo riuscire a sfondare la barriera che separa il neonato dal seno materno. Se andiamo alla dimensione filogenetica (quello che capita ai popoli): la volontà riesce a vivere solo se trasforma il mondo. Se il mondo è una parete che schiaccia la volontà fino a non lasciarle spazio, l’uomo non può né volere qualcosa, né respirare, né vivere: è necessario un agio, uno spazio, perché la volontà riesca ad ottenere.

    La volontà vive solo in quanto ottiene; ma ottiene solo in quanto non ottiene immediatamente ciò che vuole. Nemmeno noi, quando incominciamo a volere, otteniamo tutto ciò che vogliamo: vogliamo “un po’ alla volta”. Il senso originario della cosa è la resistenza che ciò che ho chiamato barriera oppone alla volontà. La cosa è il resistente. Anche il tedesco dice Wiederstand (che riesce a stare). C’è cosa solo in quanto c’è resistenza. Ma è una resistenza che la volontà deve infrangere o spezzare, è una resistenza che va progressivamente cedendo, una resistenza progressivamente vinta. La resistenza originaria, nella misura in cui si presenta come inflessibile, risponde a quella designazione di quel personaggio, Rudolf Otto, per il quale il sacro è innanzitutto il “Tremendum”: e, in effetti, la barriera contro cui la volontà sbatte la testa è il “tremendum” – che però è visto innanzitutto come l’assoluta potenza, e la parola “sacro”, come la parola “dio”, allude innanzitutto all’assoluta potenza con la quale la volontà dell’uomo deve fare i conti. Ma, proprio perché l’uomo riesce a vivere e la volontà riesce a respirare; proprio perché l’uomo riesce a vivere solo in quanto infrange la barriera; è proprio per questo, in ciò che innanzitutto si presenta come inflessibile, c’è il segreto della vita: il materiale della vita è ottenuto dalla frantumazione della barriera. Il materiale della vita, in relazione alla barriera frantumantesi, è dunque “Fascinans”. È da questo immutabile e inflessibile che si ottengono le parti del mondo che riescono a fare vivere l’uomo. Insistendo ancora sul concetto di volontà: dovrebbe diventare chiaro che noi riusciamo a volere solo se stiamo dinanzi a parti frantumate e spezzate del mondo: perché posso afferrare la bottiglietta d’acqua, perché posso decidere questo? Solo se la ritengo staccata, non necessariamente legata al resto. Decido di agire solo se ciò verso cui rivolgo il mio agire lo considero come isolato, staccato, membro di uno smembramento, rispetto al solido globale – che inizialmente mi si presentava quando ancora non pensavo di servirmi del mondo.
    Questo ci ha portato a dire che dunque la cosa è la resistenza che progressivamente cede, e la resistenza è il sacro che, cedendo, lascia essere il mondo e che quindi è “fascinans”. Terribile e affascinante».

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      1. Si figuri, davvero!
        E tante grazie a Lei per l’augurio!

        Se avrò occasione, trascriverò ed invierò il resto della lezione!

        P.S: Studio proprio a Trento, esatto!

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