Emanuele Severino: Le ‘Opere di Genio’: Leopardi, intervista di Renato Parascandolo rilasciata a Napoli Nella sede Vivarium il 4 giugno 1993, da www.emsf.rai.it

Emanuele Severino

LE ‘OPERE DI GENIO’: LEOPARDI

 

Documenti correlati


intervista di Renato Parascandolo rilasciata a Napoli Nella sede Vivarium il 4 giugno 1993

Professor Severino, in che modo è stata considerata e si considera oggi, dal punto di vista filosofico, l’opera di Leopardi?

Che Leopardi fosse un genio e che la sua opera avesse una rilevanza filosofica, apparì subito chiaro a Nietzsche, a Schopenhauer, a Wagner, e, per quanto riguarda la cultura italiana, a De Sanctis. Nonostante che negli ultimi tempi il pensiero filosofico di Leopardi sia andato incontro ad una consistente rivalutazione, rimaniamo tuttavia ancora ben lontani dal comprendere la sua eccezionale potenza e radicalità. Personalmente, sostengo che si tratti del maggior pensatore della filosofia contemporanea. Leopardi ha infatti posto anticipatamente le basi di quella distruzione della tradizione occidentale che sarà poi continuata e sviluppata – ma non resa più radicale – dai grandi pensatori del nostro tempo, da Nietzsche, da Wittgenstein e da Heidegger.

Purtroppo, si deve riconoscere – pur non volendo ora sottovalutare i meriti di questa attività culturale – che la critica letteraria ha contribuito a mettere in ombra l’importanza filosofica di Leopardi. Il critico letterario si è mosso nelle pagine di Leopardi senza rendersi conto che il loro autore è in un grande colloquio con il pensiero greco, ovvero con la grande tradizione filosofica dell’Occidente.

Ma non vi sono stati studiosi che hanno considerato anche questo aspetto del genio di Leopardi ?

Certo, proprio in Italia, il pensiero di Leopardi è stato oggetto dell’attenzione di De Sanctis, che lo riconduceva a Schopenhauer, e, in ambito marxista, di Luporini, che invece scorgeva in lui un precursore di Marx. Credo, però, che queste letture, nonostante il loro indubbio merito, abbiano offuscato più che messo in rilievo, il peso filosofico di Leopardi, e che vada rovesciata l’impostazione loro sottesa. Se, infatti, si studia l’interpretazione di Luporini, ci si accorge facilmente che, nella sua prospettiva, Leopardi, pur avendolo potentemente anticipato, rimane comunque un semplice antesignano di Marx. Questa rapporto va invertito: se Marx o Nietzsche possono dire qualcosa, ciò accade perché essi si pongono sulla strada che solo Leopardi ha aperto loro.

Si potrebbe obiettare che, nella cultura contemporanea, la fortuna di Leopardi non è minimamente equiparabile a quella di Nietzsche, perché questi è stato percepito nella sua importanza storica mentre quello è stato, per così dire, un “emarginato”. Si osservi, però, che Nietzsche conosceva Leopardi. Si potrebbe dire che Leopardi, anche se emarginato, ha fatto sentire la propria voce in tutto il pensiero contemporaneo attraverso Nietzsche. Questi parlava di Leopardi come del maggior prosatore del secolo non rendendosi conto di occultarne, così affermando, l’importanza filosofica. Ciò nonostante, attraverso Nietzsche, Leopardi ha parlato al nostro tempo, nel senso che ha contribuito a stabilire le condizioni fondamentali perché noi operassimo quel rifiuto radicale della tradizione filosofica, che è oggi il terreno normale su cui ci manteniamo in ambito scientifico-filosofico.

Professor Severino, che cosa unisce Leopardi a Nietzsche e, più in generale, al pensiero occidentale?

Avendo Nietzsche ereditato il centro del pensiero di Leopardi, si può dire che questi anticipa la sostanza del discorso nietzschiano. Come noto, il motivo fondamentale dell’opera di Nietzsche è costituito dall’idea secondo cui la poesia è menzogna, ma è anche l’illusione senza la quale la vita è impossibile. Si tratta, in realtà, di un tema essenziale del pensiero di Leopardi. Mentre Platone era convinto che “i poeti mentono molto”, e ciò costituiva, per lui, motivo per scacciarli dalla città, Leopardi, pur nutrendo la stessa convinzione platonica, è anche persuaso che non ci può essere vita senza poesia. Essendo la poesia l’erede della festa arcaica, cioè del momento in cui l’uomo respira al di sopra dell’oppressione del dolore della vita, Leopardi, pur riconoscendo che “i poeti mentono molto”, sa che non può esservi vita senza l’illusione della poesia. E’, questo, il momento della festa in cui l’uomo si raccoglie, raggiungendo, così, uno stato paradisiaco. E’ dall’anima della festa, dalla danza, dal canto primordiale, che nasce la poesia. La festa è dunque pensata, in questa prospettiva, come rimedio originario, da cui, successivamente, prendono origine la filosofia, la scienza e la tecnica. Per Leopardi, alla fine dell’età della tecnica, la poesia ha ancora un’ultima parola da dire prima dell’annientamento definitivo dell’uomo.

Leopardi è stato il primo nella cultura occidentale a mostrare che la verità, come visione autentica delle cose, mette in luce il loro uscire dal nulla e il loro ritornare nel nulla. Si tratta, a ben vedere, dei grandi temi dell’ontologia greco-moderna. Se l’uomo appartiene al movimento dell’uscire dal nulla e del ritornare nel nulla, allora la contemplazione di questo movimento – come dice Leopardi in uno dei suoi Pensieri – “è verissima pazzia”. “Pazzia”, perché chi guarda la nullità, propria di sé e delle cose, non può che essere isterilito in ogni volontà di sopravvivere. La “pazzia”, inoltre, è “verissima” perché mostra come stanno effettivamente le cose.

Professor Severino, nella Sua interpretazione di Leopardi, acquistano particolare rilievo quelle che, nei Pensieri, vengono chiamate le “opere di genio”. Può chiarire il significato di questa espressione collocandola nel quadro complessivo del pensiero leopardiano?

L’espressione “opere di genio”, sulla quale ho tentato di richiamare l’attenzione, si trova in quell’opera che io, seguendo Carducci, preferisco chiamarePensierie che, invece, è normalmente intitolata loZibaldone.
Per giungere a chiarire l’espressione “opere di genio”, sarà meglio tener presente anche un celeberrimo e grande – forse il più grande – canto di Leopardi, “La ginestra”. Ricordo innanzitutto che questa poesia è stata scritta nei primi anni della stesura deiPensieri. Avverto, però, che non è mia intenzione ricavare a forza, a partire dalla prosa filosofica di Leopardi, il significato del canto. Mi propongo soltanto di mostrare che quanto “La ginestra” dice a suo modo è anticipato nella prosa filosofica di Leopardi e, più precisamente, in quel giro di frase deiPensieriche contiene l’espressione “opere di genio”. A mio avviso, questo passo, insieme ad altri paralleli, è la chiave per comprendere l’importanza che ha il “genio” quale rimedio al dolore.

Leggiamo il testo 259/61 deiPensieri, scritto nell’ottobre del 1820:
“Hanno questo di proprio le opere di genio, cioè le opere del genio, che quando anche rappresentino al vivo la nullità delle cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire l’inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più terribili disperazioni, tuttavia, ad un animo grande che si trovi anche in uno stato di estremo abbattimento, servono sempre di consolazione”.

L’opera è del genio perché essa – come il poeta canta nel “La ginestra” – pur mostrando il carattere devastante del fuoco, consola con la forza con cui vede questa devastazione. La forza della visione, non lasciandosi risucchiare dalla devastazione, è capace di consolazione. Essa è quindi come il profumo del fiore del deserto di cui parla il canto, che si solleva al di sopra della nullità prodotta dal fuoco devastante.
Il cielo verso cui porta il profumo non è un cielo abitato da divinità alle quali ci si possa rivolgere con una supplica. Il canto chiude, infatti, dicendo che la ginestra non supplica, ma è un profumo che consola il deserto. Analogamente, l’opera del genio consola l’animo grande che avverte la nullità e si trova “in uno stato di estremo abbattimento” e disinganno. Tra il testo deiPensierie “La ginestra” c’è addirittura identità di termini: così come il fiore del deserto “consola” anche l’opera del genio è “di consolazione”.

Infine, Professor Severino, vorrei chiederle cosa, per Lei, ha ancora da dire l’opera leopardiana alla cultura occidentale?

Se vuole rimanere coerente con se stessa, la cultura dell’Occidente non può che consentire con quanto dice Leopardi. Leopardi non è una stravaganza all’interno della nostra cultura. Egli è pessimista come lo sono i Padri della Chiesa, Hegel, Aristotele, ma lo è in modo più radicale di loro. Alla radice della cultura occidentale sta ormai la persuasione che le cose reali con cui abbiamo a che fare sono effimere. Possiamo anche tentare di accaparrarne e trattenerne presso di noi il maggior numero possibile, ma rimane comunque incontestato il fatto che non ci sono più i grandi dèi immutabili che costituiscono il senso stabile del mondo.
Il messaggio che la nostra cultura trasmette all’uomo contemporaneo, è che tutto è nulla, nel senso che tutto esce dal nulla e va nel nulla. Mi chiedo, allora, se coloro che assumono atteggiamenti psicologicamente devianti, i pazzi, i depressi, coloro che non diciamo normali, non siano, in realtà, lungimiranti. Lungimiranti perché, con il loro comportamento, traggono la conseguenza inevitabile che si deve trarre dalla visione della nullità delle cose. A ben vedere, infatti, l’incitamento a vivere per quel tanto che ci è concesso, a organizzarci il più possibile, a resistere, a darci da fare, a costruire mondi, ad attraversare le galassie, è operato sulla base di una verità di fondo per la quale tutte le cose sono nulle. Questa verità non si esprime solo attraverso la consapevolezza che non ci sono più dèi eterni, ma anche nella tesi della cosmologia astronomica secondo cui all’origine c’è un nulla iniziale e tutte le cose sono soggette ad un processo entropico di distruzione. Il messaggio inviatoci dalla nostra cultura produce ciò che Leopardi chiama la “verissima pazzia”. Tutto il resto è soltanto un tentativo di mascherare l’orrenda verità delle cose con alternative provvisoriamente devianti che non riescono a togliere dall’orizzonte dell’uomo la minaccia radicale della nullificazione che investe ormai tutto.
Leopardi è un grande maestro del nichilismo. Prendere in considerazione Leopardi è importante nella misura in cui è necessario vedere se esiste un’alternativa alla storia dell’Occidente. Se l’Occidente incomincia così come è incominciato, la filosofia dell’Occidente è quella di Leopardi. Ma la domanda decisiva, anche e soprattutto nei riguardi di questo errore puro in cui consiste Leopardi, è se non sia da mettere in questione la fede nel divenire, da cui muove l’intera civiltà occidentale e di cui Leopardi è il seguace più rigoroso.
Sulla base della fede costitutiva dell’Occidente – la fede nel divenire – è inevitabile la caduta di tutti i rimedi. L’esigenza stessa di un rimedio, sia esso rappresentato dalla filosofia, dalla religione, dalla tecnica, dalla poesia o dalla festa arcaica, è possibile solo a partire dalla fede nel divenire. Dobbiamo allora chiederci: si deve continuare a considerare la fede nel divenire come qualche cosa che sta assolutamente fuori discussione, fuori dell’ambito su cui si esercita il nostro spirito critico, oppure, essendo tale fede responsabile dell’intera storia dell’Occidente, occorre che ci si interroghi su di essa e sulla sua consistenza?

 

da: Emanuele Severino: Le ‘Opere di Genio’: Leopardi.

Emanuele Severino, Parmenide

Abstract

Per Severino l’ontologia è la riflessione sul senso dell’essere e del nulla. Come tale essa è una scoperta dei Greci. Per Parmenide la verità è al di sopra del divenire, e così non è minacciata dal nulla. Lo scandalo del pensiero di Parmenide consiste nel fatto che egli dice: “Il divenire non è, il mondo non è”. Per Parmenide, se l’essere è assolutamente opposto al nulla, allora esso è immutabile, eterno, incorruttibile, ingenerabile. Da questo principio segue la negazione del molteplice. Ma allora il mondo stesso, che è molteplice, non è. Lo scetticismo pirroniano è figlio della negazione parmenidea della verità del mondo. Dopo Parmenide l’esistenza del mondo è stata considerata tanto evidente quanto il principio per cui l’essere non è il nulla. Severino fa infine riferimento al “parricidio” che Platone compirebbe nel Sofista nei confronti di Parmenide.

Emanuele Severino

Parmenide

=== ===

  • – Professor Severino, quali possono esseri i motivi che ci spingono oggi a interessarci della filosofia greca e in particolare di un filosofo come Parmenide? (1)
  • – In generale si pensa alla filosofia di Parmenide e a tutta l’ontologia greca in relazione al desiderio di conoscenza. Come si inserisce in questo ambito la categoria del dolore? (2)
  • – In che modo Parmenide pone il nulla nella condizione di non nuocere? (3)
  • – In Parmenide vi è questa radicale distinzione tra la alétheia, la verità, e la dóxa, l’opinione, quasi che coincidano con l’essere e non essere. Per Parmenide l’opinione – l’opinione comune e gli oggetti che noi guardiamo tutti i giorni – l’apparente movimento e il divenire di tutte le cose, sono una pura illusione dei sensi oppure sono qualcosa che semplicemente ha un carattere finito e pertanto è un non-essere? (4)
  • – Come si sviluppa l’argomentazione di Parmenide? (5)
  • – Non le sembra che forse Parmenide, per un eccesso di cautela nei confronti dell’essere, abbia alla fine consegnato – proprio grazie a questa assoluta separazione tra essere e non-essere, tra verità e dóxa – agli scettici, ai futuri sofisti, i quali si potranno sbarazzare di questo essere proprio perché non c’è nessuna possibilità di comunicazione tra l’essere e il non-essere ? (6)
  • – Il mondo di Parmenide è un mondo della necessità assoluta, è un mondo immobile, eterno, e quindi senza tempo. Evidentemente ci sono stati dei motivi di critica che hanno spinto i filosofi successivi a prendere le distanze, a compiere questo “parricidio” nei suoi confronti, come ad un certo punto sembra fare Platone. Ci può spiegare bene questo passaggio? (7)

1. Professor Severino, quali possono esseri i motivi che ci spingono oggi a interessarci della filosofia greca e in particolare di un filosofo come Parmenide?

Certamente questa domanda tocca un tasto dolente, e cioè quello della nostra cultura, la quale pensa di potersi disinteressare del pensiero greco e di non aver nulla a che fare con esso. Invece si tratta di rendersi conto che non solo la nostra cultura, ma l’intera nostra civiltà si sviluppa all’interno delle categorie che sono state espresse per la prima volta dal pensiero greco. Ci sono anche dei segnali che fanno capire l’importanza dei Greci e in particolare modo di Parmenide. È vero del resto che oggi qualche autore – ad esempio Popper – si interessa di Parmenide, e in generale c’è il segnale che non si tratti proprio di uno sconosciuto. Per quanto riguarda i filosofi antichi, sappiamo che ad esempio Platone lo chiama “venerando e terribile”. Aristotele, che in genere è così compassato, dice che quelle di Parmenide sono maníai, cioè follie. Eppure questa “pazzia” di Parmenide è il punto di riferimento per l’intera storia del pensiero filosofico. Si tratta di capire che il pensiero greco stabilisce il terreno su cui noi oggi ci muoviamo, si tratta del terreno che potremmo chiamare ontologico.

“Ontologia”, questo termine così tecnico, vuol dire riflessione sul senso dell’essere e del niente. Queste due parole, “essere” e “niente”, sembrano estranee al linguaggio nostro di tutti i giorni, ai nostri interessi, all’articolazione concreta del sapere scientifico; eppure queste due categorie costituiscono l’ambito all’interno del quale tutta la storia dell’Occidente è cresciuta, e si tratta anche di comprendere che queste categorie sorgono per la prima volta con i Greci. Questo è importante perché i Greci non solo portano alla luce una teoria, cioè una comprensione del mondo che non era mai apparsa, ma anche una comprensione del mondo che consente di porsi come la prima grande forma di rimedio contro il dolore. Quindi, secondo al mia opinione è errato insistere e considerare il pensiero greco, sin dalle sue origini, come una mera elaborazione teorica che non abbia il compito di prendere posizione rispetto a ciò che vi è di più angosciante nell’esistenza, e cioè il dolore. Io credo che la nostra riflessione potrebbe procedere cercando di vedere quali sono i rapporti tra le categorie dell’ontologia greca e il dolore dell’esistenza.

 

2. In generale si pensa alla filosofia di Parmenide e a tutta l’ontologia greca in relazione al desiderio di conoscenza. Come si inserisce in questo ambito la categoria del dolore?

Aristotele dice che la filosofia nasce dalla meraviglia, e la parola che egli usa per indicare la meraviglia è yaËma (thaûma). Ma anche qui, come in tutte le grandi parole del nostro linguaggio, thaûma non significa semplicemente la meraviglia ma vuol dire anche terrore, vuol dire il terrore di fronte all’angosciante. Non sto dicendo, alla Nietzsche, che la forza della teoresi, la forza della teoria sta nella sua capacità di risolvere i problemi pratici; non è stato certo questo l’intento dei greci e si può giustamente rilevare che i filosofi greci abbiano avuto innanzi tutto la vocazione per la teoria disinteressata, contemplativa. Ma intendo dire che proprio il carattere disinteressato della teoria, e cioè il suo essere verità, consente di affrontare il problema dell’esistenza e della vita. Il problema della vita è innanzitutto la terribilità del dolore: allora io non sostengo che l’unico valore della teoria consiste nel suo essere semplicemente uno strumento in base al quale, conoscendo come stanno le cose, si fa argine contro il dolore; dico che proprio perché la teoria intende essere verità – e cioè non una teoria qualsiasi ma la teoria assolutamente vera – proprio questo consente di andare incontro al dolore con occhio diverso da quello che gli uomini possiedono quando ancora non sanno. A tale proposito bisogna vedere qual è il rapporto tra teoria e dolore, perché anche il modo in cui spesso si tratta Parmenide prescinde da questa tematica, isolando il momento teorico; al contrario o credo che Parmenide dia la prima grande risposta al problema del dolore.

Dicevo prima che i Greci portano per la prima volta alla luce il senso dell’essere e del niente. Se noi crediamo di morire senza saper nulla del senso del niente – e quindi del senso dell’essere a cui il niente si contrappone – la nostra morte è profondamente diversa dal modo in cui moriamo quando sappiamo che noi andiamo nel niente. Questo vuol dire qualcosa di eccezionale e cioè che con i Greci gli uomini incominciano a morire – e quindi a nascere – in modo diverso da come nascono e muoiono prima dei Greci, prima di saper qualcosa del niente. I Greci evocano questo significato terribile e radicale – il significato del niente – nella sua contrapposizione infinita all’essere, come l’assoluta negatività che non ha alcunché dell’essere. In questo modo il processo del mondo acquista un carattere estremamente angosciante, proprio perché il pensiero greco e questa cosa apparentemente astratta che è l’ontologia – la riflessione sull’opposizione infinita tra l’essere e il niente – evoca la minaccia estrema, quella dell’esistenza portata innanzi dall’annientamento delle cose. Ma il Greco evocatore della minaccia estrema é insieme il Greco che va alla ricerca del rimedio contro la minaccia estrema. Parmenide, trovandosi proprio all’inizio di questo processo è l’evocatore; infatti non abbiamo notizia che prima di Parmenide si sia parlato dell’essere o del niente, della contrapposizione infinita tra l’essere e il niente. Il modo in cui Parmenide pensa è un modo singolare – e poi si tratterà di vedere che ne è nella storia della nostra cultura di questa singolarità. Parmenide evoca l’estrema minaccia, la contrapposizione infinita tra l’essere e il niente, ma insieme evoca il modo singolare di costruire un rimedio contro questa minaccia: il rimedio è dato dalla metafisica e l’ontologia.

 

3. In che modo Parmenide pone il nulla nella condizione di non nuocere?

Parmenide si trova in una posizione singolare perché in un certo senso dà la prima risposta dell’Occidente alla minaccia e al carattere nocivo del niente, dell’annientamento delle cose, interrogandosi sul significato del niente; in un cert’altro senso è il punto di maggiore vicinanza dell’Occidente all’Oriente. Vorrei fermarmi su questo punto. In generale la prima grande soluzione, la prima grande forma di rimedio al dolore è la filosofia: se noi dovessimo fare rapidamente l’elenco delle forme di rimedio dell’Occidente dovremmo dire che la prima è la filosofia, cioè il fatto di sapere in modo incontrovertibile il senso del mondo, il senso unitario del mondo. Poi la grande forma di rimedio è – quando l’esperienza antica del pensiero filosofico è andata al tramonto – il Cristianesimo e poi la scienza.

La posizione di Parmenide è singolare perché è anche il punto di maggiore contatto con l’Oriente. Qual è infatti la soluzione che la filosofia dell’Occidente dà al problema del dolore e dell’annientamento? Che cosa ci angoscia quando noi abbiamo a che fare con il dolore? Non parlo del dolore che noi attualmente patiamo, perché ciò che patisco in questo momento – poniamo – ormai è accettato, è lì e non c’è nulla da fare, perché ormai è recepito. Mi riferisco invece all’angoscia del fatto che il dolore abbia a continuare, facendoci chiedere: “che ne sarà di me tra un momento, domani, tra un anno? Continuerà questo dolore?” Voglio dunque dire che l’angoscia si riferisce all’imprevedibilità del futuro, e in questo caso il rimedio non può essere altro che la previsione del senso del tutto; ecco perché prima ho parlato anche di scienze, perché la previsione scientifica sarà in un certo senso l’erede della previsione filosofica. Previsione filosofica vuol dire §pistÆmh (epistéme), questa grande parola greca che significa, alla lettera, la capacità di stare; “steme” deriva infatti dal verbo ·stasyai (hístasthai), la capacità di stare, mentre epí vuol dire sopra: dunque si tratta di “stare sopra tutto ciò che intende negare ciò che sta”. Ciò che sta è l’apertura di senso, l’apertura del senso del tutto che intende stare e che si ritiene capace di imporsi su ciò che presume negarla, e insieme su tutti gli eventi che sopraggiungono e che costituiscono quello che oggi noi moderni chiameremmo la novità della storia. L’epistéme è al di sopra di ogni innovazione storica: questo è stato il grande sogno della filosofia da Parmenide ad Hegel. Se si conosce incontrovertibilmente, stando sopra ogni negazione e ogni evento sopraggiungente, il senso del tutto, allora si è in grado di prevederlo e la previsione rende spiegabile il dolore. “Perché il dolore, dice Eschilo, getta nella follia?” Proprio perché non ha senso fintantoché non si vede il senso del tutto. Ebbene la soluzione di Parmenide è singolare, perché successivamente l’Occidente intenderà costruire un sapere che sta sopra la minaccia del divenire controllandola, guidandola e quindi costruendo al di sopra di esso quella serie di strutture immutabili che vanno dal Dio teologico al Dio cristiano, alle strutture necessarie secondo le quali si sviluppa la storia.

Parmenide adotta un’altra strada che non sarà percorsa dall’Occidente – dicevo prima che era la strada più vicina all’Oriente. Di fronte al divenire l’Occidente dice: “Tu non mi minacci più perché io ti prevedo e quindi prevedo il senso di ciò che tu, divenire, fai irrompere su di me”. Prevedendo il senso di ogni irruzione, l’irruzione non è più l’imprevedibile angosciante e il dolore acquista senso: lo stesso annientamento si inscrive in un ordine. Questa è la voce della filosofia dell’Occidente dopo Parmenide. La sua voce invece è diversa e singolarmente vicina all’Oriente perché Parmenide dice al divenire: “Tu non esisti”. Questo è molto singolare, perché tutto il pensiero, non solo filosofico, dopo Parmenide dice al divenire: “Tu esisti ma io ti domino”; e chi parla è appunto il rimedio, cioè il sapere epistemico.

L’affermazione di Parmenide non viene pronunciata per un semplice desiderio – ormai purtroppo il senso radicale della filosofia in certe forme della nostra cultura va perdendosi – ma perché vi sono delle strutture concettuali che lo portano a dire questo. In questo modo, mentre nella soluzione post-parmenidea il dolore è vinto perché c’è un padrone che domina il divenire, la soluzione radicale di Parmenide è questa: il divenire non minaccia più, non può essere nocivo perché non esiste. Con questa cancellazione del divenire entriamo nel grande paradosso del pensiero di Parmenide, che è la cancellazione del mondo, con cui tutto l’angosciante, tutto il terribile, tutto l’orrendo del mondo è illusione; questo è il senso della doxa di Parmenide. Ebbene questa è anche la strada percorsa dall’Oriente: i Veda, le Upanishad, la ripresa buddista del bramanesimo sono tutti grandi motivi che convergono su questo punto: l’uomo è infelice perché non sa di essere felice, perché non sa che il dolore è al di fuori di lui, e che lui è un puro sguardo che non è contaminato dal dolore che gli passa innanzi, così come lo specchio non è contaminato dall’immagine che si riflette in esso. Questa è la vicinanza di Parmenide rispetto all’Oriente, ma bisogna anche guardarsi dallo spingere troppo l’analogia perché c’è anche una radicale diversità; Parmenide è l’inventore dell’ontologia, l’Oriente è la saggezza che si sviluppa prima, indipendentemente dall’ontologia. Questa non è una differenza da poco, perché l’Oriente muore non sapendo nulla del niente; potremmo dire che la morte dell’Oriente è lieve e non ha la perentorietà, non ha quel carattere di lama assolutamente affilata che ha la morte nel nostro tempo – a partire da Parmenide – proprio perché la morte è vista in connessione con la assoluta negatività del niente. La differenza tra l’Occidente come patria, luogo dell’ontologia e l’Oriente come dimensione pre-ontologica non va quindi trascurata.

4. In Parmenide vi è questa radicale distinzione tra la alétheia, la verità, e la dóxa, l’opinione, quasi che coincidano con l’essere e non essere. Per Parmenide l’opinione – l’opinione comune e gli oggetti che noi guardiamo tutti i giorni – l’apparente movimento e il divenire di tutte le cose, sono una pura illusione dei sensi oppure sono qualcosa che semplicemente ha un carattere finito e pertanto è un non-essere?

Non è un caso che tutto il pensiero filosofico abbia fatto riferimento a Parmenide, proprio perché lo scandalo consiste nel dire: “Il mondo non è, il divenire non è, non c’è il mondo”. Ma ciò è motivato – ci tengo a sottolinearlo – da un’articolazione logica che forse è il caso di tener presente, poiché accostarsi a Parmenide, come è per lo più accaduto fino agli anni ’50 – partendo dal linguaggio, impoverisce il suo pensiero. Vi è ad esempio la tesi sostenuta, anche in modo estremamente intelligente, da Guido Calogero, nei suoi Studi sull’eleatismo, secondo cui l’essere di Parmenide sarebbe l’ipostasi della copula, di modo che la singolarità della copula, della parola “è”, avrebbe attratto l’attenzione di questo altrettanto singolare pensatore il quale avrebbe fatto di una voce del linguaggio uno stato. L’idea che la singolarità del linguaggio e quindi della lingua che Parmenide parla – che è una singolarità delle lingue indoeuropee; la preminenza della copula in ceppi linguistici non indoeuropei è assente – abbia potuto spingerlo a soffermarsi, a prestare attenzione al significato di questa parola apparentemente irrilevante – cioè l’”è” – è ammissibile. Ma si tratta appunto di una spinta, mentre la grandezza di Parmenide sta invece nell’intendere l’essere come l’assolutamente “altro” dal niente.

Le parole usate da Parmenide sono: e‰nai (eînai), che è l’infinito del verbo essere, §Òn (eón), che è la forma participiale arcaica che corrisponde allo ˆn (ón) del linguaggio platonico-aristotelico. L’ón, l’essere, è l’assolutamente opposto al niente; c’è chi si scandalizza delle tautologie di Parmenide, ma io vorrei augurare a ogni discorso di essere tautologico, perché la tautologia potrà non interessare solo chi è alla ricerca curiosa delle differenze del mondo, quelli che Platone nella Repubblica (480 a) chiamava i filÒdojoi (philódoxoi), gli amanti delle opinioni. La tautologia è qualcosa di formidabile, è l’identità con sé di qualcosa che è assolutamente non smentibile. Certo, le grandi tautologie di Parmenide incutono il timore reverenziale; si tratta di capire, non di alzare le spalle. Perché Parmenide dice: “L’essere è, il non-essere non è”? Che cosa vuol dire? Innanzitutto il significato di questa affermazione porta a quelle conseguenze paradossali di cui parlavamo prima, il che vuol dire che la tautologia non è così innocua come potrebbe sembrare se porta al paradosso, al più grande paradosso che sia mai apparso nella storia della nostra cultura – e si potrebbe dire della cultura in generale.

Noi delle volte vogliamo sapere come si scandisce la storia e allora, per esempio, parliamo del grande passaggio dal matriarcato al patriarcato come uno dei segnali che scandiscono il movimento storico. Oppure si parla di Gesù, che ha diviso la storia in due. Io direi, senza timore di sembrare a mia volta paradossale, che il pensiero di Parmenide segna una frattura tra il passato e il nostro tempo ancora più radicale che non il passaggio dal matriarcato al patriarcato, ancora più radicale della stessa nascita di Gesù. Perché dico questo? Perché lo stesso messaggio di Gesù è diventato quello che è diventato solo in quanto si è inscritto nelle categorie del pensiero greco. Se noi eliminiamo queste categorie dal messaggio cristiano, questo si impoverisce – e purtroppo oggi, volendo de-ellenizzare il Cristianesimo, si sta riuscendo ad impoverire il Cristianesimo che non dice più nulla, essendo stato distolto dal contesto ontologico in cui esso parla.

 

5. Come si sviluppa l’argomentazione di Parmenide?

Secondo una prima articolazione esso suona così: se l’essere è assolutamente opposto al niente, allora la prima conseguenza è che esso è immutabile, eterno, incorruttibile, ingenerabile. Perché? Anche in questo caso, Parmenide non si limita ad affermarlo, poiché egli dice – e qui l’attenzione deve diventare massima – che se si generasse o si corrompesse, esso sarebbe stato niente e tornerebbe ad essere niente. Ma l’essere non è il niente, dunque è impossibile che sia stato niente, che torni ad essere niente; questo vuol dire che è impossibile che non sia, e dunque deve essere eterno, ingenerabile, immutabile. Si può dire che questo discorso che abbiamo esposto così alla svelta, è uno dei discorsi che devono essere messi nei tabernacoli della filosofia.

L’altra articolazione si riferisce alla negazione del molteplice – questa è senz’altro l’interpretazione che di Parmenide danno tutti quelli che l’hanno seguito, cominciando da Empedocle, a Democrito, Platone, Aristotele, fino ad Hegel. Che il molteplice non “è” vuol dire che il mondo così come ci sta davanti nella sua straordinaria ricchezza, differenza di forme, colori, di luci, di situazioni, non “è”. Anche in questo caso si arriva a questa conclusione perché è in gioco la tautologia. Vediamo come. Noi possiamo chiamare le differenze per nome: la lampada, la telecamera, gli arredamenti della stanza, poi le stelle, il cielo; possiamo semplificare e dire A, B, C, D chiamando con tali lettere le varie cose del mondo. Ci dobbiamo chiedere: “A”, come poi “B” e “C”, significa “essere”? Supponiamo che “A” sia il brillare delle stelle; Tentiamo di lasciar parlare Parmenide: “Luce significa essere?”. “No!”. Questo “no” lo dice Parmenide per la prima volta, ma poi lo diranno tutti gli altri e se noi chiedessimo ad un linguista se “essere” significa luce, anche il linguista, con tutta la sua correttezza scientifica, ci direbbe che “essere” non significa “luce”. Ma allora luce non è “essere”; ma “non essere” vuol dire “ni-ente” che vuole dire “non-ente” – io amo sostenere questa etimologia della nostra lingua – e allora “luce” è “non essere”. Ma lo stesso discorso lo possiamo dire di tutte le cose che ci stanno attorno che costituiscono il punto di riferimento della nostra vita. Ognuna di queste determinazioni della vita non significa essere e quindi è niente.

Prendiamo ora la grande tautologia che dice: “L’essere non è il niente”, e a questo punto si fa innanzi la conclusione che ci riguarda – noi uomini della civiltà della tecnica – molto da vicino: dire che la luce, i colori, le cose, le case, gli uomini “sono”, significa ammettere che il niente “è”. Vorrei ripetere questa cosa. Le differenze del mondo hanno un significato che non coincide con il significato dell’essere; questa non coincidenza vuol dire la loro diversità dall’essere, e cioè che sono “non essere”. Se allora l’amante o amico del mondo vuol dire: “il mondo è”, egli deve anche dire: “Il niente è”. La ragione dell’Occidente nasce qui, dall’esigenza di tener ferme le determinazioni – potremmo dire l’esigenza di non contraddirsi. Se si afferma che il mondo molteplice è, si afferma che il niente è. Allora abbiamo questa conclusione straordinaria: Parmenide, proprio per evitare che il niente sia, proprio per evitare di identificare l’essere al niente, afferma che le cose sono niente, che le differenze sono niente; se si afferma il mondo, se si è amici del mondo si sta nella pazzia che identifica l’essere e il niente.

A questo punto abbiamo gli elementi per rispondere alla Sua domanda. Il lógos, che costituisce il pensiero incontrovertibile perché si appoggia sulla tautologia dice appunto che il divenire non è, e che non esiste molteplicità. Qual è il significato di questa negazione? Vuol forse dire che Parmenide non vedeva il divenire e non vedeva la molteplicità? Sarebbe strano, avremmo a che fare con un qualche cosa che non appartiene alla nostra esperienza; noi vediamo il mondo, vediamo il divenire e la molteplicità delle cose e ne godiamo, perché senza di esse la nostra vita non avrebbe significato. L’Oriente dice invece che la nostra vera vita è al di là del molteplice e del divenire.

Parmenide invece dice che l’essere è immutabile e semplice – semplice vuol dire non molteplice e non differenziato; in questo caso l’apparire del mondo come diveniente è molteplice e non verità, cioè è illusione, è dóxa. Con una battuta direi che tutto il pensiero successivo, ma non solo filosofico, anche scientifico – e dico scientifico sapendo che questa affermazione può suonare paradossale – intende salvare il mondo da Parmenide, perché egli pone il mondo come non verità.

 

6. Non le sembra che forse Parmenide, per un eccesso di cautela nei confronti dell’essere, abbia alla fine consegnato – proprio grazie a questa assoluta separazione tra essere e non-essere, tra verità e dóxa – agli scettici, ai futuri sofisti, i quali si potranno sbarazzare di questo essere proprio perché non c’è nessuna possibilità di comunicazione tra l’essere e il non-essere ?

Questo è accaduto storicamente. Lo scetticismo, per esempio la forma di scetticismo pirroniano, prende spunto da Parmenide, perché se il mondo è illusione, quando non si crederà più nel logos di Parmenide rimarrà il gioco illusorio del molteplice e del divenire. Ma il problema ancora più consistente, non sono gli esiti scettici della filosofia di Parmenide, ma quello di salvare il mondo, perché la grande storia dell’Occidente non è fatta in prima battuta dallo scetticismo; lo scetticismo è prezioso perché è il pungolo che tallona e impedisce di riposarsi e di acquietarsi nel dogmatismo; – quindi Hegel faceva bene ad invitare a un salutare bagno nello scetticismo.

 

7. Il mondo di Parmenide è un mondo della necessità assoluta, è un mondo immobile, eterno, e quindi senza tempo. Evidentemente ci sono stati dei motivi di critica che hanno spinto i filosofi successivi a prendere le distanze, a compiere questo “parricidio” nei suoi confronti, come ad un certo punto sembra fare Platone. Ci può spiegare bene questo passaggio?

La volontà di andare contro Parmenide si sprigiona in Occidente e costituisce l’Occidente, mentre l’Oriente non l’ha fatto, sia per motivi cronologici, sia per motivi di attitudine psicologica. Noi oggi diciamo che la civiltà della tecnica domina sulla Terra e quindi domina sull’Oriente, ma non dimentichiamo che la prima grande invasione dell’Oriente è di Alessandro Magno che arriva fino in India. Ciò vuol dire che la cultura greca, che arriva e domina l’Oriente, controlla la stessa saggezza orientale. La protesta contro Parmenide esprime la nostra psicologia, la volontà che il mondo “sia”, e noi occidentali dominiamo il pianeta perché non rinunciamo al mondo, mentre l’Oriente ha rinunciato al mondo. La civiltà della tecnica non è qualcosa che non ha nulla a che fare con Parmenide e la filosofia greca, perché la civiltà della tecnica è il portato ultimo e più rigoroso della protesta della filosofia greca contro la celebrazione del mondo. Ma potrebbe sembrare una pretesa arbitraria. Non ci ha detto Parmenide che il mondo è illusione e che la verità invece è l’eternità e immutabilità dell’essere? Invece a questo punto si tratta di comprendere che Parmenide ha in se stesso il proprio nemico; proprio perché è lui stesso a sostenere l’illusorietà dell’apparire del mondo, egli avrebbe dovuto dire che oltre all’essere, anche l’illusione “è”. Questo è quello che Parmenide non può dire, perché la sua logica lo porta a dire che solo il semplice “è”, e ciò che non è il semplice è niente. Dunque Parmenide è negatore di questo mondo, ma ne riconosce l’esistenza proprio in quanto lo nega: ecco il nemico che parla dentro l’animo di Parmenide. Egli ha in sé questa contraddizione, questa antinomia tragica, cioè il riconoscere che l’illusione “è” tanto quanto l’essere. In questo modo, l’essere non è l’uno, perché oltre all’uno c’è l’altro, il mondo dell’illusione. La conseguenza per la civiltà occidentale è che la coscienza incontrovertibile non è solo la ragione, il logos, cioè l’opposizione di essere e niente, ma è la coscienza dell’apparire del mondo – e questo riconoscimento comincia, prima di Platone, con Empedocle.

Dopo Parmenide ci si è resi conto che l’apparire del mondo è tanto innegabile quanto è innegabile il principio che dice: “l’essere non è il niente”. Il parricidio che Platone compie nel Sofista nei confronti del pensiero di Parmenide ha lo scopo di mostrare come l’apparire del mondo non implichi l’assurdo dell’identificazione dell’essere e del niente. Il grande compito è dunque quello riuscire a salvare il mondo, ovvero, secondo l’espressione di Platone, s—zein tå fainÒmena (“sózein tà phainómena “): “salvare i fenomeni”, e cioè le cose che appaiono, il mondo nella sua concretezza illuminata e manifesta. Il parricidio di Platone forma per così dire lo scudo – sulla cui consistenza nutro dei dubbi – al riparo del quale si porrà tutta la storia dell’Occidente, con tutte le sue grandi costruzioni, contro la minaccia di Parmenide.

 


da: Emanuele severino, 15 marzo 1988

Emanuele Severino, La struttura originaria (prima edizione La Scuola, Brescia 1958), Adelphi 1981 e seguenti

«La struttura originaria (1958) rimane ancora oggi il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio»: così scrive Severino all’inizio del lungo saggio, quasi un libro a sé, che introduce alla «nuova edizione ampliata» di questa sua opera, fino a oggi la meno conosciuta e insieme quella a cui tutti i suoi scritti riconducono, quella in cui in certo modo riconosciamo l’impalcatura segreta del suo pensiero.
Il titolo dell’opera accenna alla «struttura originaria della verità dell’essere», quindi al «luogo, già da sempre aperto, della Necessità e del senso originario della Necessità». E «solo all’interno di questo luogo può apparire la necessità che l’essenza dell’Occidente sia il nichilismo». L’impresa di questo libro è dunque solitaria e grandiosa: esprimere «nel modo più determinato e concreto l’inconscio che sta alle spalle della stessa struttura inconscia dell’Occidente, il sottosuolo che giace ancora più in fondo del sottosuolo costituito dal pensiero fondamentale in cui ormai tutto viene pensato e vissuto dalla civiltà dell’Occidente». Qui, in una articolazione formale minuziosa e lucidissima, appaiono i presupposti logici e ontologici di tutto il pensiero di Severino, qui si trovano già formulate molte risposte alle obiezioni ricorrenti che incontrano le sue tesi estreme. Nella sua costruzione di trattato, dove ogni passo segue il precedente more geometrico, questo libro mobilita tutto il passato della metafisica occidentale per giungere a guardarla da un luogo a essa esterno. E proprio questa paradossalità ci permette di seguire in ogni suo meandro il lungo percorso di un pensiero che qui si azzarda al di là del «tramonto» del «concetto occidentale di ‘pensiero’».

da: Adelphi – Catalogo – Emanuele Severino – La struttura originaria.

Emanuele Severino su Etica e Capitalismo (1)

Il titolo della mia relazione e’ “Etica ed Economia”, e vorrei iniziare con il chiarire il senso di queste due parole, che sono due parole greche. “Etzos”, da cui derivano tutte le parole italiane, parole moderne che indicano l’etica, che nel suo significato iniziale indica “l’abitare”, il trattenersi in un luogo, il mantenersi in una sorta di stabilita’ protetta. Anche la parola “economia”, che sembra indicare qualcosa di cosi’ lontano dall’etica, indica in greco qualche cosa di simile alla parola “etica”, perche’ la parola “economia” viene da “oikos”, che indica la casa, l’abitazione, l’abitare, il luogo in cui si abita.

Dunque, certamente le due parole sembrano indicare universi molto lontani, pero’ hanno anche aspetti di rilevante vicinanza, questo dell’abitare in un luogo sicuro, protetto, che non e’ una questione strana, ma e’ la condizione degli uomini… noi, uomini, intendiamo mantenerci all’interno di un luogo protetto, che a volte chiamiamo “etzos”, altre volte chiamiamo “oikos”, “casa”, e affinche’ l’abitazione, l’abitare, sia sicuro, l’uomo ha sempre pensato di allearsi a quella che egli ritiene la potenza massima esistente nella realta’. Si vuole vivere al sicuro, e per vivere al sicuro, si allea alla Potenza massima che dapprima e’ la Potenza Divina, e’ il Dio o gli Dei, cosicche’ da questo punto di vista “etica” significa “abitare in modo sicuro” dove la sicurezza e’ determinata dall’alleanza con quella potenza divina che viene considerata come la potenza massima.

intera trascrizione della relazione qui:

I Presocratici raccontati da Emanuele Severino

—————————————————————————–

——————————————————————————

——————————————————————————-

——————————————————————————

—————————————————————————–

—————————————————————————-


vedi anche

EMANUELE SEVERINO racconta i PRESOCRATICI e la NASCITA DELLA FILOSOFIA, La Repubblica editore, 2019. Indice del libro

Emanuele Severino, La storia, l’aldilà, il destino


Emanuele Severino

La storia, l’aldilà, il destino

Argomento: Filosofia

Cofanetto contenente 7 DVD
1.560 minuti

Grande filosofo italiano dal pensiero complesso e sorprendente, Emanuele Severino è nato il 26 febbraio 1929 a Brescia. Laureatosi a Pavia nel 1950 con un altro grande teorico del pensiero italiano, Gustavo Bontadini, scrisse una tesi che già delinea in modo essenziale il campo dei sui interessi. Titolo: “Heidegger e la metafisica”. Ora Severino non solo ha vinto numerosi premi (Premio Tevere, Guidorella, Columbus), ma è anche Medaglia d’oro della Repubblica per i Benemeriti della Cultura. Da svariati anni, inoltre, è collaboratore del Corriere della Sera. E’ Stato docente all’Università cattolica del Sacro cuore di Milano, all’Università Ca’ Foscari di Venezia, all’Universit Vita-Salute San Raffaele di Milano.

La parola “destino”, che nel titolo compare per ultima, dovrebbe stare all’inizio. Il suo senso stabilisce infatti il senso delle altre due. Le restituisce alla sua stabilità. Stabile è ciò che non può essere negato. Che cosa c’è di innegabile in ciò che diciamo “storia” e “aldilà”? E d’altra parte, sia la “storia”, sia l’ “aldilà” non sono forse interpretazioni e quindi qualcosa di negabile? Propriamente, l’intento di questi incontri riguarda il destino della “storia” e dell’ “aldilà”.
Riguarda quindi, innanzitutto, il senso autentico del destino – il suo differire da ogni forma di sapere e di agire di cui noi abbiamo notizia, e quindi il suo stare nell’ “inconscio” più profondo dell’uomo.
Eppure è nello sguardo del destino che la storia mostra la propria destinazione alla civiltà della tecnica e l’aldilà mostra di essere il destino stesso, cioè la stessa essenza più profonda dell’uomo

EMANUELE SEVERINO sulla struttura e l’identità dell’ OCCIDENTE, lezione magistrale, Pistoia, 28 maggio 2010. Audio e Video (1 ora e 11 minuti)

Severino parla del mito come rimedio contro la morte e il dolore, e della nascita dell’ “Occidente”

Questa sua lezione è “fondante” perchè fa luce su tutto il nostro tempo storico.

E’ uno sguardo oltre il senso occidentale e planetario dell’identità, una riflessione sull’esser “cosa” e sull’identità dell’Occidente

Rimando anche ad una mia riflessione sul pensiero di Emanuele Severino: https://antemp.com/2012/05/17/conversare-attraverso-la-voce-di-emanuele-severino-incontro-con-paolo-ferrario-como-15-maggio-2012-ore-21/


AUDIO DELLA LEZIONE DI PISTOIA (un’ora e 11 secondi):


qui l’Audio in formato Mp3 scaricabile:

 Emanuele Severino, Identità occidentale. Mp3


VIDEO DELLA LEZIONE a  PISTOIA, il 28 maggio 2010   su youtube (

vai al sito DIALOGHI DI PISTOIA (edizione del 2010):

https://www.dialoghidipistoia.it/it/programma/2010/video


TRASCRIZIONE DELLA LEZIONE (in fase di correzione formale

Il titolo che vedete è l’identità occidentale, mentre avevamo concordato l’identità dell’occidente. E’ la stessa cosa.

Vorrei incominciare con un’osservazione di fondo relativa al  modo in cui questi festival vengono organizzati. L’impostazione di questi incontri è di carattere antropologico e infatti sono molti gli antropologi presenti nel programma. L’antropologia è una delle scienze specializzate. Accanto all’antropologia vi sono altre scienze specializzate intorno all’uomo. Scienze storiche, etnologiche e giuridiche, economiche.

Il pericolo di questa inevitabile situazione, e cioè il pericolo dell’approccio interdisciplinare, è che si lascia all’ascoltatore da solo a fare sintesi e capire. E’ più facile che lo specialista dica quelle che pensa e più difficile per chi ascolta sintetizzare la molteplicità dei punti di vista.

Esiste però da gran tempo un tipo di riflessione che da quando è nata si è assunta il compito di mettere in relazione i diversi punti di vista. Esiste da quando è nata e per l’inflazione del suo nome scorre via abbastanza indifferente rispetto a chi ascolta. Il nome è filosofia, che è un nome molto più denso di quanto non sembri a prima vista. Ma prescindendo dal nome, vorrei sottolineare che allora l’ascoltatore non è abbandonato a se stesso se ascolta la parola della filosofia, cioè se ascolta la parola del tentativo fatto da millenni di unificare i diversi punti di vista.

Immaginino l’uomo arcaico che si interessa di quello che ha vicino e invece quello  che chiamiamo filosofia porta all’attenzione più in là, ancora più in là fino alla totalità di ciò che è

E certamente più noi ci allontaniamo da quanto ci è vicino, tanto più restiamo delusi, perché a noi interessa quello che ci è più vicino e loro sanno che il più vicino a noi stessi siamo noi.

A me piace ricordare che la parola Io è una derivazione della parola, in latino, hic: “questo”. Il più questo dei questi sono io.

Siamo quindi interessati a noi stessi, allontanandoci da noi stessi seguendo il gesto della filosofia restiamo delusi perché ci portiamo al di là di ciò che immediatamente ci interessa. Allo struzzo interessa il buco che fa nella sabbia, dopo di che ci rimette le penne perché non vede il nemico che si avvicina e quindi è tolto di mezzo. La pericolosità dell’interesse per l’interesse per ciò che più è vicino.

Il nome filosofia è molto più denso di quanto immediatamente non dica la parola, che viene tradotta male: amore della sapienza. No. Tanto chilo in greco vuol dire qualcosa di più ampio e profondo che non amore, vuol dire cura, attenzione, per sopra è una parola che è costruita cu sa face e nell’antico greco saphes vuol dire chiaro, luminoso, non in ombra. Per capire la forza di questo non essere in ombra si pensi alla definizione che dà l’apostolo Paolo a proposito della fede: dice nella fede che è argomento non apparentium, e l’argomento delle cose che non appaiono e che la fede dice Dio si è fatto uomo. Ora che dio si sia fatto uomo, è qualcosa che non è di per sé visibile ed evidente. E la fede è l’argomento che trasforma in certezza ciò che di per sé è dubbio e la fede, cioè, si muove in una direzione opposta a quella in cui si muove la filosofia la quale invece è cura per ciò che è chiaro, ciò che è  in luce. Ci serviranno queste annotazioni preliminari per quanto dirò a proposito dell’identità dell’Occidente. Anche qui identità dell’occidente vuol dire la struttura che è in grado di dirci che cosa noi occidentali siamo ed è in grado dircelo raccogliendo una massa sterminata di dati di notizie, di eventi , di situazioni . ciò che noi siamo, che noi occidentali siamo. Si tratterà di capire in che senso l’occidente rafforzi al massimo la preistoria dell’occidente e nello stesso tempo se ne distacchi radicalmente. Nulla di difficile per un pubblico variegato, nulla di straordinario perché mi sto riferendo a ciò che più ci interessa e dicevo prima siamo noi, ma non noi in astratto, ma il nostro patire , il nostro soffrire, il nostro essere il luogo del patimento e della morte possibile, questo ciò è che innanzi tutto ci interessa se no perché Gesù avrebbe detto ama il tuo prossimo tuo come te stesso, perché anche lui sa che il nostro amore primario è per noi stessi. E’ amore per volontà di uscire dal patimento . tutti noi il dolore, il patimento, l’angoscia, lo conosciamo. I giovani sono in una situazione particolare perché imparano a patire. Per introdurre la parola filosofia: è come appunto amore della sapienza. Prima abbiamo detto cura per ciò che è chiaro. Straordinaria sapienza del linguaggio anche in questo caso perché mostra la densità delle parole che è sbiadita nelle traduzioni correnti: cura per ciò che è chiaro. C’è un altro decadimento quando si interpreta la parola filosofia come ciò che nasce dalla meraviglia. E’ un orribile traduzione della parola filosofia perché quando Platone, Aristotele usano ciò che noi traduciamo con la parola meraviglia, usano nella loro lingua, la greca, …. Thauma Che primariamente non vuol dire meraviglia, bensì l’angosciato terrore per la vita.. La filosofia nasce dal terrore per la vita e cos’è la vita: è il luogo del patimento, del dolore, della morte e non per la meraviglia che si può provare se si seguono certi testi aristotelici la diagonale non è commensurabile al lato si meraviglia.

Ci mancherebbe che fosse questo stupore di un intellettuale tranquillo nel suo laboratorio culturale.

Qualche filo… vuol dire amante del mito, anche il filo.. è in qualche modo filosofo e lo dice quando chiarisce Thauma  e allora non possiamo pensare che colui che ha cura per il mito abbia cura per il mito perché si meravigli, secondo quella atmosfera rarefatta della quiete intellettuale dove la diagonale non è commensura al lato. L’uomo del lutto  è quello che impara per la prima volta cosa vuol dire morire, soffrire, cosa vuol dire il calare del sole. Se lo immaginano l’uomo primitivo che per la prima volta quando apre gli occhi verso il cielo  vede che a  notte sparisce tutto. E’ una morte più terribile di quella che oggi siamo imparati a conoscere quando ci raccontiamo la morte di qualche conoscente che sia lontano dai ns affetti immediati. L’uomo primitivo che per la prima volta vede vicino a sé un corpo che si ferma, che non parla più, che imputridisce? Sono esperienze radicali che segnano il modo in cui uno vive e il modo in cui uno pensa. Siamo entrati nell’argomento che ci interessa perché identità dell’occidente vuol dire da un lato il differenziarsi massimo rispetto a ciò che avevo chiamato re occidente e che ora chiamiamo esistenza mitica, il mito. Dall’altro un’accentuazione estrema di questa stessa esistenza. Provo a farmi capire: l’uomo ha fdi fronte il pericolo e rispetto al pericolo cerca di difendersi. Il pericolo è appunto il dolore, la morte. E come cerca di difendersi l’uomo mitico, quindi non ancora l’uomo occidentale? O impadronendosi della potenza oppure alleandosi alla potenza Che cos’è la potenza? E ‘ quella che appare tale di fronte alle convinzioni dell’uomo arcaico, che vede le potenze negli animali, negli antenati morti, nel demonico, nel divino. Vede la potenza nel Dio e allora ci sono due atteggiamenti : uno ripeto è quello di impadronirsi della potenza che sta dinanzi a lui, all’uomo. L’altro, ripeto, è quello di allearsi con essa e se loro tengono presente il racconto del Genesi e lo collegano col nuovo testamento vedono la successione, la scansione di questi 2 atteggiamenti: Primo impadronirsi, secondo allearsi alla potenza. Dice il serpente ad Adamo  Eritis sicut dii … sarete come Dio. Se mangerete il frutto della conoscenza del bene e del male diventerete come Dio. Essere come Dio vuol dire detronizzare Dio. Mangiando questo frutto io diventerò Dio, mangiando vuol dire togliere Dio dal suo trono e mettermici io. Ma poi vuol dire anche che mangiare del frutto proibito è mangiare Dio, e la connessione è lampante: se mangiando il frutto sono come Dio è perché nel frutto c’è la potenza che inizialmente e originariamente è rinchiusa nel divino . e Adamo tenta appunto di fare questo: mangiare e distruggere Dio e questo atteggiamento dell’uccidere Dio si rispecchia in altri atteggiamenti. Mangiare , uccidere, ma anche l’accoppiamento sessuale. L’accoppiamento è un modo di togliere le distanze tra l’amante e l’amato in modo da poter realizzare una maggior potenza in entrambi. Questi gesti fondamentali: mangiare, uccidere, ricordiamo l’importanza dell’uccisione dell’animale, del nemico nell’esistenza non solo arcaica, purtroppo, anche dei nostri tempi. Qualcuno sopravvive solo perché uccide. In questi gesti fondamentali si cela il segreto che svela il tratto comune tra la preistoria dell’occidente e l’occidente. Che cosa vuol dire diventare Dio e quindi detronizzarlo, mangiarlo, identificarsi a lui? Userò una formula astratta che appartiene al novero di quelle cose che immediatamente non ci interessano e che quindi lasciano delusi, ma sono quelle cose che come dicevo prima intervengono da ultimo in chi  (bambini) in questi gesti  terribilmente familiari uccidere, mangiare unione sessuale, c’è un tratto comune che è astratto, ma che poi si rivela concretissimo e pensino a come è astratta la matematica. Ma se un’azienda volesse funzionare prescindendo dalle regole della matematica fallirebbe nel giro di qualche ora. Il massimamente astratto bisogna imparare a vederlo come il più potente e anche perché essendo astratto raccoglie sotto di sé una infinità di casi concreti E’ in grado di indicare tutti. Lo nomino: è l’uomo che uccide Dio per diventare eredis sit … sarete come Dio. L’uomo che tenta di uccidere Dio che cosa fa. Vuole diventare Dio, cioè ecco la formula astratta, vuole diventare altro: Lui vuole diventare Altro. Questo accade nel mangiare, nell’unione sessuale, ma accade in ogni istante della nostra vita, perché se faccio così, se la luce è eccessiva se metto la mano davanti al viso sono diventato altro da quello che ero quando non mi proponevo di ripararmi dalla luce eccessiva. Diventare Altro. Il diventare Altro è il modo in cui l’uomo si difende rispetto a quel diventare Altro che la morte , che il dolore come avvisaglia della morte, che poi è la morte. Allora si difende dalla morte diventando Altro. Noi usiamo qs espressione nel modo più tranquillo, ma arriveranno i tempi in cui le espressioni più tranquille e pacifiche, più apparentemente evidenti si mostreranno come enormi covi di vipere. Siamo abituati a pensare diventare Altro come ovvietà, chi è costui che ci parla di qs ovvietà, eppure è in qs dati astratti che viene raccolto  e resa reale tutta quell’infinità di situazioni concrete che noi crediamo essere il veramente interessante. SE tiriamo via il diventare altro che cosa diventa ogni momento della ns vita quotidiana interessante. Non c’è più perché ripeto basta spostare il braccio per ottenere un qualcosa, basta operare qs spostamento perché noi siamo voluti diventare altro da ciò che eravamo. Pacifico il concetto, così tranquillo o non c’è piuttosto da pensare in qs concetto l’idea di uno squartamento per cui noi siamo strappati da noi stessi per diventare altro. Cioè scissione da noi stessi, ma lo squartamento e il separarsi da noi stessi non è forse la caratteristica della morte. E allora stiamo cominciando a ire, l’uomo del mito vuole difendersi dalla morte, ciò dalla forma che per lui era più radicale del diventare altro, diventando altro nella prima delle 2 maniere che avevo nominato, cioè quella dell’impadronirsi della potenza divina, demonica degli antenati ecc

Restando al vecchio testamento il tentativo di Adamo fallisce e allora c’è una seconda fase dell’uomo se vogliamo utilizzare Q8 grande mito che ha dei corrispettivi in tutte le grandi religioni del mondo. C’è un secondo atteggiamento n cui l’uomo rendendosi conto della follia di lui fallito, e mortale di diventare Dio allora pensa di potersi difendere dalla morte e dal dolore alleandosi alla potenza, non volendo impadronirsene, ma alleandosi, L’alleanza con Dio è una delle parole fondamentali di tutta la religiosità. Avevo iniziato a  dire che l’occidente da un lato rafforza all’estremo l’atteggiamento mitico, dall’altro lato ne prende le distanze estreme. Lo conferma in modo radicale e lo smentisce in modo altrettanto radicale, perché? Il mito ci rassicura perché è il rimedio contro il dolore, Nel momento in cui Adamo si illude di poter essere con dio e  diventare Dio… questo è il momento transeunte del tentativo di Adamo di vincere la morte. Ma anche il momento dell’alleanza è il momento in cui Adamo pensa di vincere la morte solo che la morte è troppo importante perché sia affidata al mito. Il mito rassicura, ma gli dei, gli antenati, il demonico, il mondo col quale l’uomo si  rapporta o ostilmente o positivamente questo  modo che consistenza ha, questo  rimedio contro la morte che consistenza ha? Come resistere al dubbio che va sempre più montando che il rimedio sia fallace e non credo di esagerare dicendo che rispetto a tutti i problemi economici e politici che oggi abbiamo davanti quello del rimedio contro la morte è il più importante, anche per il modo in cui oggi la morte si presenta come scelta del terrorista, rispetto al quale i modi di dissuasione dell’uomo occidentale falliscono. La morte è assolutamente imprevedibile ed è il massimo dei mali. Quindi troppo debole il rimedio perché possa tranquillizzare l’uomo, troppo alta la posta perché il rimedio mitico possa soddisfare. Nasce a questo  punto il dubbio interno al mito e nasce  a questo punto l’occidente. Nasce il dubbio non intorno a qualche dimensione culturale ma nasce il dubbio intorno a quello in cui  per millenni e millenni l’uomo è vissuto. Dire che nasce il dubbio intorno al mito non vuol dire citare un capitolo della storia della cultura vuol dire citare la radice dell’intera civiltà occidentale, la radice della cultura, delle opere, delle situazioni, dell’ impero romano, della chiesa dello stato moderno, il dubbio intorno al mito, la volontà di vederci chiaro, la cura per ciò che è chiaro, la filo-sofia la cura per il saphes, e questo allora non è un discorso della filosofia, di storia della cultura, è il discorso che vede la radice di tutta la concretezza della storia dell’occidente. Il dubbio, può essere esercitato soltanto se non si è nel dubbio. Noi siamo abituati  a sentire in questa espressione: l’Europa nasce dallo spirito critico e lo spirito critico scandisce tutta una serie di epoche in cui lo spirito critico va via via modellandosi.  I greci pensando per la prima volta il dubbio, ma dunque rapportandosi allo thauma, al terrore della vita, e volendosi salvarsi veramente da questo terrore  , ecco ho usato l’avverbio cruciale e non possono che pensare che alla verità che il rimedio è un rimedio che non sia vero. Dio, gli dei, l’amore, la ricchezza, tutto possiamo accumulare qui davanti per cercare di erigere il monumento del rimedio, ma se tutto quanto usiamo non è vero, cioè è instabile, caduco, dubitabile, mito, invenzione, fantasia, e allora il rimedio con la morte è vacillante, non può restare l’uomo che appena guarda, appena spara gli occhi davanti al mondo, non può restare nel mito. Nasce la volontà di verità e quindi voltando radicalmente le spalle al mito. Ma insieme stiamo dicendo, confermando  nel modo più  radicale il mito. Che cosa vuol dire Q8 seconda affermazione? La filosofia, perché della filosofia si tratta quando s parla di questa volontà di verità, che poi diventerà volontà di verità, politica, economica, religiosa, giuridica. Che cosa accade con Q8 volontà di verità? E che cosa accade se questa volontà è conferma insieme del mito? All’inizio dell’occidente si inizia a pensare anche se parole erano già disponibili, si inizia a pensare il senso del nulla e anche questa è una parola che noi pronunciamo continuamente. Sono quelle parole terribili quanto più ci prestiamo attenzione e quando le usiamo con la convinzione di non imbatterci in qualcosa di pericoloso, e invece la parola non essere nel repente nelle lingue pre filosofiche da  sempre, ma è con la filosofia che si inizia a pensare a quel nulla radicale che è entrato nel nostro comune modo di pensare ma che in un certo momento nella storia dell’uomo si è fatto avanti sì quando esistevano le parole essere e nulla, ma non esisteva il loro senso radicale. Si …. A morire davanti al nulla. Q8 è ciò che accade quando la filosofia nasce. Oggi se facessimo una statistica soprattutto nei paesi occidentali, meno in America, ma nella sapiente Europa vedremmo che la maggior parte dei nomi o restano in dubbio o si dichiarano convinti che con la morte non c’è più nulla. Nulla vuol dire non un luogo da cui si fa ritorno come si pensa invece nell’esistenza mitica, quando il mito dice gli uomini muoiono e vanno in un luogo che può essere raggiunto e da cui possono ritornare. I riti di propiziazione dei popoli arcaici rispetto ai defunti. I defunti non sono gli annullati: sono trattati adeguatamente, sono i pericolosi, i temibili, bisogna offrire sacrifici per rabbonirli. E’ un’altra forma di alleanza con la potenza. Si comincia a morire davanti al nulla, è un modo nuovo di morire. Prima non si muore, prima del pensiero greco e poi anche per coloro che circondavano i primi pensatori del nulla, non morivano in questo modo. Si muore e si soffre in relazione a ciò che si credi di essere. Se si crede di essere degli annullabili si muore diversamente da come si muore come quando questo pensiero del nulla non è apparso all’orizzonte. L’occidente ha sviluppato nel modo più radicale Q8 pensiero del nulla, ma se è appunto così radicale e prima non pensato, non è forse insieme la radicalizzazione di quel modo di morire che prima avevamo definito come il diventar Altro? Ma certamente si diventa così Altro che da essenti, da esistenti, si diventa l’assolutamente non esistente, si diventa Nulla. Ecco perché dico che c’è un trait-d’union tra l’esistenza mitica che c’entra la propria sopravvivenza sulla convinzione di diventar altro delle cose e dell’uomo stesso, col paradosso per cui si vuole vincere il diventar altro della morte col diventar altro dell’impadronirsi e dell’allearsi con la potenza suprema, ecco perché dico che c’è un trait d’union tra il senso mitico del diventar altro e il senso nuovo , occidentale, greco e ormai planetario del diventar altro in cui l’altro è il nulla. Non abbiam imparato sin da bambini al catechismo che dio crea l’uomo e il mondo dal nulla? Ma se ci pensiamo bene per molti degli uomini che oggi vivono in occidente le cose più alte le hanno imparato da bambini al catechismo, hanno pensato al mondo , alla creazione e poi vanno finire in buona parte al montaggio dove il pensiero che li guida è di ripetere all’infinito lo stesso gesto che mantiene in vita il lavoro, ma che potenze interpretative  rispetto al mondo è ben poca cosa rispetto a quello che hanno imparato a catechismo di tutto il mondo creata da dio dal mondo. Dove pensiamo che il cristianesimo abbia pescato la parola nulla e il suo senso se non dal pensiero greco? E’ il pensiero greco che per primo ha portato alla luce il nulla e ciò che non è nulla. Le cose del mondo per un po’ di tempo si mantengono nell’esistenza e poi tramontano nel nulla , Il rimedio rispetto a questo pericolo estremo, il nuovo rimedio è la verità evocata dal pensiero filosofico che permane fino al secolo scorso, fino a Questi due grandi nomi Hegel, … prima e Einstein dopo.  Anche per questo  dato si pensa Dio da un lato in modo del tutto diverso da come prima Dio era pensato e perché non si vuol più un Dio evocato miticamente, ma si vuole un Dio vero. Dall’altro lato si conferma il rapporto con l’alleanza e possibilmente con la distruzione della potenza divina, soltanto che da ora in poi il processo sarà inverso. Dapprima ci si alleerà al divino e poi e arriviamo ai ns giorni si distruggerà il divino. Intanto dedichiamo qualche battuta alla tradizione dell’occidente e cioè al tentativo di vincere la morte evocando la verità ed evocando il Dio vero di cui molti di loro avranno fatto l’esperienza quando l’uomo cristiano qualsiasi cosa mi capiti sono nelle mani di dio, queste  parole semplici hanno una profonda saggezza. Essere nelle mani di dio non è un pensiero propriamente cristiano, è innanzitutto un pensiero filosofico essere cioè all’interno di un ordine universale , guidato da una potenza non smentibile e sperata da un sapere non smentibile. Io credo che si faranno pochi passi per ciò che riguarda i problemi del mondo fintanto che non si saprà che cos’è la verità       questa  distruzione    .. ma intanto tentiamo di capire che la morte può essere vinta respingendo il mito e soltanto se la potenza è posta con un sapere che non possa essere smentita. Cioè con un sapere vero, incontrovertibile, spesso si pensa alla filosofia come qualcosa di superfetazione al pensiero scientifico. La scienza fa i passi concreti e poi arriva la filosofia che tira le somme, ma fa cose inutili. Se filosofia fosse questo  sarebbe da lasciare da parte , invece il pensiero filosofico io posso vincere la morte se ciò che so di me e del mondo non è un’opinione, un racconto mitico, poesia, non è qualcosa prodotto dalla mia fantasia ma è un qualcosa che si riesca a raggiungere in modo innegabile. Qui sta tutta la densità e difficoltà del sapere filosofico il quale rispetto al sapere scientifico non è una superfetazione, è più radicale. Oggi la scienza, e concluderò, riconosce la propria controvertibilità ma direi che si perde il senso fondamentale dell’intera tradizione occidentale se non si guarda al senso dell’incontrovertibile. C’è una parola greca che questo senso lo restituisce con potenza: noi oggi parliamo di epistemologia, vuol dire riflessione sulla scienza, ma in questa parola sentiamo la parola episteme, che è una parola greca  e viene tradotta male quando in vocabolario vediamo episteme uguale a scienza. No. Anche qui il linguaggio è molto più potente di quanto non possa sembrare. Episteme : è ciò che sta ciò che non si smuove, ciò che non è abbattibile, non può essere divelto o messo in questione. Episteme sostantivizzazione del verbo stare che in greco è … = sto. Episteme è ciò che sta, che riesce a stare.  Che cosa è ciò che sta? Ci basti in questa sede richiamare la volontà di verità del pensiero filosofico, ma non un’astratta volontà culturale di verità, ma una volontà di verità per vincere la morte, per supportare la morte, per vincerla nel senso di sopportarla. Quando il cristianesimo dice che la fede è argomento delle cose non visibili, il cristianesimo 46,23

Parmenide di Elea

I Presocratici raccontati da Emanuele Severino


vedi anche

EMANUELE SEVERINO racconta i PRESOCRATICI e la NASCITA DELLA FILOSOFIA, La Repubblica editore, 2019. Indice del libro

L’eruzione vulcanica di Eyjafjallajokull: il dominio della Tecnica al cospetto della Natura


Eyjafjallajokull 
significa “Ghiacciaio dei monti sulle isole”.
Questo vulcano del Nord era rimasto silenzioso per 187 anni.
Ma in questi giorni si è risvegliato e ha paralizzato il traffico aereo europeo.
L’umanità, che è ospite sulla terra che le pre-esiste, ha dovuto prendere atto dei suoi limiti e soggiacere ai suoi ritmi geologici.
E’ stato un grande insegnamento.
Anche se presto la specie umana dimenticherà, purtroppo.
Emanuele Severino trova in questo evento una conferme ai fondamenti del suo immenso pensiero:

Quando la tecnica si arrende alla natura

Secondo la scienza l’Universo è incominciato con un’immane catastrofe, il big bang che ha squarciato i «sovrumani silenzi», e terminerà con un’altra non meno gigantesca catastrofe, l’entropia, la degradazione dell’energia, che a quei silenzi riconduce. Nel frattempo altre catastrofi devastano l’Universo e la Terra. Tra l’una e l’altra, intervalli che all’uomo sembrano lunghissimi e nei quali, d’altra parte, e frequenti, altre «minori» catastrofi si producono, quelle che uccidono migliaia di persone e di cui danno notizia i mass media. Il potenziale tecnico dell’uomo non è ancora in grado di fronteggiarle. Come sta accadendo con l’eruzione del vulcano islandese. Quel potenziale è invece in grado di gareggiare con la distruttività del fenomeno entropico: se scoppiasse un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Russia la terra sarebbe distrutta tanto quanto potrebbe esser distrutta dalla «Natura». Sul piano della distruttività Tecnica e Natura si combattono alla pari.

E dire che la Natura «si ribella» ha senso solo in relazione ai progetti dell’uomo. La sua ribellione, inoltre, può essere ben più radicale di quelle a cui ci è dato di assistere. A volte ci si trova di fronte ad affermazioni che sembrano inoffensive. Ad esempio questa, che le leggi della scienza (da cui la Tecnica è guidata) sono ipotetiche, cioè non sono verità assolute. Spesso gli scienziati se ne dimenticano. Ma l’ipoteticità delle leggi scientifiche significa ad esempio che un corpo, abbandonato a sé stesso, da un momento all’altro, invece di cadere verso il basso potrebbe andare verso l’alto. Qui la ribellione possibile della Natura è ben più radicale. La provvisorietà della destinazione della Tecnica al dominio del mondo è ancora più marcata.

Si fa avanti, in tutta la sua gravità, il problema della salvezza dell’uomo. Chi ci pensa? Quelli che si danno da fare per uscire dalle crisi economiche e politiche?
Sì, a quel problema le religioni si rivolgono. Ma con la fede. E la fede è ipotetica come le leggi della scienza. Ma l’uomo è destinato ad aver a che fare soltanto con ipotesi e a soppesare soltanto con ipotesi il pericolo da cui è circondato?

in Il Corriere della sera 18 aprile 2010

Emanuele Severino, Quando la tecnica si arrende alla natura …

Quando la tecnica si arrende alla natura

Secondo la scienza l’Universo è incominciato con un’immane catastrofe, il big bang che ha squarciato i «sovrumani silenzi», e terminerà con un’altra non meno gigantesca catastrofe, l’entropia, la degradazione dell’energia, che a quei silenzi riconduce. Nel frattempo altre catastrofi devastano l’Universo e la Terra. Tra l’una e l’altra, intervalli che all’uomo sembrano lunghissimi e nei quali, d’altra parte, e frequenti, altre «minori» catastrofi si producono, quelle che uccidono migliaia di persone e di cui danno notizia i mass media. Il potenziale tecnico dell’uomo non è ancora in grado di fronteggiarle. Come sta accadendo con l’eruzione del vulcano islandese. Quel potenziale è invece in grado di gareggiare con la distruttività del fenomeno entropico: se scoppiasse un conflitto nucleare tra Stati Uniti e Russia la terra sarebbe distrutta tanto quanto potrebbe esser distrutta dalla «Natura». Sul piano della distruttività Tecnica e Natura si combattono alla pari.
E dire che la Natura «si ribella» ha senso solo in relazione ai progetti dell’uomo. La sua ribellione, inoltre, può essere ben più radicale di quelle a cui ci è dato di assistere. A volte ci si trova di fronte ad affermazioni che sembrano inoffensive. Ad esempio questa, che le leggi della scienza (da cui la Tecnica è guidata) sono ipotetiche, cioè non sono verità assolute. Spesso gli scienziati se ne dimenticano. Ma l’ipoteticità delle leggi scientifiche significa ad esempio che un corpo, abbandonato a sé stesso, da un momento all’altro, invece di cadere verso il basso potrebbe andare verso l’alto. Qui la ribellione possibile della Natura è ben più radicale. La provvisorietà della destinazione della Tecnica al dominio del mondo è ancora più marcata.
Si fa avanti, in tutta la sua gravità, il problema della salvezza dell’uomo. Chi ci pensa? Quelli che si danno da fare per uscire dalle crisi economiche e politiche? Sì, a quel problema le religioni si rivolgono. Ma con la fede. E la fede è ipotetica come le leggi della scienza. Ma l’uomo è destinato ad aver a che fare soltanto con ipotesi e a soppesare soltanto con ipotesi il pericolo da cui è circondato?

in Il Corriere della sera 18 aprile 2010

da: Tracce e Sentieri

Blogged with the Flock Browser

Video Intervista a Severino – Prima parte

In occasione delle Vacances de l’Esprit 2008, Franco Bertossa ha intervistato il famoso filosofo italiano intorno ai punti chiave del suo pensiero. Prima parte della lunga intervista di Emanuele Severino

Blogged with the Flock Browser

MORO ANDREA, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Adelphi, 2010

MORO3035MORO3036MORO3037MORO3038MORO3039

In vacanza con Emanuele Severino, 29-30 maggio 2010, San Vincenzo LI,

29 – 30 maggio 2010
San Vincenzo (LI)

In vacanza con Emanuele Severino
La memoria e il nulla. Anche a proposito di Leopardi
Il Filosofo Emanuele Severino ci delizierà con quattro lezioni magistrali, durante le quali emergerà il genio filosofico di Leopardi, nello splendore naturalistico della Riserva Naturale di Rimigliano, sul mare della Toscana.
Biografia (da wikipedia)

Emanuele SeverinoEmanuele Severino Si laurea all’Università di Pavia nel 1950, come alunno dell’Almo Collegio Borromeo, discutendo una tesi su Heidegger e la metafisica sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. L’anno successivo ottiene la libera docenza in filosofia teoretica. Dal 1954 al 1970 insegna filosofia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. I libri pubblicati in quegli anni entrano in forte conflitto con la dottrina ufficiale della Chiesa, suscitando vivaci discussioni all’interno dell’Università Cattolica e nella Congregazione per la dottrina della fede (l’ex Sant’Uffizio). Dopo un lungo e accurato esame la Chiesa proclama ufficialmente nel 1970 l’insanabile opposizione tra il pensiero di Severino e il Cristianesimo.
Il filosofo, lasciata l’Università Cattolica, viene chiamato all’Università Ca’ Foscari di Venezia dove è tra i fondatori della Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale hanno insegnato e insegnano alcuni dei suoi allievi (Umberto Galimberti, Carmelo Vigna, Luigi Ruggiu, Mario Ruggenini, Gian Ruggero Manzoni, Italo Valent, Vero Tarca, Luigi Lentini, Giorgio Brianese, ecc.). Dal 1970 al 2001 è stato professore ordinario di filosofia teoretica, ha diretto l’Istituto di filosofia (diventato poi Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze) fino al 1989 e ha insegnato anche Logica, Storia della filosofia moderna e contemporanea e Sociologia. È stato docente alle Vacances de l’Esprit nel 1996, nel 2001 e nel 2008

Nel 2005 l’Università Ca’ Foscari di Venezia lo ha proclamato Professore emerito. Attualmente insegna presso l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È accademico dei Lincei e Cavaliere di Gran Croce. Da alcuni decenni collabora con il Corriere della sera.
Il luogo
San Vincenzo LI
La struttura che ci ospita è immersa in un’oasi di verde della macchia mediterranea tra i pini ed i lecci, i prati ed i giardini fioriti fino alla spiaggia di sabbia finissima ed al mare azzurro. I dintorni offrono paesaggi immersi nella rigogliosa vegetazione, l’incantevole atmosfera dell’isola d’Elba, il fascino e la bellezza del medioevo toscano, il Parco Forestale di Poggi Neri ed il Parco Archeominerario di San Silvestro.

Vacanze culturali alternative – In vacanza con Emanuele Severino

Blogged with the Flock Browser

Tradizione

Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 154-156

Tecnica

Umberto Galimberti (a cura di Aldo Belli), La lampada di Psiche, Casagrande, 2001
p. 149-183

Tecnica

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 197-200

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Intervento di Giovanni: Emanuele Severino e Massimo Cacciari

Caro Paolo,
se capisco bene, posso fare qui l’indicazione richiesta e penserai tu a metterla sull’antologia.
Scrivo qualcosa su Severino. Al più presto scriverò anche qualcosa su Cacciari.
Gli autori cui in questi anni sento di dovere molto sono più direttamente E.Severino, soprattutto per Essenza del nichilismo, Adelphi 1995 (prima ed. 1970) e Destino della necessità, Adelphi 1980, e M. Cacciari, per Dell’Inizio, Adelphi 1990 e Della Cosa Ultima, Adelphi 2003.
Due autori che, proprio per il fatto che rappresentano, almeno all’apparenza, due vie opposte, è vantaggioso leggere insieme.
L’uno, Severino, pone il pensiero dell’essere immutabile ed eterno del Tutto e, in esso, di tutto, di ogni cosa o momento e smaschera la follia del pensiero del non essere, del pensiero che quel che è stato o è o verrà non sia, che le cose vengano dal nulla e tornino al nulla: il pensiero del nulla è la follia in cui si dibatte l’Occidente sin dall’origine. La necessità è la verità eterna di ogni cosa ed è questa verità che va contemplata, poiché nulla viene e va, tutto è immutabile e non vi è divenire alcuno. Quel che viene e passa è, piuttosto, l’apparire di quello che a mano a mano appare, l’essere immutable, appunto, che, infinito, attraversa il cono finito dell’apparire… Il fascino di questo pensiero è veramente insuperabile. La durezza inflessibile del procedere razionale di Severino apre scenari di una lontananza abissale.. eppure quella lontananza è questo luogo in cui noi siamo…non vi è alcun oltre, la verità è qui… (tuttavia, si vorrebbe obiettare, è possibile non vederla…).

EMANUELE SEVERINO, scheda biografica in Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi, Marsilio editore, 2008

Emanuele Severino, LA FESTA E LO SGUARDO DEL MORTALE, con Piero Coda e Massimo Donà, Festival della filosofia “Crema del Pensiero” dal titolo “Ricordati di santificare le feste”, 2007, AUDIO di 90 minuti

Emanuele Severino risponde al questionario liberamente ispirato al gioco di Marcel Proust, di Paolo Di Stefano, in Io Donna, Il Femminile nel Corriere della Sera n. 28, 14 luglio 2007

2015-01-06_003241 2015-01-06_003309 2015-01-06_003321 2015-01-06_003332 2015-01-06_003343 2015-01-06_003355

 

Massimo Cacciari a Emanuele Severino: significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento

Caro Professore, fu soltanto dopo la pubblicazione del mio Krisis, nel 1976, che lessi per la prima volta le sue fondamentali opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma credo che proprio la distanza della mia formazione filosofica e delle mie prime esperienze culturali e politiche dal suo percorso di studioso e dall’ambiente in cui esso maturò, mi abbia permesso di avvicinarmi, forse più di altri, al significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento. Finché la «storia» della filosofia contemporanea continuerà ad essere «giocata» o all’interno della «linea» nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell’opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contradizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut aut. Quando finiranno le chiacchiere e confusioni alla moda, quando si potrà studiare la nostra epoca da una «buona» distanza, non dubito che tale decisione apparirà il problema fondamentale della nostra filosofia – e non solo. Heidegger – senza alcuna distinzione tra le varie fasi del suo pensiero – coglie tutta l’ intrinseca debolezza dell’antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo (lungi dal negarlo!), coerentemente e radicalmente, in un grandioso anti-Parmenide. L’opera di Severino (mille miglia oltre ogni astratta polemica) rappresenta l’altro polo. Davvero, ogni altra posizione sembra oggi «costretta» nella forma di questa polarità. Non credo, caro Professore, che aver compreso la sua lezione significhi semplicemente esplorare i contorni di tale polarità e saggiarne le conseguenze. Significa affrontarne la sua pretesa definitività, il suo «consummatum est». La strada finisce anche giungendo alla mèta – anch’essa è aporia. E l’ aporia può essere nuovo inizio. Su questo «scommettono» i suoi migliori allievi, io credo. Ne segua benevolmente l’improbus labor, senza mai consolarne debolezze e contraddizioni.

La sua lezione è pari a quella di Heidegger
Repubblica — 22 febbraio 2001

Emanuele Severino

Emanuele Severino

Brescia, 1929

Documenti correlati

 


VITA
Nato il 26 gennaio 1929 a Brescia, Emanuele Severino si laurea a Pavia nel 1950 con Gustavo Bontadini, con una tesi su “Heidegger e la metafisica”. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università. Dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989.OPERE
Note sul problematicismo italiano,Brescia, 1950; La struttura originaria (1957), Milano, 1981;Studi di filosofiadella prassi(1962), Milano, 1984;Essenza del nichilismo, Milano, 1972;Gli abitatori del tempo,Roma , 1978;Legge e caso, Milano, 1979;Techne. Le radici della violenza,Milano, 1979;Destino della necessità, Milano, 1980;A Cesare e a Dio,Milano, 1983La strada,Milano, 1983;La filosofia antica,Milano, 1985;La filosofia moderna,Milano, 1985;Il parricidio mancato,Milano, 1985;La filosofia contemporanea,Milano, 1988;Il giogo, Milano, 1989;La filosofia futura,Milano, 1989;Alle origini della ragione:Eschilo, Milano, 1989;Antologia filosofica, Milano, 1989;Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 1990;La guerra, Milano, 1992;Oltre il linguaggio,Milano, 1992;Tautotes, Adelphi, Milano, l995.

PENSIERO
A partire da Platone una “cosa” è ciò che si mantiene in un provvisorio equilibrio tra essere e non essere. Questa “fede nel divenire” implica che
l’ “ente” sia un niente, quando non è ancora nato o non è più. E’ questa, per Severino, la “follia” dell’Occidente, il “sentiero della notte”, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’angoscia del divenire, l’Occidente, rispondendo a quella che Severino chiama la “logica del rimedio”, ha evocato gli “immutabili” (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica sarebbe il modo in cui oggi domina il senso greco della “cosa”. All’inizio della nostra civiltà Dio – il Primo Tecnico – crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica – ultimo dio – ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia del divenire innanzitutto perché crede che il divenire esista.


Contributi dell’autore all’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche:

Trasmissioni

Articoli

Aforismi

Interviste

da: Emanuele Severino.

Biografia di Emanuele Severino (1929-2020)

Emanuele Severino è stato un influente filosofo italiano, nato a Brescia il 26 febbraio 1929 e scomparso nella stessa città il 17 gennaio 2020. La sua opera ha avuto un impatto significativo sulla filosofia contemporanea, in particolare per la sua critica al nichilismo e la sua proposta di un ritorno alla concezione dell’essere, ispirata ai presocratici, in particolare a Parmenide.

Formazione e carriera accademica

Severino si laureò in Filosofia all’Università di Pavia nel 1948, discutendo una tesi su Heidegger sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Filosofia teoretica nel 1950, iniziò la sua carriera accademica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1954. Qui divenne professore ordinario di Filosofia morale nel 1962 e pubblicò opere significative come Studi di filosofia della prassi (1962) e Ritornare a Parmenide (1964) [1][3][7].

Nel 1970, Severino si trasferì all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove contribuì alla fondazione della facoltà di lettere e filosofia. Rimase attivo in questa istituzione fino al 2001, quando divenne professore emerito. Durante il suo incarico, Severino ha diretto l’Istituto di Filosofia e ha insegnato vari corsi, inclusi logica e storia della filosofia [4][5][7].

Pensiero filosofico

Il pensiero di Severino è caratterizzato da una profonda riflessione sul concetto di essere. Egli sostiene che la storia della filosofia occidentale è segnata dal nichilismo, poiché molte correnti filosofiche tendono a ridurre l’essere al nulla. Per superare questa crisi, Severino propone un ritorno alla concezione dell’essere come immutabile e eterno, contrapposta all’idea del divenire [1][2][7].

Severino ha anche esplorato le implicazioni del suo pensiero per la tecnica e la società contemporanea, criticando il modo in cui il pensiero moderno affronta la questione dell’essere. Le sue opere principali includono titoli come Essenza del nichilismo (1972), La struttura originaria (1958) e Il destino della tecnica (2009), che riflettono la sua visione critica della tradizione metafisica [1][2][3].

Riconoscimenti e eredità

Severino è stato nominato Accademico dei Lincei nel 1994 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo contributo alla filosofia. Ha collaborato con importanti pubblicazioni italiane come il Corriere della Sera. La sua influenza si estende anche attraverso i suoi allievi e le generazioni successive di filosofi che hanno continuato ad esplorare i temi da lui introdotti [2][5][7].

In sintesi, Emanuele Severino rappresenta una figura centrale nella filosofia italiana del XX secolo, noto per le sue profonde analisi sull’essere e per la critica al nichilismo che permea gran parte della tradizione filosofica occidentale.

Citations:
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-severino/
[2] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2020/02/Emanuele-Severino-e-Gianni-Vattimo-In-cammino-verso-il-nulla–0930282d-897b-4310-8a53-b847c8ac5d24.html
[3] https://www.casadellacultura.it/1022/emanuele-severino-nel-ricordo-di-galimberti
[4] https://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4fca90dc08db4
[5] https://www.unive.it/pag/14024/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=8425
[6] https://www.vitaepensiero.it/scheda-articolo_digital/emanuele-severino/la-struttura-dellessere-001050_1950_05-6_43067002-378676.html
[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[8] http://www.filosofia.it/archivio/images/download/argomenti/SguardosuSeverino_Miligi_Torno_07.pdf
[9] https://www.emanueleseverino.it/biografia/

Emanuele Severino ha scritto numerose opere fondamentali che hanno influenzato profondamente la filosofia contemporanea. Di seguito sono elencate alcune delle sue principali opere:

Opere principali

  • La struttura originaria (1958): Un testo fondamentale che esplora il concetto di essere e la sua relazione con il pensiero.
  • Essenza del nichilismo (1972): In questo libro, Severino analizza il nichilismo e la sua influenza sulla cultura occidentale.
  • Il destino della tecnica (1988): Un’opera che discute le implicazioni filosofiche e sociali della tecnica nella vita contemporanea.
  • Il nulla e la poesia (1990): Un saggio che riflette sul tema del nulla in relazione all’arte poetica.
  • La filosofia dai Greci al nostro tempo (diverse edizioni): Un’opera che esamina l’evoluzione del pensiero filosofico dall’antichità fino ai giorni nostri.
  • Fondamento della contraddizione (2004): Un’analisi approfondita del principio di non contraddizione nella filosofia.
  • Antologia filosofica. Dai greci al nostro tempo (2006): Una raccolta delle opere più significative dei filosofi occidentali.
  • La gloria (2001): Un’opera che esplora il concetto di gloria attraverso una lente filosofica.

Tematiche trattate

Le opere di Severino affrontano temi come:

  • L’essere e il divenire
  • Il nichilismo
  • La tecnica e la sua influenza sulla società
  • La verità e la sua natura storica
  • La relazione tra poesia e nulla

Severino è noto per la sua capacità di affrontare questioni complesse con uno stile rigoroso e una profonda conoscenza della tradizione filosofica, rendendo le sue opere accessibili sia a studiosi che a lettori interessati.

Citations:
[1] https://librerie.unicatt.it/libri-autore/emanuele-severino.html
[2] https://www.larivistadeilibri.it/emanuele-severino/
[3] https://www.adelphi.it/catalogo/autore/941/emanuele-severino
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[7] https://www.lafeltrinelli.it/libri/autori/emanuele-severino
[8] https://www.mimesisedizioni.it/catalogo/autore/3900/emanuele-severino

Le opere di Emanuele Severino affrontano diversi temi centrali della filosofia, con un focus particolare sull’essere, il nichilismo e la condizione umana. Ecco un riepilogo dei principali temi trattati:

Temi principali

1. L’essere e la sua eternità

Severino pone al centro del suo pensiero la questione dell’essere, sostenendo che ogni ente è eterno e immutabile. Questa tesi è espressa in opere come La struttura originaria e Ritornare a Parmenide, dove afferma che l’essere non può mai diventare nulla, e quindi ogni essente esiste eternamente, indipendentemente dalla sua apparizione o scomparsa[1][2].

2. Critica al nichilismo

Severino analizza il nichilismo come una delle principali problematiche della filosofia occidentale, ritenendo che molte tradizioni filosofiche abbiano erroneamente accettato l’idea che l’essere possa divenire nulla. La sua critica si estende a diverse correnti di pensiero che, secondo lui, hanno contribuito a questa visione decadente della realtà[1][3].

3. Il divenire e l’illusorietà del cambiamento

Contrariamente alla concezione tradizionale del divenire come elemento fondamentale della realtà, Severino sostiene che il cambiamento è illusorio. Ogni ente, anche se appare in forme diverse nel tempo, rimane eternamente ciò che è. Questa idea si riflette nella sua metafora del “cerchio dell’apparire”, dove gli enti entrano ed escono dalla vista ma non dalla loro esistenza[1][2].

4. La condizione umana

Severino esplora anche la condizione dell’uomo nel contesto della verità e dell’errore. Sottolinea come l’uomo sia conteso tra la consapevolezza della propria mortalità e la verità dell’essere eterno. La sua filosofia invita a superare la percezione di caducità per riconoscere l’eternità intrinseca di ogni ente[2][5].

5. Riflessioni sulla tecnica e sulla società

Severino critica sia il capitalismo che il comunismo, vedendoli come espressioni di una “vita inautentica” dominata dalla tecnica. Egli avverte dei pericoli insiti in una società che perde di vista il significato profondo dell’essere a favore di un’esistenza superficiale e tecnocratica[1][3].

In sintesi, le opere di Emanuele Severino si concentrano su una visione filosofica radicale che sfida le convenzioni tradizionali riguardo all’essere, al cambiamento e alla condizione umana, proponendo una riflessione profonda sull’eternità e sull’illusorietà del divenire.

Citations:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[2] https://www.pandorarivista.it/articoli/emanuele-severino-filosofia-e-destino-occidente/
[3] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[4] https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-i/
[5] https://www.lelettere.it/blog/41/emanuele-severino-leternita-di-tutte-le-cose

Emanuele Severino interpreta il concetto di “dominio della tecnica” come un fenomeno centrale nella civiltà contemporanea, riflettendo sulla sua profonda influenza sulla condizione umana e sulla filosofia occidentale. Ecco i punti chiave della sua interpretazione:

1. La tecnica come espressione della volontà di potenza

Severino considera la tecnica non solo come un insieme di strumenti, ma come un’espressione della volontà umana di dominare e trasformare la realtà. In questo contesto, la tecnica diventa il principale mezzo attraverso cui l’umanità cerca di affermare il proprio potere sul mondo, ma al contempo rappresenta una perdita di controllo, poiché l’uomo finisce per diventare schiavo della propria creazione[1][5].

2. La tecnica e il nichilismo

Secondo Severino, il dominio della tecnica è intrinsecamente legato al nichilismo, che egli definisce come la grande contraddizione che muove l’Occidente. Questo nichilismo si manifesta nella convinzione che gli enti oscillino tra l’essere e il non essere, portando a una visione del mondo in cui la tecnica diventa l’unico principio di riferimento per l’agire umano. La tecnica, quindi, è vista come il culmine della fede nel divenire, un’idea che Severino critica profondamente[2][3].

3. La tecnica come destino dell’umanità

Severino sostiene che la tecnica ha assunto un ruolo così predominante da diventare il vero destino dell’umanità. Essa non è più semplicemente un mezzo per raggiungere fini, ma è diventata un fine in sé, trasformando radicalmente l’essenza dell’agire umano. Questo cambiamento implica che l’umanità non riesca a concepire un’esistenza al di fuori della dimensione tecnica[1][4].

4. Critica alla tradizione filosofica

Severino critica la tradizione filosofica occidentale per aver abbandonato l’essere parmenideo a favore del divenire, generando così una crisi esistenziale e una nostalgia per l’essere. In questo contesto, la tecnica rappresenta una risposta alla paura del nulla e all’angoscia del divenire, ma anche una forma di alienazione[5][6].

5. Impossibilità di limitazioni

Infine, Severino avverte che la tecnica avanza senza incontrare limiti invalicabili, liberata dalla filosofia contemporanea che le consente di procedere all’infinito. Questo aspetto solleva interrogativi etici e filosofici riguardo al futuro dell’umanità e alla direzione in cui ci sta portando il dominio della tecnica[3][5].

In sintesi, per Severino, il dominio della tecnica è una manifestazione complessa della condizione umana contemporanea, caratterizzata da una tensione tra desiderio di controllo e perdita di libertà, con profonde implicazioni filosofiche e sociali.

Citations:
[1] https://www.npensieri.it/approfondimenti/filosofia/filosofi/filosofia-contemporanea/domande-e-risposte-su-emanuele-severino/
[2] http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/5860/844768-1180261.pdf?sequence=2
[3] https://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/1185/1138/2152
[4] https://emanueleseverino.com/2021/02/16/il-pensiero-severino-come-egli-stesso-ricorda-in-unintervista-rammenta-quando-formulo-le-sue-idee-per-la-prima-volta-quelle-idee-destinate-a-suscitare-cosi-tanto-stupore-aveva-ventitre-anni/
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.docsity.com/it/docs/il-destino-della-tecnica-emanuele-severino-riassunti/5084305/
[7] https://www.ousia.it/content/Sezioni/Temi/Tesi/NichilismoTechnePoesia.doc