Umberto Galimberti su: MERCATO, TECNICA, PROGRESSO, SVILUPPO …

EMANUELE SEVERINO, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 154. Indice del libro

Acotto Edoardo, Essere, Corriere della Sera/Le parole della filosofia, 2022. Prefazione di Corrado Del Bo, Simone Pollo, Paola Rumore. Bibliografia

Emanuele Severino, Sortite. Piccoli scritti sui rimedi (e la Gioia), Rizzoli, 1994

temi legati al GENERE : uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili – di Paolo D’Achille in Accademia della Crusca

quesiti pervenutici su temi legati al genere: uso dell’asterisco, dello schwa o di altri segni che “opacizzano” le desinenze maschili e femminili; possibilità per l’italiano di ricorrere a pronomi diversi da lui/lei o di “recuperare” il neutro per riferirsi a persone che si definiscono non binarie; genere grammaticale da utilizzare per transessuale e legittimità stessa di questa parola

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Un asterisco sul genere – Consulenza Linguistica – Accademia della Crusca

Byung – CHUL HAN, con 24 illustrazioni di Isabella Gresser, Elogio della TERRA. Un viaggio in GIARDINO, Nottetempo edizioni, 2022. Indice del libro

“Ogni esser “uomo” è un ricordare . E quindi in ogni uomo il suo ricordare è il suo ricordo eterno degli eterni – dove eterni sono, appunto, sia le cose ricordate, sia il ricordante”, in Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli, 2011, pagine 136/137

in https://antemp.com/2011/05/11/il-mio-ricordo-degli-eterni-emanuele-severino-rizzoli/

La morte e l’eterno: intervista a Ines Testoni, 22 marzo 2018

LA MORTE E L’ETERNO: INTERVISTA A INES TESTONI

La morte e l’eterno: intervista a Ines Testoni

L’Occidente ha un problema ingravescente con la morte. Non perché stia scendendo l’aspettativa di vita, che anzi, è piuttosto alta rispetto a tutto il resto del mondo. A partire dal ‘900 è cominciato il processo di estraniamento della morte dalla nostra quotidianità, mentre fino a prima essa è sempre stata, per quanto fenomeno individuale, un evento di comunità. I riti attorno all’ultimo passaggio hanno permeato tutte le culture fin tanto che l’unico antidoto contro la paura della morte sono state la solidarietà, la vicinanza, la relazione con i prossimi più cari. Questa storia di accompagnamento è stata improvvisamente interrotta dall’intromissione della tecnica medica, grazie al progresso della scienza. Abbiamo dovuto abbandonare le buone pratiche di accompagnamento al fine vita per mandare i malati a curarsi, fino alla morte, in luoghi protetti, specializzati, governati da professionisti determinati a lottare contro la malattia, ma che del malato spesso conoscono ben poco. Il luogo di cura per eccellenza, l’ospedale, è anche il luogo dell’occultamento della morte.

Attraverso il nichilismo, la filosofia ha già fatto i conti con la caduta dei valori, ma è forse necessario indagare come la morte, spesso definita come l’implosione di ogni valore, possa essere essa stessa un valore da salvaguardare.

Può la morte essere un orizzonte che, una volta riconsiderato sotto un’altra ottica, dona un nuovo senso al nostro rapporto con l’eternità? Per fare luce su questa possibilità e sulle questioni di fine vita che stanno cambiando la nostra società, abbiamo interpellato una grande esperta: Ines Testoni, professoressa di Psicologia delle relazioni di fine-vita, perdita e morte, nonché direttrice e fondatrice del master Death Studies & the End of Life dell’Università degli Studi di Padova.

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La morte e l’eterno: intervista a Ines Testoni

Dario Pisano, Parla come Dante. Come e perché usare i versi del sommo poeta nella vita quotidiana – Newton Compton Editori, 2021

A molti di noi è capitato spesso di esclamare, in qualità di invito a non perdere tempo con persone che non meritano la nostra attenzione, «Non ti curar di lor, ma guarda e passa!» (prima curiosità: la citazione è sbagliata! Dante scrive: «Non ragioniam di lor…»). E chi non conosce il verso «Amor ch’a nullo amato amar perdona», che tanta fortuna ha avuto nella musica italiana? Ma cosa significa? E quante volte abbiamo detto a un amico – pieno di guai fino al collo – «stai fresco»? Che cosa hanno in comune queste espressioni e le tante altre raccolte nel libro? La medesima paternità. Nascono tutte dalla penna di Dante Alighieri, il massimo genio linguistico della storia, il quale – con la sua Divina Commedia – ha incrementato vertiginosamente il patrimonio lessicale dell’italiano. Parla come Dante ospita una ricognizione dei più famosi ma anche dei meno noti versi di Dante entrati nella lingua quotidiana, per lo più usati da chi parla senza la consapevolezza della loro provenienza. L’ampia documentazione offerta in queste pagine è la prova del fatto che, se anche noi ignoriamo Dante, Dante non ignora noi, ed è sempre sulle nostre labbra, in ogni momento della «nostra vita»! Quante volte, parlando, citiamo Dante senza saperlo? E siamo certi di citarlo bene? Un libro che svela la presenza nascosta ma costante del sommo poeta nella nostra vita quotidiana

VAI ALLA SCHEDA DELL’EDITORE

Parla come Dante – Newton Compton Editori

Umberto Galimberti, A proposito di no vax: se avessimo studiato filosofia e frequentato un po’ di cultura scientifica non rifiuteremmo il vaccino, In D – La Repubblica 18 settembre 2021

“L’universo speculativo di Severino mi ha sempre evocato una biforcazione visionaria alle origini della cultura occidentale …, in Giuseppe Pontiggia, L’isola volante, Mondadori, 1996, pag. 231

L’universo speculativo di Severino mi ha sempre evocato una biforcazione visionaria alle origini della cultura occidentale: da un lato la direzione della nostra storia, dominata dalla follia del nichilismo, che identifica l’essere con il divenire, e asservita al trionfo della tecnica, che si esprime come volontà di potenza sul mondo; dall’altro una direzione ipotetica, percorribile solo attraverso il ripudio della tradizione e il ritorno a Parmenide che affermava l’immutabilità eterna dell’essere e l’apparenza del divenire.

In Giuseppe Pontiggia, L’isola volante, Mondadori, 1996, pag. 231

“Giovanni Semerano e la dicotomia indoeuropeisti-semitisti” di Giuseppe Ieropoli | Letture.org

Dott. Giuseppe Ieropoli, Lei è autore del libro Giovanni Semerano e la dicotomia indoeuropeisti-semitisti pubblicato da La Finestra Editrice: quale importanza riveste la prospettiva storico-linguistica indicata da Giovanni Semerano?

vai a:

“Giovanni Semerano e la dicotomia indoeuropeisti-semitisti” di Giuseppe Ieropoli | Letture.org

VASCO URSINI, Una filosofia per il tempo che viviamo, Edizioni Nuova Prhomos, 180 pagine, 2021, INDICE del libro – dal blog Il pensiero di Emanuele Severino nella sua “regale solitudine” rispetto all’intero pensiero contemporaneo

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Emanuele Severino, Oltre la cenere. L’albero, la legna , il fuoco: eternità delle cose, in Corriere della Sera, 14 agosto, 1980

Emanuele Severino, Oltre la cenere. L’albero, la legna , il fuoco: eternità delle cose, in Corriere della Sera, 14 agosto, 1980

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Emanuele Severino, Oltre la cenere. L’albero, la legna , il fuoco: eternità delle cose, in Corriere della Sera, 14 agosto, 1980 – Il pensiero di Emanuele Severino nella sua “regale solitudine” rispetto all’intero pensiero contemporaneo

Noi assistiamo alla morte altrui, non ci è dato di assistere alla nostra! … , Emanuele Severino

Noi assistiamo alla morte altrui, non ci è dato di assistere alla nostra! Noi siamo eterni, non siamo un diventare altro. Siamo destinati a un ritorno. Noi siamo già da sempre oltre la vita, più che vita.” (Emanuele Severino, filosofo)

Emanuele Severino e la tecnica: alcune riflessioni dal punto di vista della teoria economica – di Gianluigi Coppola in Menabò di Etica ed Economia

vai a  Emanuele Severino e la tecnica: alcune riflessioni dal punto di vista della teoria economica – Menabò di Etica ed Economia

Emanuele Severino: “Per tecnica intendo …”, in Etica ed economia, Ethics in Economic Life, Innsbruck University press, 2009 (citata in Nicoletta CUSANO, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, 2011, p. 418/419

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citazioni da:

NICOLETTA CUSANO, Emanuele Severino. Oltre il nichilismo, Morcelliana, 2011, p. 540. Indice del libro

“Emanuele Severino si rivolge al significato «ente» con il rigore e la radicalità della filosofia teoretica, che non accetta presupposti ingiustificati, e ne mette in luce il tratto fondamentale: essere ente significa essere un certo «esser-sé» “, citazione da Emanuele Severino. La lezione infinita, articolo di Nicoletta Cusano, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2020

….

Cosa ha scoperto Severino? Un significato rivoluzionario di «ente». E in cosa consisterebbe questa rivoluzionarietà?

Severino si rivolge al significato «ente» con il rigore e la radicalità della filosofia teoretica, che non accetta presupposti ingiustificati, e ne mette in luce il tratto fondamentale:

essere ente significa essere un certo «esser-sé»: la penna è penna, la carta è carta, eccetera.

Ma cos’è e cosa significa «esser sé»? — chiede Severino.

Con le sue parole: «Esser sé è insieme il proprio non essere altro».

Esempio: penna è penna in quanto è insieme non foglio, non tavolo, non cielo e non-niente. Se non si tenesse fermo questo, non vi sarebbe alcuna penna. Non la si potrebbe nemmeno pensare e dire.

Severino non sta dicendo nulla che la filosofia non sappia; sta solo richiamando l’attenzione su un tratto essenziale dell’ente.

Quando si dice «carta» non si dice cenere ovvero si dice già non-cenere. Ecco il rilievo di Severino: cosa succede quando si dice che la carta (bruciata) è (diventata) cenere? Si dice che la non-cenere è cenere.

Il dire (il pensare) entra immediatamente in contraddizione con sé stesso:crede di dire qualcosa, ma non dice niente .

Perché?

Perché rende impossibile il soggetto e il predicato dell’affermazione.

Toglie loro senso. Come se chi parla dicesse: Garibaldi, che è Pinocchio, è Napoleone.

Da qui l’affermazione di Severino che la storia della filosofia è stata «storia della follia». Volontà dell’impossibile. Certo, anche la volontà dell’impossibile esiste, non è niente; ma non è quello che crede di essere.

 

Il nucleo del pensiero severiniano è dunque semplicemente questo:

appare immediatamente che l’esser sé è insieme il proprio non essere altro.

Da ciò si deduce l’impossibilità che una qualsiasi cosa possa diventare altro da sé (trasformarsi, nascere e morire) e che dunque ogni cosa sia eterna.

in

Emanuele Severino. La lezione infinita, articolo di Nicoletta Cusano, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2020

“Sulla scacchiera logica vi sono tre possibili alternative: 1. esistono enti eterni e divenienti; 2. esistono solo enti divenienti; 3. esistono solo enti eterni. La mossa filosofica di Severino è l’ultima “, citazione da Emanuele Severino. La lezione infinita, citazione da un articolo di Nicoletta Cusano, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2020

Se considerata sotto il profilo storico, la riflessione di Severino è affermazione della via logicamente mancante al cammino della filosofia.

Sulla scacchiera logica vi sono infatti tre possibili alternative:

1. esistono enti eterni e divenienti;

2. esistono solo enti divenienti;

3. esistono solo enti eterni.

La mossa filosofica di Severino è l’ultima. Qui l’eterno ha un senso completamente nuovo, perché non coesiste con il diveniente: è affermato sulla base dell’impossibilità del diveniente.

da

Emanuele Severino. La lezione infinita, articolo di Nicoletta Cusano, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2020

Emanuele Severino. La lezione infinita, articolo di Nicoletta Cusano, in Corriere della Sera, 17 febbraio 2020

vai a

Emanuele Severino, la lezione infinita – Corriere.it

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Emanuele Severino, Siamo re che si credono mendicanti, in Remo Bodei, Roberta De Monticelli, Giovanni Reale, Aldo Schiavone, Emanuele Severino, Vito Mancuso, CHE COSA VUOL DIRE MORIRE, a cura di Daniela Monti, Einaudi, 2010, pagg. 135-164. Indice del libro

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alle radici della parola DESTINO

de-stino: significa lo ‘stare innegabile’ dell’essere.

Il termine deve essere inteso in senso etimologico:

il de– non ha significato depotenziante ma potenziante (Severino richiama il caso del verbo latino ‘de-amo’ che significa “amare più intensamente”);

stino‘ deriva (come ‘epi-steme’) dal corrispondente verbo greco che significa ‘stare’.

Il de-stino è lo stare innegabile ed eterno che ‘sta e non cede’ (‘ne-cedo) alla propria negazione.

Emanuele Severino, Vincenzo Vitiello, Il Decalogo: RICORDATI DI SANTIFICARE LE FESTE, CD pubblicato nella collana Chorus / cultura libri da ascoltare, a cura di alboversorio.wordpress.com. AUDIO del cd

 

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AUDIO del cd

https://drive.google.com/open?id=1bB7XkoZLyZBe82X9AqcxY_bkWc2xPC9L

https://drive.google.com/open?id=1bWx5pO_xOmW2LXxOAb04F0pZSLQES9il

https://drive.google.com/open?id=1Eq_mtRmurqm9vvDcH50bON92hFKNm83C

https://drive.google.com/open?id=13rbTcLuhO9gIqlgweGmMF6tlJWnfye-9

 


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https://alboversorio.wordpress.com

PARMENIDE alle origini della ONTOLOGIA

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IN La grande storia, L’antichità: Vicino Oriente, Grecia, Roma. Temi trasversali, Corriere della Sera 2011

“Che cos’è la filosofia? Sono più i problemi che risolve o quelli che solleva?”, in Filosofeggiando con… EMANUELE SEVERINO – intervista di Davide D’Alessandro, in Il Foglio 7 aprile 2019

Che cos’è la filosofia? Sono più i problemi che risolve o quelli che solleva?

Da che vive, l’uomo lotta contro la morte. Il primo grande Rimedio contro di essa è il mito, ossia il Racconto che garantisce la vittoria sulla morte. Ma a un certo punto l’uomo si accorge della debolezza di quella garanzia. Il mito è la semplice volontà che le cose stiano come esso vuole che stiano. La parola “filosofia” significa invece l’aver a cuore (phileín) ciò che sta in luce (saphés) e che quindi è affermato non perché è voluto, ma perché si impone da sé. La grandezza della filosofia sta cioè nell’aver evocato l’idea di un sapere assolutamente innegabile, che né uomini o dèi possano smentire, né cambiamenti di luoghi e di epoche, e nemmeno un Dio onnipotente. Poi la filosofia ha inteso stabilire, lungo un processo durato più di due millenni, in che consista il contenuto di questo sapere, ed è questo processo ad aver condotto, e inevitabilmente, alla destinazione della tecnica al dominio assoluto del mondo, ossia al culmine della Follia a cui abbiamo prima accennato. Ciò significa che sin dall’inizio la filosofia è rimasta accecata e che la destinazione della tecnica al dominio è il risultato di questo accecamento. La storia dell’Occidente e ormai del Pianeta (che è storia dei pensieri e delle opere) cresce all’interno dell’accecamento della filosofia.

vai alla intera intervista

Filosofeggiando con… EMANUELE SEVERINO – Il Foglio

VASCO URSINI, IL PENSIERO, già pubblicato nel gruppo: Amici di Emanuele Severino, 14 febbraio 2019

Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

Severino, come egli stesso ricorda in un’intervista, rammenta quando formulò le sue idee per la prima volta, quelle idee destinate a suscitare così tanto stupore. Aveva ventitrè anni, era già libero docente all’Università, e un giorno stava lavorando attorno al primo libro della “Fisica” di Aristotele, su nello studiolo, quando fu travolto da un’ondata d i pensieri nuovi:

fu come trovarsi in un vortice, in un maelström, e in basso apparve la terra. L’essere eterno mi si presentò in questo modo, aveva il carattere di questo fondo marino “.

Da lì ebbe inizio la sua avventura filosofica.

La filosofia di Emanuele Severino si innesta nel dibattito ontologico avviato da Heidegger e, tuttavia (a differenza di Heidegger), si propone un ritorno all’antico pensiero di Parmenide di Elea. Per Severino la questione principale da affrontare risale alla metafisica classica e riguarda la contraddizione o meno tra l’essere e il non essere…

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NULLA, dal Glossario contenuto in: Emanuele Severino, Istituzioni di filosofia, Morcelliana editore, 1968 (2010), p. 209-211

Severino Emanuele, Testimoniando il destino, Adelphi editore, p. 376, 2019. Indice del libro

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Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

Sin dal suo inizio storico la filosofia è stata la volontà di incarnare il sapere assolutamente innegabile. Ma come è possibile «la stabile conoscenza della verità», si chiede Emanuele Severino, «in un clima come quello del nostro tempo, dove non solo la scienza, ma la filosofia stessa ha quasi ovunque voltato le spalle a ciò che essa ritiene il “sogno” di un sapere siffatto?».

In verità, già nel modo in cui la «scienza della verità» compiva i primi passi era presente l’errare più radicale in cui l’uomo possa trovarsi, quella che per Severino è la Follia estrema: «la fede nella quale si crede che le cose diventano altro da ciò che esse sono … affermando che l’evidenza suprema è che le cose escono dal nulla (dal loro non essere) e vi ritornano».

Tutta l’opera di Severino, sin dal suo primo libro (La struttura originaria), è volta dichiaratamente allo…

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Vasco Ursini, IL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO SI PONE COME IL LINGUAGGIO CHE TESTIMONIA IL “DESTINO DELLA VERITA’”. Citazione da La Gloria, Adelphi, Milano 2oo1, p. 22

Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

Severino nei suoi scritti usa spessissimo l’espressione  “destino della verità” e anche quella “verità del destino”. Sono espressioni che devono essere spiegate ad evitare equivoci interpretativi.

Severino non intende la parola “de-stino” nel suo significato usuale di corso delle cose considerato come predeterminato e indipendente dalla volontà dell’uomo, ma in quello etimologico di stare innegabile dell’essere.

Dunque il de-, per Severino, non ha un valore negativo ma affermativo e potenziante, e stino  significa stare. 

Quindi “destino” indica uno “stare che non cede”, uno “stare” che resiste ad ogni tentativo di abbatterlo e che quindi si pone come “destino della necessità”.

Questo “stare necessario del destino” indica dunque lo stare innegabile ed eterno dell’essere, cioè  l’impossibilità che l’essere non sia. Il fondamento di tale impossibilità sta nell’immediata autonegatività della sua negazione, la quale, nell’implicare la verità di ciò che esplicitamente tenta di negare, nega se stessa proprio…

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sul “RIPARO”: il concetto di RAUMGESTALTUNG (configurazione dello spazio), in Emanuele Severino, Tecnica e architettura, Raffaello Cortina editore, 2003, pagg. 87-88

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corso di filosofia: IL FINITO, L’INFINITO, L’ETERNO. Gli interrogativi della SCIENZA, le speculazioni della FILOSOFIA, le indagini della TEOLOGIA. Prima serata: CARLO SINI, Continuità del mondo e discrezione del sapere. Da Aristotele alla scienza attuale. A cura della associazione Noesis, 13 novembre 2018, Auditorium L. Mascheroni, Via Alberico da Rosciate 21/A, Bergamo

IL FINITO, L’INFINITO,

L’ETERNO

Gli interrogativi della SCIENZA,

le speculazioni della FILOSOFIA,

le indagini della TEOLOGIA.

Siamo lieti di invitarLa alla serata di apertura del nuovo corso

di Filosofia Noesis 2018-2019

 

Martedì 13 NOVEMBRE ore 20.00

Auditorium L. Mascheroni Via Alberico da Rosciate 21/A, Bergamo

 

All’ingresso della sala saranno attive le prenotazioni

 

CARLO SINI

Continuità del mondo e discrezione del sapere.

Da Aristotele alla scienza attuale

Emanuele Severino: … di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte sono eterne

LUOGHI del LARIO e oltre ...

… la follia essenziale si esprime nella persuasione che le cose escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto questa volontà che le cose siano un oscillare tra l’essere e il niente.

Al di fuori della follia essenziale, di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non sianocioè è necessario affermare che tutte – dalle più umili e umbratili alle più nobili e grandi – tutte  sono eterne

Tutte, e non solo un dio, privilegiato rispetto ad esse.

se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere, eterno, come un sole dopo il tramonto.

Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la cenere, il vento che le disperde sono eterni astri dell’essere che si succedono nel…

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SEVERINO EMANUELE, Lezioni milanesi: il nichilismo e la terra (2015-2016), a cura di Nicoletta Cusano, Mimesis, 2018. Testo tratto dal ciclo di lezioni, tenute alla Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, con il titolo: Oltrepassare

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Sul “cerchio dell’apparire”. Dove siamo? Chi siamo?. L’immagine della sfera di cristallo che contiene la casa , dal film Citizen Kane di Orson Welles

Edoardo Camurri a Brescia conversa con il filosofo Emanuele Severino fino a toccare i temi della morte e dell’eternità, in Rai Storia

Edoardo Camurri a Brescia conversa con il filosofo Emanuele Severino fino a toccare i temi della morte e dell’eternità

Sorgente: Emanuele Severino – Brescia – Rai Storia

Emanuele Severino: la tecnica, che si serve di strumenti sempre più potenti e avanzati come ad esempio i computer, è destinata al dominio. Un dominio che, se l’uomo non sarà in grado di compiere le scelte giuste, potrebbe rivelarsi catastrofico- intervista in Tech – quotidiano.net

Emanuele Severino:
Lei ha un profilo Facebook?
«No, ma gli amici che hanno da poco fondato l’Associazione studi Emanuele Severino (Ases*) credo però stiano per realizzare un sito web ad hoc».
Perché non ha sentito il bisogno di entrare nei social network?
«Perché lascio che queste cose accadano per loro conto».

Il pensiero di EMANUELE SEVERINO, a cura di Vasco Ursini (1936-2023)

estratti dalla intervista:

“La vita umana incomincia a cambiare radicalmente da quando le grandi forze che oggi si servono della tecnica, capitalismo in testa, capiscono che la tecnica guidata dalla scienza moderna è il mezzo più potente e che quindi va potenziato anche a scapito degli scopi che tali forze si prefiggono di realizzare. L’intelligenza artificiale è un capitolo di questa vicenda”

“«Ancora oggi l’uomo ha bisogno della tecnica. Proprio per questo, e ovviamente mi limito anche qui come nelle altre mie risposte a enunciare le tesi, lo scopo della tecnica, cioè l’aumento indefinito della potenza, è destinato a diventare lo scopo dell’umanità. In questa situazione, la tecnica ha bisogno dell’attività umana, nella misura in cui però è questa attività a diventare il mezzo di cui la tecnica si serve. L’imperativo kantiano di non trattare mai l’uomo soltanto come mezzo perde ogni forza».”

«Le reti telematico-informatiche sono ancora dei mezzi di…

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Il mio ricordo degli eterni. Dialogo con : Emanuele Severino: Vincenzo Milanesi, Ines Testoni,  25 set 2016, Master in Death Studies & The End Of Life. VIDEO di 1 ora e 11 minuti

Emanuele Severino, IL FOCOLARE CHE NON SI SPEGNE MAI, Corriere della Sera 24 dicembre 1983

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SPAZI D’OCCIDENTE. L’umanità in cammino, quale destino per l’Europa?, corso di filosofia 2016/2017, NOESIS , Bergamo, www.noesis-bg.it

vai al sito

www.noesis-bg.it

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L’INCONSCIO SECONDO EMANUELE SEVERINO, estratto  a cura di Vasco Ursini, in Amici a cui piace Emanuele Severino

L’INCONSCIO SECONDO EMANUELE SEVERINO

Come abbiamo visto, Severino ritiene che il nichilismo si basi sulla persuasione inconscia che le cose siano nulla.
In AAHOEIA egli non si pone il problema se il pensiero che supera il nichilismo, affermando l’eternità di tutte le cose, possa sussistere esplicitamente, in una forma consapevole di sé, o se implichi anch’esso un inconscio, o addirittura se sia di per sé inconscio. Il suo discorso è orientato esclusivamente a evidenziare come la persuasione nichilista che le cose siano nel tempo implichi un inconscio.
In “Destino della Necessità”, invece, se da una parte il concetto di inconscio appare negli stessi termini in cui due anni dopo ritorna in AAHOEIA, dall’altra si presenta in un’accezione e una valenza completamente diverse.
Come abbiamo visto, secondo Severino, l’uomo occidentale non si rende conto di come al di sotto della persuasione che le cose siano temporali soggiace la persuasione che le cose siano nulla. Ma, naturalmente, secondo Severino, l’uomo occidentale non si rende conto neanche dell’eternità di tutte le cose. L’eternità di tutte le cose è ciò che primariamente ed essenzialmente gli sfugge. Anche questo, dunque, è il suo inconscio. E Severino, appunto, lo rileva: “Nell’autocoscienza dell’Occidente e del mortale non appare ciò che l’Occidente e il mortale sono nello sguardo del destino della verità. Ciò che essi in verità sono è il loro inconscio. Il loro inconscio si mostra nello sguardo del destino. L’inconscio, qui, è ciò che non appare all’interno dell’apparire in cui l’Occidente, come interpretazione dominante, consiste” (Destino della necessità, p. 432). Nell’autocoscienza dell’Occidente non appare la verità, che sappiamo essere l’eternità di tutte le cose, dunque ciò che anche l’Occidente è. Ciò vale anche per il mortale, cioè per chi considera le cose, e dunque anche se stesso, temporali: “anche l’esser mortale è eterno” (ivi, p, 422). Questo essere eterni anche dell’Occidente e del mortale stessi, dunque questa verità che l’Occidente e il mortale stessi sono, al di là della loro tendenza a negarla, è “il loro inconscio”.
In questo caso, dunque, l’inconscio non è qualcosa che partecipa alla negazione della verità. Al contrario è qualcosa che racchiude la verità in sé, che la custodisce. Più ancora: è esso stesso la verità negata dall’Occidente, inteso come “interpretazione dominante”, poiché è esso stesso l’affermazione dell’eternità di tutte le cose.
In un capitolo successivo, Severino afferma: “L’inconscio più profondo e più nascosto è la chiarità estrema dell’illuminarsi del tutto” (ivi, p. 392). Abbiamo già visto come Severino rilevi che la parte risplende in virtù del suoi legame con il tutto, in quanto avvolta dal tutto. In questo caso è il tutto stesso a risplendere.
Ciò non esclude il risplendere della parte, ma ne costituisce l’espressione più compiuta. Non soltanto, infatti, la parte risplende in quanto “attraversata” e “avvolta dal tutto” (Essenza del nichilismo, p. 23) ma in quanto la “parte ‘è’ il Tutto, nel senso che il Tutto è l’esser veramente sé della parte” (ivi, p. 390).
[ … ]
Secondo Severino, dunque, per un verso l’inconscio è proprio della ragione alienata del nichilismo e interpreta le cose come nulla, per un altro verso racchiude il superamento di tale alienazione e interpreta le cose completamente libere dal nulla, dunque come assoluto essere: da una parte è oscuramento, dall’altra è “chiarità estrema”.
Del resto, il concetto di inconscio corrisponde all’idea di un accecamento, e l’accecamento può derivare dall’assenza di luce. Severino riconduce appunto l’inconscio a queste due possibili matrici.
Nella sua opera, cioè, il concetto di inconscio si presenta in due accezioni opposte, con due determinazioni opposte. Un passo del libro del 1983 ‘La strada’ fa esplicito riferimento a tale duplicità: “se il nichilismo è l’inconscio dell’Occidente, non si dovrà dire forse che il paese che sta oltre i confini dell’Occidente e dal quale proviene il linguaggio che indica l’inconscio dell’Occidente, è “l’inconscio dell’inconscio dell’Occidente?”

( Lo scritto è tratto da: Gabriele Pulli, Freud e Severino, Moretti e Vitali Editori, Bergamo 2000, pp. 63-66).

PER INTRODURRE ALLE DISCUSSIONI INTORNO AL SENSO DELLA VERITA’: ‘alétheia’; ‘epistéme’; ‘thauma’, tratto dal gruppo Amici a cui piace Emanuele Severino, curato da Vasco Ursini

Nel nostro tempo è sempre più dominante la convinzione che la verità, qualsiasi forma di verità, abbia un carattere storico e pragmatico: la verità non è al di sopra del tempo e della storia, ma è un certo stato provvisorio e controvertibile della conoscenza, che permane ed è affermato sino a che esso sia in grado di realizzare certi scopi. Questa prospettiva è la negazione del carattere di incontrovertibilità, universalità, necessità, che a partire dalla filosofia greca, lungo la tradizione dell’Occidente, e non solo nell’ambito del pensiero filosofico, è stata assegnata alla verità. Oggi, conoscenza vera è quella che in certe circostanze spazio-temporali determinate riesce a prevedere e trasformare il mondo più di altre forme di conoscenza. La verità è potenza, azione, prassi vincente e nel nostro tempo la potenza vincente è ritenuta la tecnica guidata dalla scienza moderna.
E si ritiene che la crescita della potenza scientifica sia determinata dalla progressiva modificazione e sostituzione delle teorie scientifiche, che tendono tutte – anche quelle che un tempo erano intese come verità incontrovertibili – ad acquistare il carattere di leggi statistico-probabilistiche, ossia di verità storiche e pragmatiche. Anche la matematica riconosce che i propri principi sono postulati, ipotesi che non pretendono avere un valore assoluto, incontrovertibile.
D’altra parte la tesi che ogni verità ha un carattere storico-pragmatico non può evitare il cosiddetto “argomento contro lo scettico”, per il quale questa tesi, presentandosi come verità incontrovertibile, smentisce se stessa. Per evitare questa conseguenza – cioè questa contraddizione – la tesi del carattere storico-pragmatico della verità ha finito col presentare se stessa come verità storico-pragmatica, controvertibile. Molto prima che questa prospettiva fosse affermata da filosofi dell’area anglosassone come Richard Rorty, essa è stata affermata in Italia da filosofi come Ugo Spirito, discepolo di Giovanni Gentile. Va comunque osservato che è proprio perché non si rinuncia alla tesi della controvertibilità di ogni verità che ci si propone di darle una forma non contraddittoria, riconoscendo il carattere controvertibile, storico-pragmatico di questa stessa tesi. Dove però è chiaro che, in questa forma apparentemente radicale di negare l’incontrovertibilità, si riconosce un carattere di verità incontrovertibile all’argomento contro lo scettico; e poiché questo argomento mostra la presenza di una contraddizione nella tesi assoluta del carattere controvertibile di ‘ogni’ verità, in quella forma apparentemente radicale di negazione dell’incontrovertibile si riconosce un carattere di incontrovertibilità anche al principio di non contraddizione.
Con queste considerazioni si intende dire che la forma ‘autenticamente’ più radicale – anche se tendenzialmente inosservata – della filosofia del nostro tempo è un’altra: non è né scetticismo né quella forma apparentemente’ radicale di negare la verità che riconosce la propria controvertibilità, storicità, pragmaticità. Nella sua forma autenticamente più radicale la filosofia del nostro tempo non nega ogni verità incontrovertibile, ma nega ogni verità incontrovertibile e immutabile che pretenda porsi al di sopra dell’unica fondamentale verità incontrovertibile, e permanente fino a che qualcosa esiste, consistente nella tesi che ogni verità diversa da questa tesi è travolta dal tempo, dalla storia, dal divenire del mondo.
A questo punto si tratterebbe di vedere ‘perché’ questa sia l’unica fondamentale verità incontrovertibile. Giacché non basta ‘asserire’, come oggi per lo più accade, che non esiste alcuna verità metastorica, metafisica, assoluta, definitiva, che non esiste alcun Essere immutabile e necessario, alcun Fondamento, alcun Centro assoluto, alcun Senso assoluto del mondo. Oggi si dà per lo più come scontato tutto questo. Ma nella sua essenza più profonda la filosofia del nostro tempo mostra determinatamente la ‘necessità’ di tutto questo, e lo mostra sul fondamento della fede che l’esistenza del divenire e della storicità di ogni cosa e di ogni verità, sia la suprema verità incontrovertibile, essa stessa destinata ad annientarsi quando non esisterà più alcuna coscienza del mondo.
E, tuttavia, non solo c’è una ‘dimensione che è comune sia alla concezione tradizionale della verità, sia alla distruzione di tale concezione’ (alla distruzione operata appunto dall’essenza del pensiero filosofico del nostro tempo), ma, al di là di questa dimensione, la verità è ‘destinata’ a un senso che ‘non’ appartiene alla storia dell’Occidente (e tanto meno dell’Oriente) ma che già da sempre appare in ciò che vi è di più profondo in ognuno di noi. Noi siamo questo ‘destino’.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della verità, Edizioni ETS, PISA 2009, pp. 9 – 11) (Il discorso sarà ripreso e sviluppato in prossimi post fino a presentare le risposte di Severino alle critiche che da più parti gli vengono rivolte).


PER INTRODURRE ALLE DISCUSSIONI INTORNO AL SENSO DELLA VERITA’ (2)

La parola greca che traduciamo con ” verità ” è ‘alétheia’ che propriamente significa “il non nascondersi”, e pertanto il manifestarsi, l’apparire delle cose. Ma per il pensiero greco la verità non è soltanto ‘alétheia’ (come invece ritiene Heidegger): la verità è l’apparire in cui ciò che appare è l’incontrovertibile, ossia ciò che, dice Aristotele, “non può stare altrimenti di come sta e si manifesta” (mè endéchetai àllos échein).

Questo ” stare ” in modo assoluto è espresso dalla filosofia greca con la parola ‘epistéme’, dove il tema *steme (dalla radice indoeuropea *sta) indica appunto lo ” stare ” di ciò che sta e si impone ” su ” (‘epi’) ogni forza che voglia negarlo, scuoterlo, abbatterlo. Ciò che non può stare altrimenti è l’incontrovertibile, è come le cose stanno. L’esser esposti al poter essere altrimenti, cadendo, è il tremore del pensiero.

Appunto per questo Parmenide dice che il ” cuore ” della verità ” non trema ” – sebbene egli, che per un verso appartiene e inaugura la storia dell’ ‘epistéme’, per altro verso sembra volgere lo sguardo verso un senso inaudito della verità, il senso che non appartiene alla storia dei ” mortali “. Il cuore dei mortali, invece, trema di fronte alla sofferenza e alla morte. Platone e Aristotele chiamano ‘thauma’ questo tremore e vedono che da ‘thauma’, cioè dall’ “angosciato stupore “, nasce la filosofia: per essere sicuri della salvezza, non ci si può accontentare del mito e la volontà (‘thymòs’, dice Parmenide all’inizio del Poema) si protende verso il ” cuore non tremante della verità “.
Da tempo il pensiero filosofico si è reso conto che la definizione tradizionale della verità come ‘adaequatio intellectus et rei’ (“adeguazione dell’intelletto e della cosa”, “adeguazione dell’intelletto alla cosa”) ha un carattere subordinato, Infatti, per sapere che l’intelletto è adeguato alla cosa, è necessario che la cosa sia manifesta, appaia, e appaia non come contenuto di un’opinione o di una fede, ma nel suo non poter stare altrimenti, cioè nella sua incontrovertibilità. Idealismo, neoidealismo, fenomenologia sono consapevoli del carattere derivato o addirittura alterante del concetto di ‘adaequatio’; le stesse filosofie della cosiddetta ” svolta linguistica “, sebbene fatichino a riconoscerlo, vanno in questa direzione. Lo stesso pensiero greco, in cui si forma la definizione della verità come adeguazione, risale all’indietro di questa definizione e, come si è rilevato, concepisce la verità come unità di ‘alétheia’ ed ‘epistéme, dove le cose del mondo che innanzitutto si manifestano sono incontrovertibilmente mutevoli, vanno dal non essere all’essere – e in questo senso possono stare altrimenti di come stanno -, tuttavia, fino a che stanno in un certo modo, è impossibile che stiano altrimenti, e anche in quest’altro senso sono anch’esse incontrovertibili. L’ ‘epistéme’ ritiene inoltre che a partire da ciò che si manifesta sia necessario pervenire all’affermazione dellEnte immutabile e divino e delle strutture e forme immutabili che nel mondo diveniente in qualche modo rispecchiano l’immutabilità del divino (le cosiddette ” leggi di natura”, o ” diritto naturale “, la ” morale naturale “). Nell’ ‘epistéme’ lo stare del Dio e del suo rispecchiarsi nel mondo differisce dunque dalle stabilità e permanenze affermate dal mito, ossia dalla volontà di far stare un certo senso del mondo. Un Ente supremo, divino, è autenticamente immutabile solo in quanto la sua esistenza immutabile sia affermata dal sapere incontrovertibile. La filosofia vuole la verità, vuole che la verità sia l’incontrovertibile: il mito vuole (crede) che il mondo abbia un certo senso e non vede la fermezza secondo la quale il proprio volere vuole – la fermezza che, se fosse pensata, dovrebbe avere il carattere del non poter essere altrimenti da parte di ciò che è voluto e che dunque non potrebbe più essere un voluto ma qualcosa che di per se stesso ‘sta’, è incontrovertibile.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della verità, cit., pp. 11 – 12. ).

Sorgente: (1) Amici a cui piace Emanuele Severino

Che cos’è la STRUTTURA ORIGINARIA?, di Nicoletta Cusano, Capire Severino, Mimesis Filosofie, Milano 2011, pp. 55 – 57. Citazione segnalata da Vasco Ursini

 

La struttura originaria è la struttura originaria dell’essere, ciò che è necessariamente presente in quanto un essente è e appare. Senza la presenza di tale struttura nessun essente potrebbe essere e apparire. In altre parole essa è lo scheletro dell’essere, la sua grammatica di base, la sua ‘sintassi’ fondamentale. Poiché tale sintassi non è un unico significato ma un ‘intreccio inscindibile di significati’, essa è una ‘struttura’, cioè un complesso logico-semantico consistente nella totalità delle determinazioni che devono essere presenti affinché un essente possa apparire. Si può quindi dire che la struttura originaria è la ‘forma essenziale’ di ogni essente, ciò che ogni essente ‘formalmente’ “è”, o meglio, ciò con cui esso è necessariamente “in relazione”.
In quanto l’essere è l’immediatamente innegabile e l’innegabilmente immediato, la struttura originaria dell’essere è la struttura originaria della “necessità”, dove il termine ‘necessità’ – dal latino ne-cedo – esprime il senso assoluto dell’innegabilità quale autonegatività immediata del proprio negativo. In quanto il proprio negativo è l’immediatamente autonegativo, la struttura originaria è ciò che “sta”, innegabilmente ed eternamente; in altre parole, essa non è “un prodotto teorico dell’uomo o di Dio, ma il luogo già da sempre aperto della Necessità”. E’ lo stare innegabile dell’essere-significare.
In quanto l’essenza dell’essere è quella di essere ‘innegabile’ nel senso suddetto, “l’intento dell’intera indagine contenuta ne “La struttura originaria” è di determinare in maniera rigorosa il senso dell’opposizione del negativo e del positivo”. [ … ]
In quanto la verità originaria dell’essere consiste nell’innegabilità quale identità dell’esser sé e dell’immediata autonegatività del proprio non esser sé, essa non è un significato semplice ma un complesso predicazionale, un intreccio inscindibile di significati, cioè una “struttura”. essa “è la struttura delle determinazioni necessarie di ciò che con verità può essere affermato” e senza di cui “nessun essere può apparire”.
Queste ultime affermazioni ribadiscono che la struttura originaria è ciò che deve apparire affinché qualcosa possa essere e apparire, e cioè che essa è il “fondamento dell’essere: un essente è e appare in quanto è presente “una certa dimensione dell’essente […] costituita dalle determinazioni che competono con necessità a ogni essente e nelle quali consiste appunto il destino”. Queste determinazioni, che sono la ‘forma’ dell’essente, dalla ‘Struttura originaria’ alla ‘Gloria’ sono chiamate determinazioni “persintattiche”. Esse sono “l’esser sé dell’essente, il suo non esser altro da sé, il suo non poter diventare ed essere altro da sé, il suo essere eterno, e, ancora, l’essere dell’apparire infinito, la necessità che gli essenti della terra, sopraggiungendo, siano accolti dagli essenti dello sfondo, e la necessità che il sopraggiungere della terra sia la Gloria, cioè si dispieghi senza fine – e a queste determinazioni dello sfondo si aggiungano tutte quelle che gli competono e che costituiscono la dimensione stessa a cui si rivolgono i miei scritti, indicandole” (E. Severino, Oltrepassare, p. 179).
In questo passaggio compare il termine “sfondo” che è un altro modo di nominare la “sintassi” originaria dell’essere evidenziandone l’essere contenuto necessariamente ‘originario’ e ‘costante’ dell’apparire, l’insieme di determinazioni che non sopraggiunge e non tramonta mai all’interno dell’apparire trascendentale, ossia all’interno di quell’orizzonte che ospita l’apparire empirico e particolare degli essenti. Lo sfondo è appunto la “permanenza non sopraggiungente”. Come si nota, l’illustrazione della struttura originaria chiama direttamente in causa l’apparire.

(Nicoletta Cusano, Capire Severino, Mimesis Filosofie, Milano 2011, pp. 55 – 57).

DESTINO DELLA NECESSITA’, Note biografiche di Vasco Ursini , da Amici a cui piace Emanuele Severino

in “Destino della necessità” Severino espone una autentica concezione del tempo inteso come l’apparire e lo scomparire degli eterni

Sorgente: (13) Amici a cui piace Emanuele Severino

EMANUELE SEVERINO, IL TRAMONTO DEL SENSO DELL’ESSERE, estratto a cura di Vasco Ursini in Amici a cui piace Emanuele Severino

IL TRAMONTO DEL SENSO DELL’ESSERE

La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei Greci. E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perchè la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone. La storia della filosofia non è per questo un seguito di insuccessi: si deve dire piuttosto che gli sviluppi e le conquiste più preziose del filosofare si muovono all’interno di una comprensione inautentica dell’essere.
Ma queste espressioni alludono a qualcosa di radicalmente diverso dall’interpretazione heideggeriana della storia della filosofia occidentale. La diversità è radicale, perché anche il pensiero dello Heidegger è una sorta di alterazione, e non meno grave, del senso dell’essere. Per lui, la più antica filososofia greca intravvede l’essere come ‘presenza’, ossia come l’apertura o l’orizzonte entro cui può giungere a manifestazione ogni determinatezza dell’ente. Resta così invertita la direzione della storiografia idealistica, che vede invece nell’orizzonte – l’attualista direbbe: nel pensiero in atto – l’ultimo risultato dello sviluppo del sapere filosofico. Ciò che per l’idealista è il risultato, per lo Heidegger è al contrario l’inizio; lo sfolgorante inizio che ben presto impallidisce e lascia il campo alla mistificazione metafisico-teologica dell’essere, nella quale l’orizzonte di ogni apparizione dell’ente diventa un ente, sia pure l’ ‘Ens supremum das Seiendste’.
L’arbitrarietà dell’interpretazione heideggeriana è ormai fuori discussione: non già perché si debba tener fermo quell’altro dogmatismo, per il quale la filosofia greca sarebbe rimasta al di sotto della consapevolezza dell’orizzonte della presenza ( e cioè sarebbe rimasta in quella situazione in cui il pensiero vede l’essere, ma non vede se medesimo), ma perché è storicamente aberrante il tentativo di ravvisare nel primissimo pensiero greco l’identificazione del significato dell’ ‘essere’ e del significato della ‘presenza’. L’intreccio tra i due c’è indubbiamente, ma appunto per questo c’è insieme la differenza. Eppure è proprio nei pochi versi del poema di Parmenide che si nasconde la parola più essenziale e più dimenticata di tutto il nostro sapere. Per rintracciarla non si richiede quel sommovimento delle discipline filologiche, che la lettura heideggeriana pretende, ma un sommovimento ben più profondo e più arduo, quelo cioè che porta alla comprensione della forza invincibile di un discorso che da millenni è saputo e pronunciato, ma che, appunto non è più stato capito. Non si tratta allora di dare significati nuovi alle parole (quasi che riportando l’essere alla presenza ci si trovasse di fronte a qualcosa di più evedente dell’essere), ma di pensare quelli vecchi, ridestarli, e in questo senso, certamente, rinnovarli sino alle ultime sorgenti.
Le parole sono pur sempre queste, che in varie guise ritornano insistenti nel poema. Il gran segreto sta pur sempre in questa povera affermazione che “L’essere è, mentre il nulla non è”, nella quale non si indica semplicemente una proprietà, sia pure quella fondamentale, dell’essere, ma se ne indica il senso stesso: l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo opporsi. L’opposizione del positivo e del negativo è il grande tema della metafisica, ma esso vive in Parmenide con quella sconfinta pregnanza che il pensiero metafisico non saprà più penetrare.
(Emanuele Severino, Essenza del nichlismo, gli Adelphi , Milano 1995, pp. 19-20)

Sorgente: Amici a cui piace Emanuele Severino

VASCO URSINI, interviste sul libro IL DILEMMA: VERITA’ DELL’ESSERE o NICHILISMO?, BookSprint Edizioni

 EMANUELE SEVERINO: ‘alétheia’ e ‘epistéme’, dal gruppo Amici a cui piace Emanuele Severino, a cura di Vasco Ursini

La parola greca che traduciamo con “verità” è ‘alétheia’, che propriamente significa “il non nascondersi”, e pertanto il manifestarsi, l’apparire delle cose. Ma per il pensiero greco la verità non è soltanto’ alétheia’ (come invece ritiene Heidegger): la verità è l’apparire in cui ciò che appare è l’incontrovertibile, ossia ciò che, dice Aristotele, “non può stare altrimenti di come sta e si manifesta”. Questo “stare” in modo assoluto è espresso dalla filosofia greca con la parola ‘epistéme’, dove il tema ‘steme’ (dalla radice indoeuropea ‘sta’) indica appunto lo ‘stare’ di ciò che sta e che si impone ‘su’ (‘epi’) ogni forza che voglia negarlo, scuoterlo, abbatterlo. Ciò che non può stare altrimente è l’incontrovertibile, è come le cose stanno. L’esser esposti al poter essere altrimenti, cadendo, è il tremore del pensiero. Appunto per questo Parmenide dice che il “cuore” della vertà “non trema” – sebbene egli, che per un verso appartiene e inaugura la storia dell’epistéme, per altro verso sembra volgere lo sguardo verso un senso inaudito della verità, il senso che non appartiene alla storia dei “mortali”. Il cuore dei mortali, invece, trema di fronte alla sofferenza e alla morte. Platone e Aristotele chiamano ‘thauma’ questo tremore e vedono che da ‘thauma’, cioe dall’ “angosciato stupore”, nasce la filosofia: per essere sicuri della salvezza, non ci si può accontentare del mito e la volontà (thimòs, dice Parmenide all’inizio del Poema) si protende verso il “cuore non tremante della verità”.
[ … ]
Il principio di non contraddizione, che domina l’intera storia dell’Occidente, afferma [ … ] che è necessario che gli enti siano enti, ‘quando essi sono’. ma che non è necessario che gli enti siano; il che significa che è necessario che gli enti siano stati niente, prima di essere, e tornino ad esser niente, dopo essere stati. Il principio di non contraddizione è cioè, insieme, l’affermazione che gli enti che si manifestano divengono, ossia escono dal niente e vi ritornano; e a sua volta il divenire, quale è inteso nel pensiero dell’Occidente, è insieme l’affermazione del principio di non contraddizione, ossia del principio per il quale è impossibile che, quando gli enti sono, siano niente, ma che è necessario che in un tempo diverso, gli enti siano stati e tornino ad essere niente. Nella forma teologico-metafisica dell’ ‘epistéme’ solo il divino è “sempre salvo” dal nulla (come dice Aristotele): nella distruzione di tale forma, e cioè nel pensiero della “morte di Dio”, ogni ente proviene dal niente ed è destinato a ritornarvi. Ma che gli enti in quanto enti escano dal niente e vi ritornino è la verità comune sia alla tradizione dell’Occidente, sia alla distruzione di tale tradizione.
[ … ]
La presente relazione ha inteso offrire qualche premessa sui seguenti essenziali punti.
1) L’opposizione, certo radicale, tra concezione tradizionale e concezione attuale della verità è sottesa da un ‘comune’ e decisivo tratto di fondo.
2) Esso è portato alla luce dal pensiero filosofico, ma è l’ambito in cui cresce non solo la cultura, ma l’intera civiltà dell’Occidente e ormai del Pianeta.
3) Tale tratto è, da un lato, il carattere di incontrovertibilità della verità, dall’altro lato è l’affermazione della contingenza (precarietà, storicità, temporalità, divenir altro) delle cose del mondo, cioè il loro sporgere provvisoriamente dal niente.
4) Nella cultura occidentale, questo tratto comune è espresso dal “principio di non contraddizione”.
5) Ma questo tratto è anche l’alienazione più radicale della verità. Il “principio di non contraddizione” è cioè essenzialmente contraddittorio. Pensare che gli enti escono e ritornano nel nulla (e si tratta di comprendere che appunto questo è affermato dal “principio di non contraddizione”) significa pensare che gli enti in quanto enti sono niente. In ciò consiste il senso autentico del nichilismo. Si tratta allora di comprendere al di là del modo in cui la verità si è presentata storicamente, il senso non contraddittorio della non contraddizione.
6) L’alienazione della verità è il fondamento di ogni potenza e violenza (teologica, scientifica, morale, ecc.).
7) La non alienazione della verità è l’apparire dell’impossibilità che l’ente – un qualsiasi ente . non sia; è cioè l’apparire dell’eternità di ogni ente.
8) La non alienazione è, insieme, l’apparire della necessità che il variare del mondo sia il comparire e lo scomparire degli eterni.
9) Si invita al tema fondamentale, che però in questa relazione non può essere affrontato: in che senso la negazione della contraddizione non è un dogma dell’ente.
(Emanuele Severino, Discussioni intorno al senso della vertità, Edizioni ETS, Pisa 2009, pp.11 – 22).

Sorgente: Amici a cui piace Emanuele Severino, a cura di Vasco Ursini

Appunti e tracce di analisi sul concetto di TERRA ISOLATA DAL DESTINO di Emanuele Severino. Audio di Paolo Ferrario tratto da una conversazione con Doriam Battaglia, 10 marzo 2016

AUDIO in base alla mia PARZIALE capacità di capire questo potente pensiero filosofico

Questo post nasce da una conversazione fra Paolo Ferrario e Doriam Battaglia


da EMANUELE SEVERINO, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli, 2013

da pag. 134:

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da : A lezione di EMANUELE SEVERINO, Volontà, fede e destino a cura di Davide Grossi, 2 CD ROM e FILE AUDIO mP3, Mimesis, 2008

pag. 69:

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da LUCA GRECCHI, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino, Petite Plaisance editrice, 2005

p. 37:

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da GIULIO GOGGI, Emanuele Severino, Lateran University Press, 2015

pag. 221:

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La struttura concettuale che fonda l’esistenza del dispiegamento infinito della terra – e l’esistenza di una molteplici-

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stralci da: EMANUELE SEVERINO, La morte e la terra, Adelphi,  2011

da pag. 180:

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da pag. 184:

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da pag 250:

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da pag. 333:

terra isolata3051

da pag 476:

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EMANUELE SEVERINO, I fondamenti del metodo scientifico Contraddirsi? A volte aiuta – Corriere.it, 5 marzo 2016seve

I due contributi fondamentali della fisica contemporanea — teoria della relatività e fisica quantistica mostrano — almeno sinora, di essere tra loro in contraddizione. Ma nessun fisico rinuncerebbe per questo a servirsi di entrambi. E se Kurt Gödel ha dimostrato la possibilità che lo sviluppo del sapere matematico abbia a implicare delle contraddizioni, qualora ciò avvenisse i matematici non volterebbero le spalle alla matematica esistente. L’esperimento che ha fatto osservare l’esistenza delle onde gravitazionali è stato salutato con legittima soddisfazione perché non smentisce la teoria della relatività. Ma che cosa significa non smentirla? Significa che non l’ha contraddetta. Se l’avesse contraddetta, i fisici avrebbero incominciato a dubitare della sua validità ma non smetterebbero di praticarla. In questo modo la fisica mostra la volontà di non contraddirsi. La quale è insieme volontà che la realtà non sia contraddittoria: volontà, pertanto, che i «fatti» che smentiscono il contenuto di una teoria e questo contenuto non abbiano a coesistere

Sorgente: Onde gravitazionali: la conferma scientifica dell’intuzione di Einstein e il dibattito sul metodo scientifico – Corriere.it

DAL SASSO ANDREA, Creatio ex nihilo. Le origini del pensiero di Emanuele Severino tra attualismo e metafisica, Mimesis edizioni

filosofie-del-sasso-creatio-ex-nihilo

Uno spaccato sulla storia della filosofia italiana del Novecento, interpretata alla luce del significato ontologico della creatio ex nihilo nel dibattito tra attualismo, problematicismo e metafisica, con il proposito di introdurre il lettore al pensiero di Emanuele Severino, mediante l’analisi delle sue origini e delle maggiori influenze (Gentile, Bontadini). L’analisi storica è affiancata all’intento teoretico di problematizzare l’inizio del filosofare severiniano, allo scopo di esplicitare le condizioni di possibilità per un ripensamento radicale del significato della prassi e dell’etica al di fuori di una comprensione nichilistica del divenire.

Andrea Dal Sasso (Feltre 1982) è dottore di ricerca in Filosofia. Nel 2009-2010 è stato borsista presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napoli. È autore del volume Dal divenire all’oltrepassare. La differenza ontologica nel pensiero di Emanuele Severino (Roma 2009) e di vari articoli su riviste internazionali. I suoi interessi sono rivolti alla filosofia italiana del Novecento nelle sue relazioni con la filosofia europea, con particolare riferimento all’ontologia e alla metafisica.

Sorgente: Creatio ex nihilo

EMANUELE SEVERINO, L’APPARIRE DELLA MORTE, brano è tratto da: Emanuele Severino, Sul divenire Dialogo con Biagio de Giovanni, Mucchi Editore, Napoli2014, pp. 22-28, selezione del testo proposta dal professor VASCO URSINI

EMANUELE SEVERINO, L’APPARIRE DELLA MORTE

Come per tutti i mortali anche per Biagio de Giovanni c’è “qualcosa di ineluttabile” “nella condizione mortale dell’uomo”, cioè la morte, “la prova inconfutabile”, “l’irrefutabile cogenza” che “l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla” – con l’inaccettabile risultato che ciò che chiamo ‘destino’ “si scontra con il fatto che l’uomo muore” (Biagio de Giovanni, Disputa sul divenire Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, Napoli 2013, pp, 83-84, corsivo mio), sì che ad esser follia, alienazione non è l’affermazione del divenire, ma il destino.
Ho mostrato i presupposti arbitrari di questo tipo di obbiezioni sin da quando me le sono poste a metà degli anni ’60 (Cfr. Essenza del nichilismo, 1971, II ed., Adelphi, 1981). Richiamo qui la direzione complessiva della risposta che ad esse va data. Il destino della verità non nega ma è anzi l’apparire incontrovertibile della morte dell’uomo che muore, e di come muore, e del suo cadavere che resta dopo che la “vita” di quel corpo ha avuto compimento e non continua. Ma questo compimento e non continuare, che incontrovertibilmente appaiono (e ogni loro affermazione compiuta al di fuori del destino è solo fede, errare, ipotesi) non sono l’annientamento di ciò che ha avuto compimento e non continua. Testimoniando il destino, i miei scritti hanno ‘sempre’ negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che ‘questo’ andare e venire ‘ non è un “fatto”, come invece il linguaggio di de Giovanni afferma nel suo trovarsi inscritto nella fede dei “mortali” (il “mortale” essendo appunto chi ha questa fede e vive conformemente ad essa).
Infatti, cosa significa che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un “fatto”? Significa che ‘se ne fa esperienza’, cioè che si manifestano, appaiono, si mostrano, (E il destino mostra – anche qui rinvio ai miei scritti – ‘perché’ ciò che appare non può essere negato; il perchè che manca alla fenomenologia, nella quale questa innegabilità rimane un dogma). E’ incontrovertibile che appaia l’orrore della morte – che è sempre la morte altrui – e che, esso manifestandosi, si faccia esperienza della radicalità del processo (che i mortali chiamano “distruzione”, “annientamento”) nel quale, dopo la legna che brucia, appare la cenere e della legna appare solo il ricordo. (E ogni vivente e ogni cosa del mondo è legna che brucia).
Ma, detto questo, la convinzione dei mortali che la morte sia un andare nel nulla ‘non è, insieme’, convinzione (‘è impossibile’ che sia, insieme, convinzione) che l’uomo vada nel nulla ‘ma’ che, insieme, continui ad essere un “fatto” che appare e appartenga al contenuto dell’esperienza – che gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. E’ impossibile che il credere che le cose vanno nel nulla sia unito al credere che, ciononostante, esse, pur annullandosi e diventate nulla, continuino ad apparire come apparivano prima di annullarsi – continuino ad essere un “fatto”. Secondo la stessa convinzione che le cose vanno nel nulla, nell’esperienza può rimanere, sì, il ricordo di coloro che sono andati nel nulla (appare il loro ricordo; il ricordo è un “fatto”), ma non rimane, non continua a d apparire il “fatto” costituito dal loro esser stati vivi: non si fa più esperienza della loro vita annientata.
La convinzione, dunque, che la morte sia annientamento è insieme (necessariamente, anche se non sempre consapevolmente) la convinzione che – pur essendoci stata esperienza dell’agonia e del restare lì del cadavere – ciò che è diventato niente è diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, non è più un fatto. [ … ]
La conseguenza di quanto si è rilevato – ed è conseguenza che è innanzitutto il destino a trarre con necessità (anche se il mortale può a sua volta ‘credere’ che questa sia la conseguenza che deve essere tratta) – è che, dunque, è impossibile che l’esperienza mostri alcunché di ciò che, se è diventato nulla, è necessario che sia insieme uscito dall’esperienza. E’ impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza.
Ma se ciò che si crede che sia andato nel niente è insieme uscito dall’esperienza, allora è anche impossibile che l’esperienza mostri che esso è diventato niente. Della sua sorte l’esperienza non può che tacere: Cioè l’annientamento non può essere un “fatto”. se poi il cadavere viene bruciato e, come si dice, “diventa cenere”, allora anch’esso, ‘come tutta la vita passata di chi è morto’, che è vita altrui, esce dall’esperienza – sebbene ne rimamga il ricordo.
E, daccapo, che il cadavere stesso,diventando cenere, sia diventato niente, nemmeno questo può essere l’esperienza ad attestarlo: come essa attesta che prima appariva la vita altrui e poi è apparso il suo compimento,il suo non proseguire e il suo cadavere, così l’esperienza attesta che prima appariva il cadavere – o l’ultimo residuo di legna – e poi la cenere.
E quel compimento e non proseguimento non sono l’annientamento di ciò che è stato, ma il completamento dell’apparire di un certo’insieme’ di eventi (essenti) che è andato via via manifestandosi, e che è un passato non in quanto sia diventato niente, ma in quanto, appunto, è un che di completato, un ‘perfectum’. ( Ad esempio, la legna nel camino prima che la si accenda, quando incomincia a bruciare, quando è completamente avvolta dalle fiamme, quando appare più cenere che legna che brucia, quando appare solo la cenere sono l’ ‘insieme’ il cui apparire ha avuto compimento quando non appare più legna ma solo cenere – quando non appare più vita ma solo il cadavere).
Dunque la convinzione che la morte sia annientamento non ha come base il contenuto che si mostra nell’esperienza, ma, anche senza rendersene conto, si fonda su su costruzioni più o meno consistenti, più o meno complesse: costruzioni terico-concettuali, cioe ‘teorie’ costituite da interpretazioni, ipotesi, abitudini,fedi, inferenze, deduzioni e costrutti ìa priori’. Qualunque sia, il loro fondamento non è l’esperienza, l’apparire degli essenti.
Qui ci si limita a rilevare che nella misura in cui – nell’esser abitata, la terra, dall’uomo – è possibile parlare delle prime forme di esperienza umana, quando in esse il morire compare, ospite sconosciuto, i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni sconcertanti e orrende della morte dei loro simili. Restano colpiti dal prolungarsi dell’assenza della loro vita. Un po’ alla volta si abituano a constatare che i morti non ritornano, vivi, non seguono l’esempio del sole che invece si convince a risplendere di nuovo, dopo la notte. Anche e forse sopratutto su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimentarne l’annientamento osservandone il cadavere, i resti, le ceneri.
[ … ]
Da questi cenni (che andrebbero ben altrimenti esposti) si può trarre innanzitutto questa conclusione: che la sconcertante tesi che, al centro dei miei scritti, afferma l’eternità di ‘tutto’ ciò che esiste (di ogni cosa, stato, situazione, relazione, forma, materia, evento,istante, ogni essente che appare e non appare) ‘non’ è, come invece anche de Giovanni ritiene un “paradosso”, una follia che “si scontra” con l’esperienza, cioè “con il fatto che l’uomo muore”. Ma, ‘all’opposto’, a scontrarsi con l’esperienza sono coloro che – affermando la sua capacità di attestare l’annientamente degli uomini e delle cose – vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci.
( Il brano è tratto da: Emanuele Severino, Sul divenire Dialogo con Biagio de Giovanni, Mucchi Editore, Napoli2014, pp. 22-28).

IL PROBLEMA DEL FONDAMENTO, da Emanuele Severino, Educare al pensiero, La Scuola, Brescia 2012.Il libro è un’intervista di Sara Bignotti a Emanuele Severino, dalla bacheca Facebook di Vasco Ursini

(sottolineature mie)

IL PROBLEMA DEL FONDAMENTO
(da Emanuele Severino, Educare al pensiero, La Scuola, Brescia 2012.Il libro è un’intervista di Sara Bignotti a Emanuele Severino).

D. Ci approssimiamo al “fondamento” del suo discorso: cosa vuol dire che l’uomo è l’apparire del destino, in relazione all’autonegazione della negazione dell’esser sé dell’essente?

R. Il destino è l’apparire dell’esser sé; è l’essenza dell’uomo – ossia ‘non’ l’essenza ‘generica’, ma ciò che ‘ogni’ uomo da ultimo è – è appunto questo apparire. L’essenza dell’uomo è il destino.
Ma proviamo a chiarire il senso dell’autonegazione della negazione dell’esser sé. Non è possibile qui chiarirlo “concettualmente”. Qui si può indicare una metafora che metta sulla strada di un approfondimento adeguato. Supponiamo che ci sia un bersaglio, e che un arciere scagli una freccia contro il bersaglio. E supponiamo che accada questo: che la freccia, invece che colpire il bersaglio, colpisca se stessa. Se questo accadesse per tutte le frecce e per tutti gli arcieri che mirano contro il bersaglio, noi di quest’ultimo dovremmo dire che non può essere colpito da nessun arciere e che qualsiasi freccia che gli fosse scagliata avrebbe questa sorte, di non colpire il bersaglio, ma di colpire se stessa. Questo colpire se stessa è l’equivalente, nella metafora, di ciò che chiamo ‘autonegazione”. Nella metafora, il bersaglio corrisponde al destino. E la freccia è il corrispettivo, nella metafora, di ciò che chiamo ‘negazione del destino’ ( la freccia è una negazione del bersaglio, lo vuole colpire). Il destino soddisfa – ‘qui’ non possiamo dire ‘ciò che più conta’ ossia il ‘perché – la struttura di questa metafora, è ciò rispetto a cui ogni negazione è la freccia che colpisce se stessa, e quindi si toglie da sé, nega se stessa. Ciò significa che il destino è l’innegabile, l’incontrovertibile, ma in senso radicale per cui – qui è uno dei meriti intramontabili della filosofia in quanto evocatrice del senso inaudito ‘dello stare’ della verità – non ci può essere cambiamento di tempo, mutamento di costumi, non ci può esser alcun Dio che modifichi il bersaglio immacolato e intangibile, che riesca a trasformarlo, a farlo diventar alltro, a mostrarne la negabilità.

D. Il fondamento, appunto, è l’evidenza della verità…
R. E’ essenzialmente più che l’evidenza: è l’evidenza in ‘relazione’ all’autonegazione della sua negazione. Questo è il senso autentico del ‘fondamento’.
D. Il fondamento corrisponde a ciò che i filosofi antichi chiamavano principio primo o origine?

R. Ma riuscendo ad essere l’innegabile. Se vogliamo un’annotazione storica, è Aristotele che ha intravisto potentemente il fondamento, che lui chiama ‘Bebaiotàte arché’ (‘principium firmissimum’). […] Nella parola ‘bebaiotàte’ risuona la parola ‘epistéme’. Lo star fermo dell’ ‘epistéme. E’ anche Aristotele, con Platone, a trattare il principio in relazione alla “confutazione” (‘élenchos’) di coloro che intendono negare il principio (che per lui è ciò che poi verrà chiamato “principio di non contraddizione”. Anche il ‘cogito’ cartesiano guarda in questa direzione).

D. Dell’élenchos si ha appunto compiuta esposizione nel libro IV della Metafisica di Aristotele, un classico da lei commentato [Il principio di non contraddizione, La Scuola, 1975], su cui si sono formate generazioni di studenti. In che senso l’élenchos è modello di pensiero che non necessita di dimostrazione?

R. Ma prima di rispondere alla sua domanda, non è più opportuno mostrare l’ ‘aporia’ del discorso che introduce l’ ‘élenchos? Per la risposta alla sua domanda è meglio rinviare ai miei scritti. Vediamo l’aporia, dunque. Aristotele tende a indicare il principio come non bisognoso di ‘élenchos’ (che significa letteralmente la punta della lancia e per noi significa l’apparire dell’autonegazione del principio). Per Aristotele il principio è per sé ‘evidente’, e quindi egli è propenso a considerare la ‘bebaiotàte arché’ come non bisognosa dell’ ‘élenchos’, il quale apparterrebbe quindi alla “dialettica” e non al principio.
Ora, non basta parlare del destino, senza vedere il senso concreto della sua innegabilità. Non basta parlare del “principio di non contraddizione”, senza vedere il senso della sua innegabilità. Tale principio come semplicemente asserito è un dogma, una semplice “evidenza”. Ossia è un dogma affermare soltanto che è evidente. Come è dogma il semplice asserire che esiste il mondo. Quindi, affinché la ‘bebaiotàte arché’ non sia un dogma deve apparire in relazione all’ ‘éelenchos’, che in quanto determinazione del destino è l’apparire dell’esser sé, in quanto l’esser sé degli essenti è in relazione alla propria autonegantesi negazione. L’élenchos è l’apparire dell’autonegazione della negazione del destino).
Aristotele asserisce che è frutto di ignoranza non sapere di quali cose ci sia dimostrazione e di quali non possa esserci: se non si fosse “ignoranti”, si capirebbe che dimostrare significa ricondurre il ‘demonstrandum’ alla ‘bebaiotàte arché’, cioè vedere che la negazione del ‘demonstrandum’ implica la negazione della ‘bebaiotàte arché’. E allora, tenendo ferma questa annotazione, il principio di non contraddizione appare come ciò che non ha bisogno di nient’altro che del suo apparire perché debba essere accettato. Per Aristotele è sufficiente la sua “evidenza”.
‘Ma così si presenta appunto come un dogma’. Dunque è necessario il suo esser visto in relazione all’ ‘élenchos’, in cui appare l’impossibilità di negare l’evidenza. Ma allora, se la ‘bebaiotàte arché’ ha bisogno dell’ ‘élenchos’, che ne mostri l’innegabilità e il suo non aver bisogno di nient’altro che di se stessa, e se d’alta parte la ‘beaiotàte arché’ è il fondamento di ogni dimostrazione, allora si presenta un’ ‘aporia’ – che a mio avviso nella storia del pensiero filosofico non solo non è stata risolta, ma non è stata nemmeno mai vista- L’aporia è che il qualcosa che sta al fondamento di tutto il sapere può apparire come siffatto fondamento, solo in quanto tale qualcosa è in relazione all’ ‘élenchos, che dunque viene a presentarsi come una sorta di fondamento di ciò che dovrebbe essere il fondamento di tutto’. Se non si sa risolvere questa aporia, è aporetico anche parlare di ‘epistéme’, di verità, di destino…

D. La “confutazione”, esposta nel libro IV della Metafisica di Aristotele, è da lei così rigorizzata: l’élenchos è l’autonegazione della contraddizione?

E’ l’autonegazione della negazione del destino. Certo: qui ormai ci siamo lasciati alle spalle la separazione tra pensiero e cosa, perché dire che il destino è l’apparire dell’esser sé dell’essente implica – ma anche qui per una struttura concettuale che non possiamo esplicitare – che è impossibile un essente che non appaia.
(A questo punto, però, qualcuno potrebbe dire che se è impossibile che un essnte non appaia, allora si viene a dire che tutto coincide con quello che appare qui e ora. E invece no, a questo punto si tratterebbe di ricordare la necessità che l’Io del destino sia il cerchio ‘finito’ dell’apparire del destino, che implica con necessità la totalità infinita dell’apparire, che non coincide con la totalità che appare in tale cerchio, e nei cerchi dell’altrui esser uomo. Dovrebbe cioè farsi innanzi la figura dell’apparire infinito: l’eterno apparire infinito degli eterni).

D. Il cerchio finito implica l’apparire infinito, così come la nostra esistenza si libra tra finito e infinito. Cosa vuol dire che siamo finiti ed eterni al tempo stesso?

R. Poiché eterno è l’essente in quanto essente, eterno è anche il finito, ossia l’essente che non è la totalità degli essenti. L’Io del destino è la struttura originaria del finito, il cerchio che, accogliendo la terra, è perciò stesso finito. Nell’apparire infinito non sopraggiunge alcun eterno perché da sempre li contiene tutti.

SULL’ERRORE E L’ERRARE, alcuni momenti della conversazio e tra EMANUELE SEVERINO e un gruppo di giovani, svoltasi il 19 novembre1988, segnalato da Vasco Ursini

ALCUNI MOMENTI DELLA CONVERSAZIONE TRA EMANUELE SEVERINO E UN GRUPPO DI GIOVANI, SVOLTASI IL 19 NOVEMBRE 1988 ( LA SIGLA D. INDICA LA DOMANDA, LA SIGLA R. INDICA LA RISPOSTA DI SEVERINO).

D. La sua affermazione che “l’uomo è un errore” lascia presupporre un’antropologia “sbagliata”, relativa a un uomo come volontà di potenza che pensa se stessa. Ma, a meno che il superamento dell’errore non sia la sparizione dell’uomo, che tipo di antropologia si può pensare, in rapporto alla consapevolezza della verità?

R. Innanzitutto, non è l’individuo che testimonia, cioè pensa esplicitamente la verità. Se fosse l’individuo a testimoniare la verità, allora la testimonianza sarebbe per definizione individuale, cioè ridotta allo spazio, al tempo e ai limiti dell’individuo. Bisogna vedere l’errore del concetto che “Io vado verso la verità” e che “se mi va bene, a un certo momento la vedrò”. No! Perché se “Io” è, ad esempio, il sottoscritto, con questa struttura fisica determinata, allora sarebbe come dire che un occhio cieco può vedere la verità. Perché un occhio cieco? Appunto in quanto dominato dai condizionamenti che costituiscono l’individuo. L’apparire della verità non è la mia coscienza della verità. All’opposto: io sono uno dei contenuti che appaiono. Questo è il primo rilievo.
Poi, si parlava della differenza tra ‘chi’ agisce sapendo e ‘chi’ agisce non sapendo. Ma adesso non possiamo più dire così; perché non è che io “sappia” -. io, Emanuele Severino, – e gli altri non sappiano…No! Io e gli altri siamo individui. Quindi siamo forme che stanno all’interno dell’apparire – e dell’apparire in quanto tratto della verità. Formazioni finite, e errori. Io sono un errore come te, come lui… Non si può nemmeno pensare che la verità – come invece insegna tutta la tradizione dell’Occidente – abbia il compito di “illuminare” l’uomo.
Invece dobbiamo dire che lp’individuo è il ‘non’ illuminabile. Perché l’individuo è errore. Se ci si rende conto che l’individuo è errore, allora la verità non ha il compito di rendere verità l’errore.

D. Quindi è un errore irrimediabile…
R. E’ un errore, un aspetto dell’errore. E…
D. No, scusi se la interrompo: noi siamo abituati a pensare, quando si parla di errore, a un qualcosa di rimediabile attraverso una presa di coscienza…

R. Lei dice “errore” nel senso in cui diciamo per esempio ai nostri figli: hai commesso un errore, però puoi riscattarti, quindi rimediare…
Ma il tuo riscattarti non può far sì che l’errore che hai commesso non sia più un errore. Il tuo riscattarti è la tua capacità di non commettere più quell’errore. Ma l’errore, anche nel nostro comune modo di parlare, resta errore. A maggior ragione. se noi, invece che in termini morali, parliamo in termini logici: “1+1 = 3” non è riscqattabile (se si suppone che “1+1 = 2” sia una verità assoluta). La verità non può illuminare l’errore. La verità non fa uscire l’individuo dall’errore, perché l’errore è l’individuo. “Errore” è la persuasione che esista l’uomo (e l’individuo); cioè la persuasione che “Io esisto”.
Non ci si può dunque domandare quale è la differenza fra la mia soggettività “illuminata” dalla verità e la tua non illuminata; perché nessun “io” (individuo) è illuminato dalla verità. All’opposto, la verità include me, e te, e gli altri come conformazioni specifiche dell’errore – include l’errore consistente nella fede nell’esistenza dell’uomo.

D. Se io mi rendo conto che la mia presunzione di potenza è un errore, da questo momento sono per ciò stesso oltre l’errore, almeno in termini di consapevolezza. Ciò nonostante…
R. Non “io”… E’ la coscienza della verità ad essere oltre l’errore.
D. Forse questo è appunto il problema: questa coscienza per la quale la verità è, è coscienza di chi?

R. E’ un tratto della verità. La verità non è un atto soggettivo. Quindi siamo totalmente al di fuori del concetto, poniamo, aristotelico, cristiano, marxiano, che intende la coscienza come prodotto teorico dell’individuo. E’ contraddittorio che l’individuo sia cosciente della verità. L’apparire della verità non è un atto individuale, ma è il mostrarsi di ciò che appare. Quale mostrarsi? Quello di Dio? No: ‘questo’ mostrarsi. Il mostrarsi non è il mio atto di coscienza, perché il ‘mio’ atto di coscienza è esso stesso una delle cose che si mostrano. Perché diciamo: “Io esisto”? Perché appaio (perché appare l’errore in cui io consisto). Se non apparissi insieme alla libreria, al lampadario, alle stelle, non potrei dire che io esisto.
Si può affermare che “io esisto”, perché appaio. E mi mostro in quale luogo? In quel luogo dove è tutto cià che si mostra. E allora io non sono il lanternaio che ‘fa’ luce sui luoghi: la luce è luce che illumina i luoghi e io appartengo a uno di questi luoghi. L’apparire della verità non è la coscienza che “uno” ha della verità.

D. Allora è un nonsenso parlare di superamento dell’errore: l’errore è connaturato all’esistere come uomino.

R. Ma questo non vuol dire che l’errore non sia negato: l’errore appare da sempre come errore: Senza l’errore la verità non può essere negazione dell’errore: Dire che l’errore è connaturato all’uomo non vuol dire che l’errore è lasciato libero a se stesso, non giudicato, non visto come errore. No: l’errore è da sempre negato dalla verità. (Ciò che da sempre è negato dalla verità ha esso stesso una struttura complessa che include la persuasione di essere “uomo”). L’uomo non si porta oltre l’errore: è la verità che si lascia indietro l’uomo.

dal gruppo facebook Incontri con Emanuele Severino.

SULLA TECNICA, incontro con Emanuele Severino, 18 marzo 2015, al Collegio Borromeo di Pavia

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EMANUELE SEVERINO, Ripensare l’Europa, da Scenari / Mimesis edizioni

….

L’Europa è altresì destinata ad abbandonare le proprie radici cristiane, in quanto destinata ad abbandonare la “tradizione”. Per capire questo punto è necessario chiarire in cosa consista la tradizione e in che senso il Cristianesimo le appartenga essenzialmente. Per spiegarlo, bisogna ripartire dal concetto di niente evocato dai Greci. Evocando il niente, cioè la variazione del mondo come un uscire e un ritornare nel niente, i Greci evocano l’angoscia estrema. Sarebbe un errore attribuire all’esistenzialismo, a Kierkegaard o Heidegger, il concetto di angoscia per il nulla: sono i Greci ad evocare per primi il “mostro”, la nullità delle cose, per poi, come l’apprendista stregone, restare terrorizzati di fronte a ciò che essi stessi hanno evocato: la variazione del mondo come intrisa di nulla è uno spettacolo che scatena l’angoscia. La parola aristotelica thauma non va tradotta come «meraviglia» e «stupore», ma come «angoscia», «meraviglia angosciata», «terrore». Un terrore che deriva dalla nuova consapevolezza che la variazione delle cose è il loro morire e che l’istante appena trascorso è ormai nulla. L’uomo comincia a pensare la morte come annientamento, come un andare nel nulla, non più come a un viaggio da cui si può ritornare. Si tratta di una concezione essenzialmente diversa da quella precedente.

La tradizione che inizia con i Greci e arriva fino a Hegel, di fronte al pericolo estremo costituito dall’annientamento della vita, evoca un rimedio che nella sua configurazione più visibile e più nota viene chiamato «Dio», il «Sacro», l’«Eterno», l’«Immutabile», che protegge e contiene il divenire delle cose. Ma «dio» per i Greci, che non erano teologi, altro non era che il luogo in cui tutti i tratti di loro interesse venivano conservati: in fondo che cos’è «dio» se non il custode di tutto ciò che all’uomo interessa, colui che impedisce che un annientamento totale e irreversibile lo strappi a tutto ciò che ama e desidera? Questo è il quadro della tradizione: un senso eterno, divino del mondo che agisce da «rimedio», termine quest’ultimo usato da Eraclito ed Eschilo («saldi rimedi») di contro al pericolo estremo della morte. Questo processo, pur attraverso fasi varianti, ha questo tratto permanente, ossia la ricerca di un rimedio immutabile, di un senso immutabile del mondo, che in qualche modo anticipi il futuro eliminando l’angoscia legata all’imprevedibilità del futuro. Il terrore del niente che ci attende viene così lenito dall’esistenza di quel luogo divino che, contenendo tutto ciò che all’uomo interessa, anticipa il futuro.

A mostrare la fallibilità di questo “rimedio” all’angoscia legata alla scoperta del nulla, e di conseguenza a mostrare la necessità per l’Europa di abbandonare la tradizione e quindi il Cristianesimo, ci pensa il sottosuolo essenziale della filosofia contemporanea. Questo sottosuolo, creatosi negli ultimi duecento anni, ha pochi protagonisti ma molto significativi. Il primo, più noto, è Nietzsche; un altro, poco conosciuto fuori dall’Italia, è Giovanni Gentile. 

…. segue ….

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Scenari / Ripensare l’Europa.

begli INCONTRI INTERSOGGETTIVI su facebook: Volevo chiedere un consiglio: io sono un medico, so poco di filosofia. Ma adoro Severino; vorrei studiarlo: da dove cominciare?da quali opere?

Gentile dott Ferrario.
So che è un estimatore, come me, del prof Severino.
Volevo chiedere un consiglio: io sono un medico, so poco di filosofia.Ma adoro Severino; vorrei studiarlo: da dove cominciare?da quali opere?
e poi…so che molti libri sono stati pubblicati sul pensiero di E.S., ce ne è uno fra questi che può essere considerato introduttivo e propedeutico o esemplificativo?cioè qualcosa che aiuti a capire Severino e non un libro di “critica” intorno al suo pensiero?
grazie, con viva cordialità …
RISPONDO:
gentile andrea, sono davvero FELICE che un medico si interessi a emanuele severino. sono certo che le servirà per tutta la sua vita professionale fare i suoi personali pensieri sulla filosofia di severino. volevo anche dirle che pure io non sono uno specialista di filosofia. ho fatto altri studi ed altro lavoro nella mia vita. dunque siamo del tutto uguali. allora le consiglio di cominciare con la sua autobiografia IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI. cui accompagnare questa splendidas intervista https://antemp.com/2015/01/26/emanuele-severino-la-follia-dellangelo-a-cura-di-ines-testoni-mimesis-editore-2006/ infine le consiglio SOPRATTUTTO I VIDEO E GLI AUDIO di emanuele severino. in queste situazioni lui è molto più chiaro e colloquiale. qui troverà l’elenco di tutti quelli che ho raccolto in questi anni: https://antemp.com/category/autori/severino-emanuele/video-e-audio-di-emanuele-severino/. spero di averla aiutata nel suo spendido progetto di vita personale e professionale. saluti cordialissimi e a rileggerci
rileggo e vedo che lei mi chiede un LIBRO introduttivo. uno è quello della ines testoni. un altro che io trovo straordinariamente utile è LA STRADA http://www.bur.eu/libri/la-strada/. INFINE (MA PROPRIO INFINE) questa è stata per me la vera chiave introduttiva alla sua filosofia: https://antemp.com/2014/07/29/emanuele-severino-su-la-legna-e-la-cenere-1972-1983-1989-1995-1999-scheda-di-studio-a-cura-di-paolo-ferarrio-29-luglio-2014/

Gentilissimo Paolo, ti ringrazio per la risposta rapida e ricca di riferimenti! Son felice di condividere questa passione con te!
Ma tu che opere hai letto di Severino?
hai letto anche i libri difficili targati adelphi???
vorrei insomma che mi consigliassi proprio un percorso di studio.
La strada è stato molto utile per te? in che senso?
E gli audio-libri della mimesis sono utili?
E infine che opinione hai sui libri di Goggi e sui libri della Cusano?li hai letti?…
ci sono buone probabilità che un profano come me possa capire anche quei libri fondamentali tipo Destino della necessità,Oltrepassare,la Gloria ecc?

EMANUELE SEVERINO, Che cosa significa SALVEZZA

LA GUARIGIONEpag2 LA GUARIGIONEpag3 LA GUARIGIONEpag4 LA GUARIGIONEpag5 LA GUARIGIONEpag6 LA GUARIGIONEpag7 LA GUARIGIONEpag8

citazioni da: EMANUELE SEVERINO, Ma l’Occidente non ha perso, CORRIERE DELLA SERA, 10 gennaio 2015

Mappe nel Sistema dei Servizi alla Persona e alla Comunità

Inevitabile anche, in questa situazione, che si facciano avanti le forze che progettano di sfruttare a proprio vantaggio la volontà degli affamati di godere anch’essi dei beni esistenti sulla Terra. Ieri la maggiore di queste forze era l’Unione Sovietica. Con la sua fine, quel progetto è stato ereditato dall’Islam — che vede nel capitalismo e nella cultura dell’Occidente il male assoluto.

il mondo islamico (già di per sé ostile all’Occidente) è frammentato, sia perché non esiste una tensione tra esso e l’Occidente analoga a quella tra Usa e Urss: ancora non esiste il pericolo che l’estremismo, in questo caso islamico, abbia a rompere un equilibrio di potenza, in questo caso tra Islam e Occidente, determinando così la catastrofe nucleare.

Nel Medioevo la cultura cristiana e quella islamica crescono entrambe nel terreno della filosofia greca. Poi il cristianesimo, a differenza dell’Islam, si imbatte nella cultura moderna, che lo…

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Intervento di EMANUELE SEVERINO alla tavola rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano, da endlife.psy.unipd.it

Intervento di EMANUELE SEVERINO alla tavola rotonda Tavola Rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano, da endlife.psy.unipd.it

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International Conference Seeing beyond in facing death. Spirituality from sick body to salvation – Contents, care and relationships in different cultures VEDERE OLTRE. LA SPIRITUALITA’ DINANZI AL MORIRE: DAL CORPO MALATO ALLA SALVEZZA – CONTENUTI, CURA E ASPETTI RELAZIONALI NELLE DIVERSE CULTURA, Tavola Rotonda: Salvezza tra finitudine e eternità 25 September 2014 – Padova Centro Culturale San Gaetano; Via Altinate, 71, da endlife.psy.unipd.it

 

Alcuni concetti chiave della FILOSOFIA DI EMANUELE SEVERINO, ripresi da Stefano Bosio, Il poeta e il nulla. Emanuele Severino interprete di Leopardi, Cafoscarina, 2006, pagg.  6 e 7

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Emanuele Severino: “nel nostro tempo la filosofia continua a trasformare il mondo perché ha preparato il terreno in cui la tecnica può procedere senza più alcun limite alla dominazione delle cose”, in Liberal Numero 21 – Dicembre 2003/Gennaio 2004

Il senso assoluto del nulla e la morte come assoluto annientamento sono ignoti prima dei greci. La morte non è ancora pensata come annientamento (e nemmeno è pensato il dio vero della verità greca). Prima dei greci il senso della morte non è legato al nulla proprio perché prima dei greci è assente il senso radicale dell’opposizione dell’essere e del nulla. Quando nel primo versetto della Genesi si vuole scorgere la creazione del mondo dal nulla, si opera una violenza su un testo a cui è ancora estranea quella comprensione ontologica delle cose che si fa innanzi solo con la filosofia greca (supponendo che si possa parlare di una «filosofia» prima dei greci). Il pensiero dell’opposizione infinita tra l’essere e il nulla viene alla luce, nel popolo greco, insieme al pensiero che ci si possa salvare dall’annientamento, in cui la morte consiste, solo con la vera salvezza, quella che appare e si produce con l’apparire della verità. Nella verità si mostra il vero essere che è sempre salvo dal nulla e in cui l’uomo trova la salvezza di ciò che più gli sta a cuore. Ma a un certo momento questa grandiosa intuizione del mondo e dell’uomo crolla. Si mostra incapace di mantenere le proprie promesse. Essa domina l’intera tradizione dell’Occidente. Ne domina non solo i pensieri, ma anche le opere. La sentenza di Marx che sinora la filosofia ha contemplato il mondo e che ora si tratta di trasformarlo va rovesciata: dicendo che sinora la filosofia – sia quella della tradizione, sia quella del nostro tempo, che porta la tradizione al tramonto – ha trasformato il mondo, ma che rimane ancora da comprenderlo. Nella tradizione dell’Occidente la filosofia ha trasformato il mondo perché i pensieri e le opere dell’Occidente sono cresciuti all’interno del senso che i greci hanno assegnato alla verità; nel nostro tempo la filosofia continua a trasformare il mondo perché ha preparato il terreno in cui la tecnica può procedere senza più alcun limite alla dominazione delle cose. 

tutto il saggio qui: Solo l’eternità non è un’illusione.

L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi, Emanuele Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24

“Se la civiltà occidentale vuol essere coerente alla propria essenza, deve riconoscere che la propria filosofia è la filosofia di Leopardi. L’autentica filosofia dell’Occidente, nella sua essenza e nel suo più rigoroso e potente sviluppo, è la filosofia di Leopardi. […] Raramente il pensiero occidentale si porta ad una trasparenza eguagliabile a quella che si manifesta attraverso il linguaggio di Leopardi. Si tratta della trasparenza del linguaggio che esprime ciò che per l’Occidente è l’evidenza suprema: l’esistenza del divenire, cioè dello scaturire dal nulla e del ritornarvi, da parte delle cose esistenti. Questa trasparenza estrema mostra la grandezza estrema del pensiero di Leopardi e, insieme, la fedeltà estrema di questo pensiero all’essenza dell’Occidente.”

[E. Severino, “Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, BUR, pp. 7-24]

risposta ai “critici” di Emanuele Severino: dissertatazione su Spinoza, di alexandro23

In genere sembrerebbe esserci una certa unanimità nel giudicare della grandezza di Severino, ma si è tentati di dire che – nonostante alcune eccezioni – le cose non stiano esattamente così.

La sua filosofia è ritenuta una sorta di monolite impenetrabile, imponente, certamente affascinante, ma sostanzialmente “inutile” ai fini della vita : le sue difficoltà, le sue incongruenze, la sua liquidità. Prendiamo Galimberti: numerosissime le citazioni dell’opera di Severino che compaiono sui suoi libri – specie in relazione all’argomento Tecnica -, ma totalmente assenti, o quasi, i riferimenti all’ontologia severiniana. Troppo rischiosa per la sua “filosofia del viandante”…

L’ontologia severiniana è radicalmente alternativa nella storia della filosofia occidentale, e in considerazione di questo fatto è curioso notare alcuni degli atteggiamenti più ricorrenti coi quali ci si accosta al suo pensiero – apparentemente diversi, ma in realtà tutti accomunati dallo stesso intento.

Generalmente la si semplifica, la si fraintende, la si ignora oppure non le si riconosce alcuna originalità: “Non è la prima volta nella storia del pensiero filosofico che si affermano determinate cose” , dicono alcuni…sic. Ed allora ci si pone alla ricerca di altri sistemi filosofici nei quali sono rintracciabili elementi che consentano di accostarsi alla sua filosofia (accostamenti che, il più delle volte, evitano di soffermarsi sui fondamenti in base ai quali tesi apparenti simili vengono sostenute). Il tentativo è chiaro: depotenziare la carica rivoluzionaria dell’ontologia severiniana e ricondurla al già noto, al familiare. L’ennesimo riferimento alla filosofia di Spinoza soggiace a questa logica.Sono realmente ridicoli i continui ritorni da parte di critici (o pseudo-critici) e intervistatori vari sui medesimi temi – quasi che non fossero state già sufficientemente esaustivi i numerosi scritti, le spiegazioni e delucidazioni che il filosofo bresciano ha espresso più volte in tutte le salse.
Ed allora, ecco per l’ennesima volta l’accostamento a Spinoza…
La domanda mi sorge spontanea: questa gente li legge i suoi libri?
Vi pare che si parli di Divenire? Della contraddizione insita nel concetto di divenir altro? Vi pare che si formulino reali obiezioni al suo pensiero capaci di scardinarne le basi? Si dice: “All’interno del suo sistema tutto pare tornare…” Ma si è totalmente incapaci di colpire realmente il suo sistema esponendo qualcosa di alternativo, anche perchè si parte da un presupposto che non ci si sogna neppure di mettere in questione: il divenire delle cose. Si parte da una fede, e partendo da quella fede indiscussa non si è comunque capaci di argomentare razionalmente alle stoccate del pensiero severiniano. Allora ci si rifugia nell’inconscio, nel metarazionale (altro gigantesco pregiudizio), nell’Altro… Inoltre vi pare che la filosofia di Severino proceda disinteressandosi di ciò che è finora apparso lungo la storia del pensiero filosofico occidentale? La sua è sempre stata una filosofia in continuo dialogo con i grandi della Storia, non un sistema chiuso in se che eviti sistematicamente ogni confronto. Semmai è vero il contrario!

Diamo una rapida occhiata ad alcuni passaggi dell’Etica di Spinoza:

Etica, De Deo, 1° Definizione del Dio-Sostanza: Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente. (Come in Tommaso, ad esempio)

PROPOSIZIONE XXIV: L’essenza delle cose PRODOTTE da Dio NON IMPLICA l’esistenza.
Corollario.
Da ciò deriva che Dio non solo è CAUSA per cui le cose COMINCIANO A ESISTERE, ma anche per cui continuano ad esistere, cioè (per usare un termine scolastico) E’ CAUSA ESSENDI DELLE COSE. Infatti SIA CHE LE COSE ESISTANO, SIA CHE NON ESISTANO, ogni volta che consideriamo la loro ESSENZA, troviamo che essa NON IMPLICA NE’ L’ ESISTENZA NE’ LA DURATA.

Spinoza contraddittoriamente per un verso fa derivare tutto dalla Sostanza:
PROPOSIZIONE XVIII.
Dio è causa immanente, e non transitiva, di tutte le cose.

ma poi sostiene che l’Infinito (Sostanza, Attributi e Modi) genera l’infinito e il Finito genera il Finito
creando un insostenibile dualismo all’interno del suo monismo metafisico:

PROPOSIZIONE XXIII.
Ogni modo che esiste necessariamente ed è infinito deve per forza essere derivato o dall’assoluta natura di un attributo di Dio, o da un attributo modificato da una modificazione che esiste necessariamente ed è infinita.

PROPOSIZIONE XXVIII.
Una qualunque cosa singola, cioè qualsiasi cosa finita che abbia una esistenza determinata, non può esistere né essere determinata a operare se non è determinata ad esistere e a operare da un’altra causa anch’essa finita e dotata di un’esistenza determinata: a sua volta questa causa non può esistere né essere determinata a operare se non è determinata ad esistere e a operare da un’altra causa, anch’essa finita e dotata di una esistenza determinata, e così via all’infinito.

Un sistema dal quale il Finito non è sostanzialmente deducibile: da una parte “l’Ente sempre salvo dal nulla” e dall’altra gli enti contingenti. Sennonché si deve pur render conto di questi, non foss’altro che ci sono, appaiono. Ed allora cominciano le ambiguità da parte di Spinoza:

PROPOSIZIONE XXIX.
NELLA NATURA NON VI E’ NULLA DI CONTINGENTE, ma tutte le cose sono determinate dalla necessità della divina natura ad esistere e a operare.

Come conciliare l’affermazione secondo la quale tutto procede sotto il segno della necessità, ma allo stesso tempo ritenere che vi sono degli enti (i modi finiti) per i quali l’essenza non implica l’esistenza? (Degli enti originati dal nulla e destinati a ritornare nel nulla).
Se la necessità implica l’eternità: se è necessità che un ente esista, è assolutamente contraddittorio affermarne la contingenza; ossia la possibilità della sua non esistenza. Se è necessario che esista, è necessario riconoscerne l’eternità.

Se la relazione tra Infinito e Finito è necessaria, è anche eterna – non può sopraggiungere a un dato momento costituendosi come necessaria considerando che il legame scaturirebbe dal nulla.

Fondandosi sul presupposto incondizionatamente accettato fin dagli albori della filosofia,
che interpreta gli enti mondani come contingenti e provenienti da nulla, anche Spinoza è incapace di giustificare l’esistenza dei “modi finiti” all’interno di un sistema che, all’insegna del più radicale monismo, intende far derivare dal Dio-Sostanza la totalità dell’esistente attraverso la costituzione di nessi necessari.
Ancora una volta il tentativo di conciliare Ragione ed Esperienza, Mondo e Dio fallisce ed è destinato a fallire perché si fonda sul medesimo terreno che accomuna tutta la filosofia occidentale: l’evidenza del divenir altro degli enti.
Il tentativo spinoziano di tenere insieme il divenire degli enti e la necessità di tale accadimento è l’impossibile tentativo di conciliare Divenire e Determinismo.
Ciò chiama in causa anche il concetto essenzialmente autocontraddittorio di creazione: esplicitamente è l’espressione di un legame tra Creatore e Creatura, ma che implicitamente viene ad essere esclusa. Perché? Ma perché è una relazione tra due termini assolutamente irrelati: il Nulla e L’Essere.
Il concetto di creazione/produzione implica una relazione tra due elementi laddove ne è presente uno solo, perché l’altro è nulla. Creazione significa legame, risultato di una relazione tra due elementi che vengono pensati come originariamente irrelati. Se la creatura preesiste nell’Archè (relazione originaria), allora l’ente è già presente e non si genera; ma se è nulla (e se si genera lo deve pur essere), allora la separazione tra l’Originante e l’Originato è assoluta e non può stabilirsi alcun legame tra essi. Impossibilità della creazione.

Ed infatti, lo stesso Spinoza, sembra rendersi implicitamente conto di ciò quando afferma:
De Deo, DEFINIZIONI V
Le cose che non hanno niente in comune fra loro non possono essere comprese l’una per mezzo dell’altra, ossia il concetto dell’una non implica il concetto dell’altra.

Non ci resta che attendere l’ennesimo accostamento tra la filosofia di Spinoza e il monolitico e, tutto sommato, non originale Severino…

Potremmo dire la stessa cosa in riferimento al fenomenale lavoro effettuato da Severino sul pensiero di Nietzsche: in un colpo solo ha spazzato via quelle ridicole interpretazioni psicologistiche, incongruenti o addomesticate che del pensiero del grande Nietzsche erano apparse fino al suo Anello del ritorno…Vi pare sia servito a qualcosa? Testardamente si ripropongono le solite riserve relative alla lettura severiniana di Nietzsche, senza tuttavia che si sia capaci di fornire una visione alternativa e altrettanto valida.
Qui si tira in ballo perfino l’inconscio di Nietzsche…sic.

E’ errato considerare il superuomo come un individuo. Il superuomo ha un carattere trascendentale, nonostante sia lo stesso Nietzsche in alcuni punti della sua opera ad attardarsi implicitamente e incoerentemente su delle forme di realismo naturalistico.

“Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, (…) che non si consuma, ma solo si trasforma…
Questo mondo è la volontà di potenza – e nient’altro! E anche VOI siete QUESTA volontà di potenza – e nient’altro” (Volontà di potenza. 1067)

“Il carattere complessivo del mondo è invece caos per tutta l’eternità”(Gaia scienza – 109)
“Noi siamo soltanto incarnazione, soltanto strumento sonoro, soltanto medium di poteri che ci sovrastano.”(Ecce homo)
Relativamente al superuomo, scrive Nietzsche: “Concepisce la realtà come essa è..”. Ed ancora: “Non è estraniato da essa, non è separato da essa, contiene in sé tutto ciò che è problematico…”.
“La verità è in me” = identità di superuomo e verità.
Il superuomo è il Tutto, la Verità, Dio:”L’unica possibilità di conservare un senso al concetto di “Dio” sarebbe questa: intenderlo non come forza propulsiva, ma come STATO MASSIMO, come UN’EPOCA – un punto nello sviluppo della volontà di potenza…” (Volontà di potenza 639).
Lo stato massimo rappresenta il suo esser giunta alla piena consapevolezza di sé da parte della verità del divenire in quanto volontà di potenza. Non è un discorso che riguardi le sole élites come si continua a sostenere. Zarathustra non rappresenta quel compimento trattandosi di un singolo individuo; e neppure lo sono quei pochi isolati apostoli:”i più nascosti”, gli “uomini della mezzanotte”. Dioniso è il manifestarsi di un Epoca, nella quale sarà l’umanità intera, oltrepassandosi, a rivelarsi superumanità.” Chi è colui che un giorno non potrà non venire?”, si chiede Zarathustra riferendosi al destinale avvento di Dioniso: ” Spirito che regge il mondo, un destino” (Ecce homo). Volontà di potenza, Dioniso, Caos, Superuomo sono dei sinonomi per indicare l’orizzonte trascendentale ed eterno della totalità dell’essere.
Dioniso è infatti “l’Uno primigenio” (Nascita della tragedia), l’orizzonte trascendentale proprio perché “si frantuma nella singolarità” (La visione dionisiaca del mondo). E’ inoltre chiaro che l’affermazione: “Ma ciò che è reale, ciò che è vero, non è né unitario, né riducibile all’unità” (Volontà di potenza 536), non la si deve intendere trascendentalmente, ma relativamente alla verità della tradizione. (Diversamente si ridurrebbe il pensiero di Nietzsche ad una forma di banale scetticismo relativistico). “E’ mia intenzione mostrare l’assoluta omogeneità in tutto ciò che avviene…” (VdP 272). “Se la natura intima dell’essere è volontà di potenza (…) la creatura ha bisogno di contrasti, di resistenze, quindi, correlativamente, di unità che l’aggrediscano..”(VP 693). “La volontà di potenza può manifestarsi solo quando incontra resistenze” VP 656). Se la volontà di potenza è l’essenza del Tutto (fuori della quale non vi è nulla), la ricerca di sè da parte della Volontà non ha un carattere empirico da cercarsi in una realtà altra, ma è lo stesso venire a sè della Verità delle cose – questo attraverso l’oltrepassamento delle forme incoerenti degli eterni manifestatisi lungo la storia dell’Occidente: Dio, le Idee di Platone, ecc. “…la stessa moralità è una forma dell’immoralità. Le cose sono liberate dalla contraddizione, è salvata l’OMOGENEITA’ di tutto ciò che accade” (VP 308).

 

(tratto da un commento a questo post:

https://antemp.com/2014/08/01/colloquio-con-emanuele-severino-di-saverio-mariani-e-andrea-cimarelli-da-ritiri-filosofici/)

Emanuele Severino, LA TECNICA DA MEZZO DIVENTA FINE, intervista a Maurizio Assalto. La Stampa, 30 luglio 2014

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Emanuele Severino su alcuni concetti per i quali ha elaborato l’immagine della LEGNA E LA CENERE, 1972, 1983, 1989, 1995, 1999, 2001. Scheda di studio a cura di Paolo Ferrario, 29 luglio 2014

Qui la scheda in formato pdf

PREMESSE (per punti chiave e per tentativo di comprensione):

  • Essenza del nichilismo (1972)
    • La storia della filosofia occidentale è la vicenda dell’alterazione e quindi della dimenticanza del senso dell’essere, inizialmente intravisto dal più antico pensiero dei greci [Parmenide].
    • Parmenide 1. L’essere è uno; 2. L’essere è eterno; 3. L’essere è continuo; 4. L’essere è indivisibile e non composto di parti; 5. L’essere è immobile; 6. L’essere non è soggetto a nascita o corruzione.
    • E in questa vicenda la storia della metafisica è il luogo ove l’alterazione e la dimenticanza si fanno più difficili a scoprirsi: proprio perché la metafisica si propone esplicitamente di svelare l’autentico senso dell’essere, e quindi richiama ed esaurisce l’attenzione sulle plausibilità con cui il senso alterato si impone.

 

  •  La strada (1983)
    • la follia estrema è la persuasione che le cose – cioè gli enti, i non-niente- siano niente
    • “Ente” (“essente”) significa “ciò che è”
    • il destino sta
    • Eterno non significa “immortale”
    • Nessuna cosa è “creatura” e nessuna è un “creatore”
    • Noi siamo la Gioia. Noi, i mortali.  I mortali sono la Gioia del Tutto, ma credono di essere mortali
    • per conoscere la sorte del sole dopo il tramonto occorrono delle teorie. di queste teorie è dominante quella che afferma che, incenerendosi, la legna è diventata niente

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  • La filosofia futura (1989)
    • Tutto è eterno significa che ogni momento della realtà è.  ossia non esce e non ritorna nel nulla; significa che anche alle cose e alle vicende più umili e impalpabili compete il trionfo che si è soliti riservare a Dio.
    • Eterno ogni nostro sentimento e pensiero, ogni forma e sfumatura del mondo, ogni gesto degli uomini.
    • E anche tutto ciò che appare in ogni giorno e in ogni istante: il primo fuoco acceso dall’uomo, il pianto di Gesù appena nato, l’oscillare della lampada davanti agli occhi di Galileo, Hiroshima viva ed il suo cadavere.
    • Eterni ogni speranza ed ogni istante del mondo, con tutti i contenuti che stanno nell’istante, eterna la coscienza che vede le cose e la loro eternità e vede la follia della persuasione che le cose escano dal niente e vi ritornino – la follia che domina il mondo.
    • Eterna anche questa follia; e il suo esser già da sempre oltrepassata nella verità e nella gioia”
    • Eterno è ogni essente, eterno è l’apaprire di ogni essente, eterno è ogni legame, ogni relazione, ogni istante, ogni sopraggiungere, ogni dileguare
    • è impossibile che uno creda, ad un tempo, che la stessa cosa sia e non sia

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  •  Tautotes (1995)
    • l’incominciare ad essere della venere è qualcosa di diverso dal diventare cenere da parte della legna
    • per la scienza la combustione della legna è trasformazione di una certa quantità di energia. nel modo di pensare della scienza non si può dire che la legna è diventata cenere. Ma si deve dire che la legna è diventata un insieme di nuove forme di energia
    • la legna non diventa cenere: non c’è l’identità dei diversi. A non può essere Non A, cioè B
    • è sempre il qualcosa, e non il nulla, a diventare altro
    • per pensare che la legna è diventata cenere è necessario pensare la relazione tra legna e cenere. Ogni essente è legato ad ogni altro essente da un nesso necessario
    • inteso come divenir altro , il divenire è impossibile. E’ nulla
    • l’esser sè dell’essente (identità dell’essente) è l’esser sè di ogni essente
    • E’ impossibile che l’essente sia nulla e quindi esca e ritorni nel nulla: ogni essente è eterno
    • necessario ed eterno è il nesso tra ogni essente e il suo non essere tutto ciò che è altro da esso
    • il non isolamento del qualcosa (A, “soggetto”) dal qualcosa (A,B; “predicato”) che esso è implica il loro nesso necessario e l’eternità del loro nesso
    • Necessario ed eterno è il nesso tra ogni essente e il suo non essere tutto ciò che altro è da esso
    • la totalità dell’apparire è l’apparire del divenire, in quanto comparire dell’eterno
    • quando un essente incomincia ad apparire, incomincia ad apparire quell’eterno che è questo stesso incominciante

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  • La legna e la cenere (1999)
    • il nichilismo, nella sua essenza è credere che gli essenti escano dal niente e vi ritornino. Questa persuasione è la persuasione che gli essenti sono niente
    • il “destino” è lo stare che, a differenza dell’epistéme, riesce a non essere tolto dalla negazione di esso
    • l’eternità dell’essente, che appare nello sguardo del destino, non è una fede: essa è proprio la non fede, lo stare dell’innegabilità del destino
    • legna e cenere, lampada: il prima continua ad apparire anche quando appare il poi: appunto perchè, altrimenti, il poi non potrebbe apparire come poi – visto che appare come poi in relazione al prima
    • la “Gioia” è l’inconscio della struttura originaria del destino. Cioè “noi” (ossia l’essenza del nostro esser-uomo) siamo la Gioia (siamo la struttura totale del destino)
    • è impossibile che l’essente sia niente (o che l’essente sia altro da sè)
    • il progressivo apparire è il permanere della identità: il suo permanere nell’apparire

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  • Il mio ricordo degli eterni (2011)
    • Si cerca un riparo, quando si crede di essere un luogo in cui le cose si intrattengono un poco e subito diventano altro, si trasformano e la trasformazione è l’andarsene via delle vecchie cose che, appunto, se ne vanno via e non tornano più, per lasciare il posto alle nuove, che a loro volta subiranno la stessa sorte.
    • È inevitabile che, da che nasce, l’uomo avverta come prioritario l’andare alla ricerca di un Rimedio, di un Riparo che gli consenta di sopportare o addirittura di vincere l’angoscia, la sofferenza, la morte.
    • Lo scopo essenziale, fondamentale di ogni forma di civiltà e di cultura è il continuo potenziamento del Riparo.
    • Siamo destinati a una Gioia infinitamente più intensa di quella che le religioni e le sapienze di questo mondo promettono. E’ necessario che quella luce risplenda e illumini qualcosa di infinitamente più alto di Dio. Non è chiesta: è il nostro destino. E non riposeremo «in pace». In pace riposano i cadaveri. Lasciandosi alle spalle il dolore e la morte, quella luce mostrerà all’infinito una Gioia sempre più infinita.
    • Non c’è nessuno che non sia più. Tutto è eterno. È vero che ricordare è sognare; ma anche i sogni e ciò che essi mostrano sono eterni. Anche l’errare, la contraddizione, la stessa follia del nichilismo sono eterni. Eterno è tutto il contenuto dei nostri ricordi, anche se grigio, dis-
    • L’essenza del nichilismo è pensare che le cose vengono dal nulla e vi ritornano. Questo pensiero implica che si creda che gli esseri (ossia ciò che non è nulla) siano nulla. E questa è l’impossibilità estrema. Appunto per questo i nostri morti ci attendono, come le stelle del cielo attendono che passino la notte e la nostra incapacità di vederle se non al buio.
    • Ciò che se ne va scompare per un poco. I morti che se ne vanno scompaiono per un tempo maggiore. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare. Ogni cosa può dire: «Ancora un poco e non mi vedrete; e un poco ancora e tornerete a vedermi, perché vado al Padre»; «E nessuno toglierà via da voi la vostra gioia».
    • L’«uomo», in quanto «uomo», è un aver fede. O anche volontà, e la volontà è fede; non è una causa che, facendo diventar altro le cose, riesca a ottenere che qualcosa divenga e quindi sia altro da sé.
    • Noi non siamo soltanto un esser «uomo»: già da sempre siamo oltre l’uomo – in un senso abissalmente diverso dal «superuomo» di Nietzsche, che incarna la forma suprema della volontà, cioè della fede, cioè della Follia.
    • Ognuno di Noi è l’eterno apparire del destino. Ciò in cui credo è dunque il mio esser «uomo» a crederlo e a ricordare i vari modi in cui sono stato credente e lo sono tuttora.
    • La grande veglia è ciò che chiamo «destino della necessità» o «destino della verità», o, semplicemente, «destino». La parola destino indica lo stare: lo stare assolutamente incondizionato.
    • Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia è l’apparire della verità incontrovertibile; e questo stesso apparire appartiene alla dimensione dell’incontrovertibile. Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino.
    • Al centro di ciò che non può essere in alcun modo negato sta l’impossibilità che un qualsiasi essente sia stato un nulla e torni ad esserlo. Questa impossibilità è la necessità che ogni essente sia eterno.
    • Nella sua essenza, ogni uomo è l’eterno apparire del destino; e nel cerchio del destino, in cui l’essenza dell’uomo consiste, va via via apparendo la manifestazione del mondo, cioè il grande sogno che include anche questo esser uomo che sono io e che sta scrivendo intorno ai propri ricordi.
    • Come ogni altra, anche questa autobiografia appartiene a quel sogno. L’io del sogno è il narrante. L’Io del destino guarda il narrante e la narrazione. Poi ci sarà il risveglio

 

La filosofia, condizione della potenza della tecnica, intervista a EMANUELE SEVERINO di Romolo Paradiso, da Elementi numero 32, 2014

Un caffè con…
Emanuele Severino*

*Filosofo, scrittore, docente universitario,
accademico dei Lincei

La filosofia, condizione della potenza della tecnica



Emanuele Severino

di Romolo Paradiso

E’ considerato il fondatore del neoparmenidismo. Nella sua concezione filosofica l’essere non può finire nel nulla, perché eterno. La visione del nichilismo da lui intesa ha fatto scuola. Giustifica la condizione di subordinanza odierna dell’uomo alla tecnica come conseguenza della forza e dell’attualità della filosofia. Una condizione, a suo modo di intendere, irreversibile. Una “follia” di questi tempi, dice, destinata a durare negli anni. E quanto a Dio, come è comunemente inteso, nel suo pensiero non c’è posto. Stiamo parlando di Emanuele Severino, uno dei pensatori di spicco nel quadro filosofico della modernità.

Prof. Severino, perché la filosofia dovrebbe essere di grande attualità?

Fin dall’inizio della civiltà occidentale la filosofia porta alla luce i significati di fondo entro i quali si sviluppa ogni forma del pensiero e dell’agire umani. Il concetto di essere, di nulla, di divenire, di ente, di causa, di relazione e così via, restano definitivamente alla base di ciò che si andrà sviluppando come storia dell’occidente. Questo vuol dire che la dimensione aperta dal filosofare è sempre presente. E’ la circolazione sanguigna che ci tiene in vita, anche inconsapevolmente. Soprattutto la filosofia ha posto alla base del pensiero occidentale una determinazione di fondo: cioè che la trasformazione delle cose è il loro provenire dal nulla e andare nel nulla. Una cosa si trasforma se perde parte di ciò che essa è. Tale perdita vuol dire annullamento. Il concetto della trasformazione delle cose sostiene ogni ambito della cultura e della prassi della nostra civiltà. E’ l’aria che respiriamo e senza la quale non muoveremo un passo.

Il filosofare quindi chiarisce come tale trasformazione abbia senso solo se intesa come il non esser più e non essere ancora da parte delle cose del mondo, uomo compreso?

Questo è un primo significato di “attualità” della filosofia. Ma c’è un secondo aspetto che ci riguarda più da vicino. E’ quello per il quale la civiltà dell’occidente sta diventando la civiltà della tecnica. La tecnica tende a dominare forme di azione e di pensiero che sono apparse via via lungo la strada dell’occidente. Il cristianesimo, l’umanesimo, il comunismo e il capitalismo stesso, hanno inteso o intendono servirsi della tecnica per incrementare la loro forza. Il capitalismo si serve dell’operare tecnologico per incrementare il profitto. Il cristianesimo capisce che non può più svolgere un’attività di carità planetaria, senza un’organizzazione tecnica della carità.


 La tecnica prospetta il suo
dominio sull’universo


Quindi, la conflittualità esistente tra queste forze fa sì che ognuna, per prevalere sull’altra, usi proprio la potenza della tecnica?

Esatto. Ma ancora, tale progressivo rafforzamento della tecnica fa sì che si riduca lo spazio disponibile per lo scopo che ognuna di queste forze intende raggiungere. Si sta arrivando a un punto in cui non si userà più la tecnica per realizzare un incremento indefinito del capitale, ma si userà il capitale per un incremento infinito delle potenzialità tecnologiche. In questa situazione la tecnica prospetta l’universo intero come dominabile da essa. Significa che la tecnica, rafforzando la propria potenza, non considera più come limiti invalicabili i valori proposti dalle forze tradizionali che intendono servirsi della tecnica. Essa progettando il dominio del mondo è convinta che non esista alcun limite al progressivo allargamento del regno da lei instaurato. Nella tradizione dell’occidente il limite di tutti i limiti è Dio. Ora, perché la tecnica possa operare incondizionatamente è necessario che alcun limite si possa frapporre a essa, Dio compreso. Certo, non si può dimostrare scientificamente che Dio è morto, occorre un sapere che dimostri l’inevitabilità della morte di Dio, e tale sapere ce lo offre proprio la filosofia degli ultimi due secoli, che aveva dichiarato la necessità della morte di Dio.

Significa che la tecnica può progettare il dominio totale solo se ascolta la voce della filosofia del nostro tempo.

L’attualità della filosofia è data dall’essere la condizione della potenza reale della tecnica. Ciò smentisce quanti sostengono che la filosofia sia una scienza astratta che non ha nulla a che vedere con i processi del mondo reale.

Ma al contempo, così come la filosofia offre alla tecnica argomenti per credere nella propria forza e nella capacità di dominio sulle cose, può, per inverso, offrire all’uomo le prospettive, le condizioni e i valori necessari per non essere dominato dalla tecnica, ma esserne il dominatore.

Se l’uomo pensa di progettare un mondo che non sia il mondo che la tecnica intende controllare totalmente, quest’uomo è l’uomo ideologico appartenente a quelle ideologie che abbiamo visto destinate a essere travolte dalla tecnica. L’aver mostrato il senso della radicale attualità della filosofia, non vuol dire che quanto la filosofia ha manifestato lungo la strada dell’occidente sia la verità. Anzi. La filosofia, proprio per essere stata estremamente utile, ci mette in guardia dal credere che l’utilità sia verità. La filosofia è attuale e anche utile, ma è l’utilità di Lucifero, che è il portatore di luce ma anche il negativo assoluto. Il concetto che la filosofia è l’attualità assoluta è anche la follia del filosofare, che è diventata la follia della nostra civiltà.

La follia di divinizzare la tecnica…

Dio è il primo tecnico. La tecnica è l’ultimo dio. L’uomo prima evoca Dio per essere salvato. Dio è lo strumento di cui l’uomo si serve per essere salvato. Ma se si rende conto che lo strumento per essere salvato non è potente, allora ha la necessità di potenziare lo strumento. Che si riconosca a Dio la funzione di non essere semplice strumento per la felicità o la salvezza dell’uomo, fa sì che l’uomo capisce che per salvarsi deve dire a Dio: “sia fatta la tua volontà”. Se l’uomo dice: no, Dio, salvami per fare la mia volontà, non potrà essere salvo. Analogamente, l’uomo oggi dice alla tecnica: “salvami, perché ho bisogno di te per vivere, per vivere bene, per fare tutto ciò che voglio”.

Anche qui si riproduce la situazione precedente.

Chiaro. Se cioè la tecnica è uno strumento che deve servire all’uomo per salvarsi, ciò può accadere unicamente se lo strumento è sempre più rafforzato. Quindi, solo se l’uomo non dice più alla tecnica: “rafforzati per fare la mia volontà di essere salvo”, ma chiede a essa quello che chiedeva a Dio, cioè: “sia fatta la tua volontà”. Non possiamo più considerare l’uomo come l’avente il diritto di essere il padrone della tecnica, ma è la tecnica che ha il diritto d’essere padrona dell’uomo. Con i mezzi che oggi abbiamo a disposizione non possiamo dire alla tecnica: fermati perché io ho le mie esigenze”. Rimane un’illusione.

Non siamo messi proprio bene…

Indubbiamente, ma questa è la storia dell’occidente. L’esigenza dell’individuo passa in secondo piano rispetto a quella della tecnica, che in questo momento, e non solo in questo momento, è destinata ad avere il sopravvento su tutto.

 Il problema del nulla


E alle potenzialità della tecnica l’uomo demanda il superamento del nulla.

La tecnica è la forma più radicale di trasformazione del mondo, portata alla luce dalla filosofia. Non è un concetto astratto, perché prima del filosofare non si è ancora in rapporto al nulla e l’uomo vive la propria morte in modo del tutto diverso da quando incomincia a viverla pensando che essa sia annullamento. Tanto è vero che nel tempo del mito i morti vanno via ma tornano e anche i vivi temono il ritorno dei morti e tendono a farseli amici. La morte non è vissuta come la chiusura definitiva dei conti, determinata dall’annientamento della vita. Quando il clima filosofico inizia a espandersi e il tema del nulla a presentarsi in ogni campo dell’attività dell’uomo, questo pensa che la morte sia la fine del tutto. Tale pensiero fa sì che l’uomo cominci a morire in modo diverso rispetto a prima.

Si è allora andati alla ricerca dei rimedi concettuali o religiosi che ci permettessero di liberarci dal nulla, di non essere definitivamente conquistati dal nulla.

Termina l’evocazione mitica di un dio e inizia quella degli dei che sono il modo in cui Dio è presente nel mondo. Anche il capitalismo in tal senso è un dio. Perché intende i rapporti di mercato come legge naturale eterna. Un altro modo di essere un dio che rispecchia nel mondo il Dio teologico è il diritto naturale. L’affermazione cioè che esiste uno statuto giuridico naturale che non può essere violato da alcuna azione dell’uomo. Oggi non si vive più nel diritto naturale ma in quello positivo.

Lei ha detto che siamo sempre scontenti di ciò che siamo e abbiamo. E’ stato sempre così o è il risultato di questi tempi?

L’uomo è scontento da quando il serpente gli dice: “sarai come Dio”. Egli è scontento della situazione in cui si trova, per ciò che è e ha. Cercherà in tutti i modi di emulare Dio. Non riuscendoci.

Non crede che questa inquietudine possa derivare dalla imperfetta conoscenza che abbiamo della potenzialità dell’amore, inteso come sentimento per un tutto frutto di un dono, elemento capace di posizionare l’uomo in una dimensione non materiale e quindi più vicina allo spirito e alla serenità d’animo?

Personalmente preferisco una civiltà fondata sull’amore ad una lontana da questa concezione. Ma il mio desiderio conta poco. “Amore” è una di quelle parole, come “libertà”, che fa breccia nel cuore di tutti. E’ una delle forme più radicali di volontà di trasformare il mondo. Ma l’amore oggi si può sottrarre alla volontà di potenza della tecnica di mutare il mondo?

Il nostro rapporto con il tempo è troppo spesso condizionato dal fare. Non bisognerebbe invece recuperare il tempo interiore, quello del pensarsi e del pensare. Utile alla crescita personale e anche a quella professionale, cioè, del fare?

E’ una variante di quello che prima lei ha detto sull’amore. Un fare senza il pensare è caduco e ottiene poco. Il fare si potenzia se si appoggia al pensare. Ma è un pensare disposto sempre al fare alla fine. Siamo comunque in presenza del dominio assoluto del tutto da parte della tecno-scienza.

Sì, ma se il mio fare è condizionato da un pensiero che tenga conto di ciò che può determinare “il bene” dell’uomo, esso sarà migliore di un fare assolutamente finalizzato all’utilitarismo economico-materiale. Sarà un fare che giunge al risultato economico o tecnologico, senza aver trascurato, o leso addirittura, un segmento della sfera etica umana. E se questo non potrà essere possibile, la conseguenza sarà la rinuncia del fare.

Il concetto da me espresso non è certo l’espressione dell’ultima parola. E’ l’assurdo degli assurdi di questi tempi, purtroppo. E’ la tensione di cercare, attraverso le forme più disparate governate dalla tecnica, di voler essere come Dio. E’ un aspetto subordinato di ciò che prima ho chiamato “follia”.

Ha ragione Seneca quando afferma che solo il presente ha una verità ontologica?

No. Perché significherebbe dare al passato e al futuro la definizione di nulla.

Addirittura, l’affermazione di Seneca per essere vera non può escludere il valore della memoria e dell’esperienza vissuta. Altrimenti il presente non offrirebbe quei presupposti necessari per vivere al meglio il momento.

E’ così.

 Gentile, uno dei massimi
pensatori della modernità


Lei ha spesso parlato di Giovanni Gentile come uno dei massimi pensatori della modernità. Ci spieghi perché, visto che il pensiero di Gentile è stato costretto all’oblio da una sconsiderata e faziosa vulgata filosofica che ne ha offuscato la portata e la lungimiranza.

Gentile è uno dei più grandi filosofi in senso assoluto. E’ un lungimirante, perché è una di quelle voci che sanno dire al mondo che Dio è morto. Gentile non è distante dalla scienza e dalla tecnica, contrariamente a quel che si crede, perché affermando la morte del vecchio Dio, consente alla tecnica di progettare il dominio del mondo.

Anche se Gentile diceva di essere cattolico.

Ma il suo cattolicesimo era tutt’altra cosa. Il dio di cui parla non è il vecchio Dio che egli distrugge, ma è l’atto del nostro pensare. E’ la capacità di trasformare il mondo in cui consiste il nostro pensare. Chiama Dio noi, in quanto atto del pensare.

Siamo tutti debitori a Nietzsche?

Certo. Anche se Gentile è più rigoroso di Nietzsche. Io poi, con Gentile e Nietzsche metterei anche Leopardi. Dimenticato ingiustamente dalla filosofia internazionale. Solo ora il mondo anglosassone comincia ad accorgersi della grandezza di Leopardi. E’ tardi, ma non mai troppo, per fortuna.

da Elementi numero 32.

Intervento di EMANUELE SEVERINO al convegno: Verso un superamento del diritto? Il destino del diritto e la “volontà di potenza” della tecnica, a cura della Fondazione Italiana del Notariato, 2014

AUDIO DELL’INTERVENTO DI EMANUELE SEVERINO:

Nel video gli interventi di:

Natalino Irti
Piero Schlesinger
Emanuele Severino
Coordina
Piergaetano Marchetti

Fondazione Italiana del Notariato
http://www.fondazionenotariato.it

Emanuele Severino sulla GLORIA: “L’ uomo non è un essere effimero ma è il luogo eterno che accoglie la Terra”

Emanuele Severino

La Gloria

hássa ouk élpontai: risoluzione di «Destino della necessità»

«La morte ha un significato che sta al di là di ciò che si intende comunemente con questo termine. Sta al di là della stessa contrapposizione tra morte e immortalità. L’ Occidente, la cui preistoria è l’ Oriente, la intende invece come annientamento, salvando in alcuni casi l’ anima o la coscienza che continuerebbero ad avere una loro vita».

Lei, invece, cosa pensa in proposito? «Da cinquant’ anni cerco di dimostrare che la persuasione che una qualsiasi cosa o evento (uomo, pianta, stella, situazione, istante) possa annientarsi – e annientato sia niente – è Follia essenziale».

Cosa intende con questa espressione? «È la Follia più profonda che possa manifestarsi non soltanto nel mondo umano, ma nel Tutto. In diverse forme la Follia domina la storia della Terra; al di fuori della Follia appare l’ eternità di ogni cosa e di ogni evento».

La sua opera, quel lavoro che da cinquant’ anni svolge, mi sembra che si proponga di offrire una serie di indicazioni per «mantenersi fuori dalla Follia»… «Sì, ma chiariamo. Ho cercato di indicare come “mantenersi fuori dalla Follia essenziale” che non è una semplice fede, un mito, un desiderio vano o un dono divino. Non è nemmeno un atteggiamento scientifico, proprio perché nel suo significato autentico questo “mantenersi fuori dalla Follia” ha una verità e una necessità più radicali di quelle che competono al sapere scientifico».

Il nostro è stato però il tempo che ha negato il concetto di verità assoluta. «Sì, lo ha negato. E la negazione di ogni verità assoluta è conseguenza inevitabile della persuasione che gli eventi possano annientarsi: e questa è, appunto, la Follia essenziale». Ma allora cos’ è l’ uomo? «L’ uomo non è un essere effimero, preda del tempo e del nulla, più o meno raggiunto dalla grazia di un Dio o di un Salvatore, ma è il luogo eterno che accoglie la Terra. O, per dirla in breve, l’ essenza dell’ uomo è l’ apparire eterno degli eterni». E la morte? «La morte appartiene alla manifestazione degli eterni; è un evento interno a tale manifestazione. Essa non ci travolge, ma è una parte del nostro esistere. È una condizione necessaria della felicità. Noi siamo destinati alla felicità, cioè alla Gioia, che è l’ oltrepassamento di tutte le contraddizioni e non un premio concesso a chi avrebbe usato “bene” la propria “volontà libera”. È necessità. È inevitabile che, dopo il tramonto della Terra isolata dalla verità – e dunque dopo il tramonto della vita e della morte, della volontà e dell’ abulia – l’ uomo sia felice.

..

Cosa si intende allora, secondo il suo pensiero, con Gloria? «L’ uomo non solo è l’ eterno apparire degli eterni, ma è una luce che si allarga senza fine sulla distesa degli eterni. Questo infinito dispiegamento è la Gloria». Le pongo una domanda antica. Se questa è la vera dimensione, perché ci sono male e sofferenza? «La Gioia è concreta perché non è oblio del dolore, ma lo conserva integralmente, oltrepassandolo. Senza il dolore non ci sarebbe la Gioia». Scusi professore, ma la sua Gioia mi sembra Dio… «Si tratta di intendersi sul significato della parola Dio. Se Dio non è il demiurgo ma l’ apparire infinito degli eterni, allora, sì, la Gioia è Dio. Ma allora Dio è essenzialmente diverso da quello della tradizione religiosa e filosofica. E poi Dio non sta in un altro mondo: nel profondo noi siamo la Gioia, ovvero l’ oltrepassamento della totalità delle contraddizioni».

da SEVERINO Niente paura, ci aspetta la felicità.

Emanuele Severino, LA GLORIA, Adelphi editore

Gustavo Bontadini e EMANUELE SEVERINO su San Tommaso, in San Tommaso, a cura di Carlo Chiurco, edizioni Corriere della sera, 2014, pp. 141/142

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Emanuele Severino sul libro: Biagio de Giovanni: Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, 2013

Biagio de Giovanni: Disputa sul divenire. Gentile e Severino, Editoriale Scientifica, 2013

È Gentile il profeta della civiltà tecnica
Ne rende possibile il dominio planetario. Eppure la legge del divenire è eterna 
Emanuele Severino, Corriere, Lunedì 6 Gennaio, 2014
Giovanni Gentile fu assassinato perché era la voce più autorevole e convincente del fascismo. Eppure la sua filosofia è la negazione più radicale di ciò che il fascismo ha inteso essere. Non solo. Essa è tra le forme più potenti — non è esagerato dire la più potente — del pensiero del nostro tempo. Di tale potenza lo stesso Lenin si era accorto — forse gli assassini di Gentile non lo sapevano neppure. Tanto meno lo sa la cultura filosofica oggi dominante, che mai riconoscerebbe a un italiano un così alto rilievo. Non solo. Contrariamente agli stereotipi che vedono in Gentile un avversario della scienza, l’attualismo gentiliano è l’autentica filosofia della civiltà della tecnica: rende possibile il dominio planetario della tecno-scienza, ancora frenato dai valori della tradizione. Altrove ho mostrato il fondamento di queste affermazioni. Il recente libro di Biagio de Giovanni Disputa sul divenire. Gentile e Severino (Editoriale Scientifica, 2013) è un grande e suggestivo contributo al loro approfondimento — come d’altronde c’era da attendersi dalla statura culturale e sociale dell’autore.
Va facendosi largo nel mondo la convinzione che l’uomo non possa mai raggiungere una verità assolutamente innegabile; che, prima o poi, ogni verità siffatta resti travolta da altri modi di pensare, da altri costumi, cioè si trasformi, muoia: divenga . Travolta, anche la certezza che esistano le cose che ci stanno attorno; essa è innegabile solo fino a che esse non vanno distrutte: era innegabile solo provvisoriamente. Esser convinti dell’inesistenza di ogni verità assoluta è quindi, insieme, esser convinti dell’inesistenza di ogni Essere immutabile ed eterno. «Dio è morto», si dice.
La negazione di ogni verità assoluta e innegabile non investe dunque l’esistenza del divenire del mondo. Anzi, proprio perché si fa largo la convinzione che il divenire di ogni cosa e di ogni stato sia assolutamente innegabile (ed eterno), proprio per questo è inevitabile che ci si convinca dell’impossibilità di ogni altro innegabile e di ogni altro eterno. Gentile lo mostra nel modo più rigoroso (mentre il fascismo, come ogni assolutismo politico, intendeva essere la configurazione inamovibile dello Stato).
Ma è appunto per quell’estremo rigore che de Giovanni rileva, a ragione, l’incolmabile contrasto tra il pensiero di Gentile e il tema centrale dei miei scritti, l’affermazione cioè che la verità assolutamente innegabile esiste e che tutto ciò che esiste (nel presente, nel passato, nel futuro) è eterno , ossia non esiste alcunché che esca dal proprio esser stato nulla e che sia travolto nel nulla. Certo, la più sconcertante delle affermazioni. Che però de Giovanni considera fondata con altrettanto rigore. Infatti, mi sembra, egli è interessato al contrasto Gentile-Severino perché vede in ogni forma di contrasto una conferma della propria prospettiva di fondo, per la quale l’esistenza umana è, da ultimo, un contrasto insanabile tra il desiderio dell’uomo, finito, di esser salvato dall’Infinito e la problematicità del rapporto finito-Infinito. Quindi, a suo avviso, per quanto rigorose possano essere la posizione filosofica di Gentile e la mia, ci dev’essere in entrambe un vizio o più vizi di fondo che non possono venir estirpati. Attraverso una finissima procedura interpretativa de Giovanni lo fa capire rivolgendo domande, obiezioni sotto forma di domande. Soprattutto a me. Provo a rispondere ad una soltanto. In modo adeguato risponderò in altra sede.
Ma prima rivolgo anch’io una domanda a de Giovanni. La sua prospettiva — qui sopra richiamata in modo molto sommario — intende essere una verità assolutamente innegabile o una proposta dove non si esclude che la verità innegabile esista da qualche parte? Propendo per la prima alternativa. Mi sembra infatti che anche per de Giovanni l’unica verità indiscutibile sia la «storicità» del reale, cioè il divenire che travolge ogni altra presunta verità. La sua distanza da Gentile tende così a vanificarsi nonostante le obiezioni, che a questo punto hanno un carattere subordinato.
E infatti de Giovanni mi chiede se non ci sia «qualcosa di ineluttabile» «nella condizione mortale dell’uomo», se la morte non sia «la prova inconfutabile», l’«irrefutabile cogenza» che «l’ente uomo nasce dal nulla e va nel nulla» — e anzi, lasciando da parte il domandare, afferma che il mio discorso «si scontra con il fatto che l’uomo muore» (pp. 83-84, corsivo mio). Il contesto in cui de Giovanni avanza queste domande-affermazioni è incommensurabilmente lontano dall’ingenuità con cui a volte queste domande mi vengono rivolte. Ma in questa sede può essere opportuno richiamare — ancora una volta — che i miei scritti, ovviamente, non hanno mai negato che l’uomo muoia e come muoia e resti il suo cadavere, ma hanno sempre negato che la nascita dell’uomo e delle cose sia un venire dal nulla e che la morte sia un andare nel nulla; e lo negano perché mostrano che questo andirivieni non è un «fatto». Provo a chiarire.
Che il dolore, l’agonia, la morte dell’uomo (e il perire dei viventi e delle cose) sia un «fatto» significa che se ne fa esperienza . Certo: si fa esperienza dell’orrore della morte — che è sempre la morte altrui. Ma chi crede che la morte sia un andare nel nulla non crede (è impossibile che creda) che l’uomo vada nel nulla ma , insieme, continui ad essere un «fatto» che appartiene al contenuto dell’esperienza: gli appartenga nello stesso modo in cui gli apparteneva prima di annientarsi. Nell’esperienza rimane il ricordo di coloro che sono andati nel nulla, e il ricordo è un «fatto»; ma non rimane il fatto in cui consisteva il loro esser vivi, non si fa più esperienza del loro esser stati vivi. Chi, dunque, crede che la morte sia annientamento crede che — pur avendo avuto esperienza dell’agonia e del cadavere — ciò che è diventato niente sia diventato anche qualcosa che non appartiene più all’esperienza, che non è un fatto. 
Ma allora è impossibile che l’esperienza mostri che sorte abbia avuto ciò che è uscito dall’esperienza, e quindi mostri che esso è diventato niente . Di questa sorte l’esperienza non può che tacere. Cioè l’annientamento non può essere un «fatto». (E se il cadavere viene bruciato e, come si dice, «diventa cenere»; allora anch’esso, come tutta la vita passata di chi è morto , esce dall’esperienza — anche se ne rimane il ricordo. Daccapo: che esso, diventando cenere, sia diventato niente non può essere l’esperienza ad attestarlo).
Ci si convince dunque che la morte è annientamento non sulla base dell’esperienza, ma sulla base di teorie più o meno consistenti. All’inizio i vivi si fermano atterriti di fronte alle configurazioni orrende della morte dei loro simili e restano colpiti dalla loro assenza; i morti non ritornano, vivi, come invece il sole torna a risplendere al mattino. Anche su questa base, quando si fa avanti la riflessione filosofica sul nulla, si pensa che ciò che non ritorna sia diventato niente e si crede di sperimentarne l’annientamento. Gentile sta al culmine di tale fede e, con la propria «teoria generale dello spirito», dimostra nel modo più radicale l’impossibilità di ogni realtà esterna all’esperienza, sì che l’uscire dall’esperienza è per ciò stesso l’andare nel niente. Ma, appunto, si tratta di una dimostrazione, di una «teoria», non della constatazione di un fatto.
Dunque , la sconcertante affermazione, al centro dei miei scritti, che tutto ciò che esiste è eterno, non è un «paradosso» che «si scontra» con l’esperienza, cioè «con il fatto che l’uomo muore». All’opposto, a scontrasi con l’esperienza sono coloro che — affermando la sua capacità di attestare l’annientamento degli uomini e delle cose — vedono in essa ciò che in essa non c’è e non può esserci. Sono molti, moltissimi? Non importa. Anche quando qualcuno ebbe a mostrare che è la Terra a girare attorno al sole e non viceversa, tutti gli altri lo negavano, sconcertati.
A questo punto de Giovanni deve mostrare perché (una volta escluso lo «scontro con il fatto») non accetta la fondazione che di quella sconcertante affermazione ho indicato nei miei scritti. Attendo. Ma anche tutte le altre sue domande attendono la mia risposta.

Emanuele Severino: riflessioni sulla situazione della politica italiana, ritagli da Il fatto quotidiano del 15 dicembre 2013

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LA TERRA ISOLATA DAL DESTINO, da Emanuele Severino, Adelphi, 2011, pag 180

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Domandiamo a Gesù se a Cesare — cioè allo Stato — si possa dare qualcosa che sia contro Dio. Risponderebbe di no!, da Emanuele Severino, SE CESARE NON E’ DALLA PARTE DI DIO, in Corriere della Sera 25 settembre 2013

Domandiamo a Gesù se a Cesare — cioè allo Stato — si possa dare qualcosa che sia contro Dio.
Risponderebbe di no! Assolutamente no!

Ciò significa che le leggi dello Stato non potranno essere contro le leggi di Dio, del Dio di Gesù, della cui verità oggi la Chiesa si ritiene depositaria.
Domandiamogli ancora se allo Stato si possono dare leggi neutrali, che cioè consentano ai cittadini sia di agire contro Dio, sia di non essergli contrari. Ancora una volta Gesù risponderebbe di no, e altrettanto risolutamente: si renderebbe lo Stato libero da Dio; si lascerebbe ai cittadini la libertà di vivere contro Dio. Con la prima risposta lo Stato sarebbe costretto a essere uno Stato cristiano (anzi cattolico); con la seconda lo si lascerebbe libero di non esserlo. Ma anche questa libertà è un modo di essere contro Dio. Quindi per Gesù le leggi dello Stato debbono essere cristiane (e cattoliche).

L’estremismo islamico che massacra i cristiani non è forse la conseguenza ultima della convinzione che nella società non si debba consentire ciò che — come le altre fedi — è contro il Dio in cui si crede? E viceversa, nel fanatismo degli amici di Cesare
(vedi rivoluzioni francese e bolscevica) non si massacrano i credenti in nome del principio che non si debba dare al loro Dio ciò che è contro Cesare?

qui tutto l’articolo di Emanuele Severino:

Il destino della verità, ovvero ciò’ che noi siamo da sempre è lo stare nel cerchio di luce dove appare la terra

Il destino della verità,

ovvero ciò’ che noi siamo da sempre

è lo stare nel cerchio di luce dove appare la terra

… “varieranno i rimedi, ma rimarrà costante sia l’essenza del dolore, sia la volontà di trovare rimedio al dolore” … , Emanuele Severino, in IL GIOGO, alle origini della Ragione, Adelphi, 1989, pag. 385

Lungo la storia dell’Occidente varieranno i rimedi, ma rimarrà costante sia l’essenza del dolore, sia la volontà di trovare rimedio a dolore,

Emanuele Severino, in IL GIOGO, alle origini della Ragione: Eschilo, Adelphi, 1989, pag. 385

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Emanuele Severino sull’IDEA DI EUROPA, intervista di Luca Taddio, in http://www.filosofia.rai.it/

Luca Taddio intervista Emanuele Severino sull’idea di Europa, su cosa sia rimasto della cultura europea e cosa è rimasto dell’idea di Europa oggi.

vai a: Emanuele Severino – Ripensare l`Europa

Emanuele Severino: “credo di più e più spesso nelle cose in cui comunemente si crede, … ma … “, da INTORNO AL SENSO DEL NULLA, Adelphi, 2013, pag 210-211

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nella terra isolata, la “cosa” è la madre di tutte le guerre, Emanuele Severino

nella terra isolata, la “cosa” è la madre di tutte le guerre

da  Modifica articolo ‹ Antologia del Tempo che resta — WordPress.

la parola COSA. in relazione all’ultimo libro: Emanuele Severino, INTORNO AL SENSO DEL NULLA, Adelphi, 2013

Gran parte delle parole che nelle lingue indoeuropee indicano la «cosa» alludono più o meno direttamente ai beni, alle ricchezze, a ciò che serve e si adopera, a ciò di cui si ha bisogno, ai valori, al bestiame, all’affare, a ciò che è pregiato, alla sostanza e al patrimonio. Qui ci si limiti a richiamare il latino res, il greco prâgma, chrêma, il tedesco Ding (inglese thing) e Sache.
Perfino lo spettro semantico del participio greco tà ónta (gli essenti, le cose che sono) include le sostanze e i beni, e anche il participio ousía nomina la sostanza intesa come patrimonio. Significati che precedono quelli che a queste stesse parole il pensiero filosofico ha in seguito assegnato.
Ma è rilevante che quei più antichi significati della «cosa» implichino, a volte in modo del tutto esplicito, che il loro contenuto sia tutt’altro che indifferente alle singole volontà, le quali invece se li disputano anche in tempo di pace. Quei significati implicano cioè una situazione conflittuale e il luogo in cui essa viene discussa, che vengono in luce, ad esempio, in Ding, thing, che significano anche «causa», «tribunale», «parlamento», «assemblea», «verdetto, «processo».
La stessa parola «cosa» proviene dal latino «causa», intesa sia come matrice e principio del diventar altro (dynamis eis tò patheîn e dynamis eis tò poieîn), sia in senso giuridico, come motivazione del diritto al possesso di ciò che è conteso tra volontà differenti.

Che la parola «cosa» significhi questa conflittualità, mostrata nelle antiche formazioni linguistiche della terra isolata è una figura che rinvia alla conflittualità originaria, dove la «cosa» è la risultante della lotta tra la volontà e l’Inflessibile, ossia è la forma originaria (quindi preontologica) del diventar altro.

Dicendo che Pólemos è il padre di tutte le cose e che quindi ogni cosa è lotta, conflitto, Eraclito dice già implicitamente che il conflitto è il significato originario dell’esser «cosa» — sì che, come altre volte ho rilevato, si può dire che, nella terra isolata, la cosa è la madre di tutte le guerre.

da http://archiviostorico.corriere.it/2013/aprile/17/Oltre_ombra_paurosa_del_Nulla_co_0_20130417_eaa2616a-a720-11e2-8df1-aa298bd24180.shtml

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Adriano Fabris sul tema LA QUESTIONE DELLA COSA:

Emanuele Severino sulla connessione fra l’età del rame e il senso del SACRO

una cronaca del dibattito:

http://www.bresciaoggi.it/stories/Home/493382_monari-severino_il_sensodel_sacro_unisce_e_divide/

Umberto Galimberti sul SACRO

audio di Umberto Galimberti sul SACRO: