Enrico si fermò ansimante a considerare i gradini mancanti all’arrivo a casa.
“Li hanno proprio messi giù in qualche modo. Prima, almeno, erano tutti della stessa altezza e si faceva meno fatica”.
Paolo e L., qualche gradino più su, sorrisero annuendo.
Era il tempo in cui l’aria profumava di gelsomino e lavanda. Le case abbarbicate sul sentiero di sasso mostravano finalmente le persiane spalancate: anche quell’anno i tre uomini e le rispettive mogli erano arrivati a trascorrere il tempo estivo nella residenza di campagna.
Coatesa bassa è una piccola frazione a ridosso del lago e raggiungibile unicamente attraverso la lunga gradinata di pietra che, simile a una cicatrice verticale, divide la montagna in due minuscole frazioni. Il fatto di non essere percorribile da auto e di animarsi solo nei mesi caldi, rende Coatesa bassa un luogo fuori dal tempo, un borgo reso interessante soprattutto per l’antico ponte di pietra che si specchia nel lago e da cui è visibile il salto della cascata.
Pochi ormai i nativi del luogo e pochi, del resto, anche i suoi abitatori che da generazioni si tramandano l’uso delle dimore.
A Coatesa gli argomenti di discussione sono quasi sempre centrati sull’avanzamento della modernità, ad esclusione ovviamente delle usuali banalità meteorologiche, delle gare sulla produzione di pomodori, degli aggiornamenti sui pettegolezzi delle vicende umane che costringono alla vendita dei campi, dei boschi o addirittura delle case stesse.
L’arrivo del metano, per esempio, è stato a lungo oggetto delle solite chiacchiere da bar. Ogni anno sembrava fosse giunto il momento di dire: “OK, si parte”. Poi, naturalmente, a ritardare l’evento subentravano le lungaggini burocratiche, il blocco dei finanziamenti, la non convenienza economica data l’esiguità dei residenti, la difficoltà di indire gli appalti, il cambio della giunta, le elezioni amministrative.
C’era voluto lo scossone del probabile rifacimento della diroccata filanda per indurre finalmente l’avvio dei lavori.
L’effetto però era quello rimarcato da E.. Dopo due anni di scala sventrata e di passatoie di legno, ora che il cantiere era stato chiuso, quei gradini stavano a testimoniare un lavoro svolto in economia. Gli iniziali trecento scalini erano, infatti, diventati duecentosettanta e questo, per le artritiche ginocchia di Enrico, non era cosa di poco conto.
I sorrisetti di L. e Paolo non volevano certo sminuire le difficoltà del più anziano della combriccola. E’ che quella scalinata veniva percorsa tutti i giorni e, puntualmente, la stessa frase risuonava come un rimbrotto al tanto sospirato arrivo del metano. Nulla di cui stupirsi, del resto. Enrico era un criticone innato e trovava sempre qualcosa da ridire sull’operato altrui.
L. , che fra i tre si difendeva meglio dai segni del tempo, era invece quello che sapeva accendere gli animi degli altri due con battutine sornione, ma cariche di implicite frecciate cui faceva seguire un irritante risolino. Sia E. che Paolo, entrambi permalosi e irascibili, difficilmente restavano insensibili alle provocazioni, con l’unica differenza che mentre Paolo si imbestialiva, E. attenuava le proprie intemperanze per negoziare l’imminente conflitto.
E fu proprio L. che, in risposta a quel commento di Enrico, non poté astenersi dal dire: “Pensa che adesso devono tirare di nuovo su tutto per metter giù i tubi del depuratore”. Le parole rimasero cristallizzate nell’aria per qualche secondo.
Poi E. : “Ah … perché? …. si fa?”.
L. , da perfido sobillatore qual era, non mancò di millantare una presunta amicizia con l’assessore di turno, dando dunque per garantito il fatto: “Certo. E’ già stato deliberato in giunta. Me l’ha detto Frigerio: in autunno si parte”. Paolo sbuffò: “Sì certo, come per il metano …”.
Quelle parole tuttavia ottennero l’effetto desiderato: a Coatesa da quel momento si trovò un nuovo argomento su cui dissertare nelle ore serali quando, seduti vicino al pontile nell’attesa che i cani sbrigassero le loro intime funzioni, i tre stavano a costruire ipotesi e ad anticipare possibili soluzioni dell’impresa. Fu così che grazie alle straordinarie competenze tecniche di E. si tentò di esaminare – a parole – il percorso delle tubature, l’enigma della risalita delle acque reflue attraverso un complesso sistema di pompaggio, l’allacciamento delle biologiche private, la partecipazione al costo, il risollevamento della scala di pietra.
Quel luglio fu particolarmente piovoso, tanto che il depuratore scese dalla graduatoria dell’interesse per cedere spazio ai danni dell’orto e ad alcuni tetti diventati a rischio dopo violenti nubifragi.
Fu nuovamente L. a fomentare un’antica questione sulle responsabilità civili delle infiltrazioni, visto che parte del suo spazio esterno si era allagato a causa di una fuoriuscita di acqua maleodorante dalle fessure della roccia. “Quell’acqua dipende dalla fogna di qualcuno che abita più in alto. Se non sei tu, se la biologica dell’Assunta va direttamente a lago, rimane solo quella del Paolo”, furono le parole di L. a E. , il quale, naturalmente (non per nulla chiamato “radio Scarpa”), lo riferì immediatamente a Paolo.
“E no, eh, adesso mi hanno proprio spaccato i coglioni!” sbottò Paolo, mentre l’ira saliva pericolosamente come fuoco alla gola. Non ne poteva più di quelle insinuazioni fondate esclusivamente su inconsistenti eredità orali che periodicamente tornavano alla ribalta. Lui era l’unico del luogo a non essere, per così dire, autoctono e nonostante fosse quello più vicino in termini di distanza, si sentiva continuamente considerato il forestiero da colpevolizzare per tutte le nefandezze prodotte da altri.
E così gli toccava di subire, oltre alle ripetitive narrazioni che raccontavano di come il tale avesse ceduto un piccolo lotto di terreno non accatastato o di come il talaltro avesse usufruito di un condono per la sua abusiva espansione edilizia, anche l’ennesima sottolineatura di come il milanese avesse letteralmente svenduto la casa – ora di Paolo – a causa di insanabili conflitti familiari. Fatto questo che aveva sollevato parecchie invidie in chi pensava di poter avere diritto di prelazione solo perché compaesano.
Le classiche storie di campanile che appassionano e infiammano il tempo sospeso delle giornate oziose.
L., per quanto riguardava la regolarità delle norme edilizie relative al caseggiato dei nonni, era sicuramente quello che più avrebbe dovuto stare in silenzio e invece eccolo di nuovo lì a evocare l’esistenza di presunte falle nell’impianto idrico di Paolo. Sì, proprio del draconiano Paolo che, appena insediato a Coatesa bassa, si era subito preoccupato, insieme al suocero, di far controllare lo stato della biologica, vista l’assenza di un depuratore e il timore che le acque reflue si immettessero illegalmente nel lago.
E infatti, ormai col fumo alle narici, Paolo continuò: “Ancora non gli è bastata la prova di colore fatta fare da mio suocero dieci anni fa, ancora me la mena… ma allora è proprio un pirla! Adesso basta, però. Telefono al Sergio e che questa storia finisca una volta per tutte!”
E. capì che in quel momento non erano possibili mediazioni e si limitò a riferirgli che proprio il giorno dopo il S. sarebbe passato da lui per valutare un danno anch’esso causato dalle recenti alluvioni.
Il S. , per intendersi, è il muratore esperto di tetti.
A Coatesa bassa nessuno vuol prendersi l’impegno di lavori pesanti, data l’impossibilità di accedervi se non a piedi. Il S., invece, è colui che arriva, guarda, tira fuori un pezzo di carta e in piedi ti fa quattro conti, aggiungendo sempre: “Poi naturalmente bisogna vedere che cosa si trova sotto”. E con questa frase triplica il costo finale.
D’altro canto gli interventi di altri artigiani più onesti non davano mai esiti positivi e alla fine era sempre il S. che doveva rimediare ai pasticci altrui. Ovviamente facendosi pagare a peso d’oro.
Il S. naturalmente fu ben felice di accettare la prova colore richiesta per dimostrare che la biologica di Paolo non turbava alcun equilibrio idrico. Oltre tutto aveva il dente avvelenato con L. per il saldo di un certo conto del passato mai pervenuto.
Successe quel martedì in cui Luciana aveva deciso di fare la marmellata di prugne. Operazione consueta, visto che era il periodo delle gocce d’oro. Mentre in cucina mescolava frutta e zucchero con accuratezza, dalla finestra aperta ascoltava le voci sconosciute che spiegavano a Paolo come sarebbe stato condotto l’intervento della prova colore: immettere acqua tinta di rosso nello scarico e verificare se così colorata uscisse dalla fessura segnalata da L.. Dal cancello dischiuso sentì anche sopraggiungere i passi di E. e L.. Poi, improvvisamente, il silenzio seguito da un gran rumore d’acqua.
Dopo aver versato la marmellata nei vasetti di vetro e con ancora nelle narici la fragranza dolce-asprigna della composta, Luciana uscì incuriosita sul balcone del soggiorno.
La prima cosa che vide fu un gruppo di uomini chinati quasi ad angolo retto sulla botola aperta della biologica, fra cui persino C. che, tornando dal suo orto con una borsa piena di pomodori e floride lattughe, si era soffermato attratto da quell’insolito assembramento.
Con grande solerzia il S. reggeva in mano un bastone di circa due metri e rimestava in senso orario dentro il pozzetto, incitando un giovane manovale marocchino a gettare secchi d’acqua di colore rosso. Al contempo dava voce all’altro aiutante che, appostato più sotto nei pressi della porzione di roccia incriminata, doveva verificare di che colore fosse l’acqua uscente.
Come se ciò non bastasse, Paolo, con addosso un paio di stivali di gomma, si affannava a portare secchi all’ultimo piano dello scosceso giardino.
“Ma che cosa stai facendo?” gli chiese Luciana.
“Sto portando merda, vedi?”, rispose Paolo agitando rischiosamente il secchio colmo di un liquido denso dall’inequivocabile odore. “Con tutta l’acqua che buttano giù, se poi non scarica, finisce che ci esce in cortile”.
“E’ chiara o rossa?”, urlava intanto il marocchino al collega di vedetta alla fessura.
“E’ chiara”.
E il S.: “Butta ancora un secchio”.
Tutti in religioso silenzio stavano ad ammirare il sapiente lavoro del muratore, incuranti dell’odore nauseabondo che si paralizzava nell’aria afosa.
“Chiara o rossa”?
“Chiara, chiara”.
Paolo al decimo secchio del putrido liquame sembrava un po’ stravolto.
“Direi che è sufficiente, lei cosa dice, professore?” chiese il S. con l’aria cattedratica del gran consulto davanti a un tavolo chirurgico.
“Ah, lo dica a quello lì, che sostiene che la sua perdita è causata dal mio impianto fognario”, sbottò Paolo indicando L. .
Ora il gruppo aveva riacquistato la posizione eretta. Lo sguardo di tutti puntato sul S. .
“L’acqua che esce dalla roccia è chiara” sentenziò con aria solenne. “Se in autunno partiranno i lavori per il depuratore, forse si scoprirà la causa della perdita. Questa biologica non ha nessun danno”. E questo fu tutto.
Quella notte Paolo continuò a rigirarsi nel letto. Sognava fiumi sotterranei color rubino che si insinuavano negli interstizi rocciosi del sottosuolo, rivoli scarlatti incuneati fra scarichi di water e bidet, scrosci sanguigni sotto la doccia.
Improvvisamente si svegliò tutto sudato.
La stanza era rovente, ma Luciana era stata inamovibile. “Sarà pure merda nostra, ma stasera le finestre restano chiuse”.
Era il tempo in cui l’aria profumava di gelsomino e lavanda. Ben presto l’installazione del depuratore avrebbe allontanato il ricordo di quella fetida giornata.
L’ha ribloggato su TRACCE e SENTIERI.
"Mi piace""Mi piace"