Il libro “Le querce non fanno limoni” di Chiara Francini, pubblicato da Rizzoli nel 2025, è un romanzo epico, intimo e corale che attraversa cinquant’anni di storia italiana, dalla Seconda guerra mondiale agli anni di piombo189.
La protagonista è Delia, ex partigiana, donna indimenticabile che affronta la guerra, l’amore e la perdita costruendo un luogo simbolico chiamato Il Cantuccio, spazio di condivisione, speranza e memoria15.
La narrazione intreccia le vite di vari personaggi, tra cui Irma, Mauro, Angela, Carlo, Sandro e altri, in un arazzo di voci, dialetti, cicatrici e sogni, ambientato tra Firenze e Campi Bisenzio15.
Il romanzo dà corpo alla Storia con la “S” maiuscola, trattando eventi come le torture a Villa Triste, la Liberazione, la strage di piazza Fontana e le contraddizioni della sinistra extraparlamentare, ma lo fa filtrandoli attraverso la quotidianità, i gesti, i silenzi e le parole non dette158. La scrittura è viva, alterna lirismo e parlato popolare, e si interroga sul significato della resistenza non solo politica ma anche esistenziale, al dolore, all’ingiustizia e al tempo156.
I temi principali di “Le querce non fanno limoni” di Chiara Francini sono:
La Resistenza e la memoria storica, con un’attenzione particolare agli eventi italiani dal secondo dopoguerra agli anni di piombo, come le torture a Villa Triste, la Liberazione e la strage di piazza Fontana1.
L’eredità politica, affettiva e ideologica, e il modo in cui la memoria si trasmette, si nasconde o si rivela nel tempo12.
Il coraggio di resistere non solo all’ingiustizia politica ma anche al dolore, al disincanto e al passare del tempo, intesa come una resistenza esistenziale14.
Le passioni, le lotte personali e familiari, le cicatrici lasciate dalla Storia sulle vite dei singoli, e la forza di rialzarsi nonostante le difficoltà1.
La costruzione di un luogo simbolico di condivisione e speranza, il Cantuccio, che rappresenta un rifugio concreto e ideale per i personaggi1.
L’identità e l’eredità emotiva che influenzano le scelte e i rapporti umani2.
La narrazione intreccia questi temi con una lingua viva che alterna lirismo e parlato popolare, dando voce a un affresco corale di vite segnate dalla Storia e dalla memoria
Il libro “Le querce non fanno limoni” di Chiara Francini riflette la storia italiana dagli anni ’40 agli anni di piombo attraverso una narrazione che intreccia eventi storici e vissuti personali. La protagonista, ex partigiana, e gli altri personaggi vivono e raccontano momenti cruciali come la Resistenza durante la Seconda guerra mondiale, la Liberazione, e la drammatica stagione degli anni di piombo, segnati da terrorismo, stragi e tensioni politiche9.
Il romanzo affronta in particolare la strategia della tensione e la violenza politica degli anni Settanta, con riferimenti a eventi come la strage di piazza Fontana (1969), le attività terroristiche delle Brigate Rosse, e il clima di scontro tra estremismi di destra e sinistra che caratterizzò quegli anni15. Attraverso le vicende dei personaggi, il libro dà voce alla complessità di quel periodo, mostrando come la Storia con la “S” maiuscola si rifletta nelle vite quotidiane, nelle scelte personali, nelle lotte e nelle cicatrici emotive.
Inoltre, il romanzo esplora il tema della memoria e dell’eredità storica, interrogandosi sul significato di resistenza non solo politica ma anche esistenziale, in un’Italia attraversata da grandi trasformazioni sociali e culturali, ma anche da drammi come il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e le tensioni che misero a dura prova le istituzioni repubblicane16.
In sintesi, il libro usa la narrazione corale e intima per riflettere la storia italiana dal dopoguerra agli anni di piombo, mostrando come eventi storici di grande portata abbiano segnato profondamente la società e le persone comuni.
Le “Lezioni d’autore” del Corriere della Sera sono una serie di video e testi disponibili sul sito del Corriere, create per studenti, docenti e adulti3.
Lanciate con l’obiettivo di promuovere la conoscenza e la cultura, queste lezioni coprono una vasta gamma di argomenti, tra cui storia, filosofia, fisica, letteratura e scienze13.
Struttura e Contenuti
Le lezioni sono presentate in formato video, con una durata variabile tra i 7 e i 10 minuti ciascuna3.
Ogni video è accompagnato da un testo redatto dall’autore della lezione3.
Ogni giorno, sul sito vengono proposte tre nuove lezioni, insieme a notizie, video e commenti3.
Obiettivi
Offrire agli studenti un’opportunità di ripasso in vista degli esami, in particolare l’esame di maturità3.
Fornire agli adulti la possibilità di colmare lacune culturali e approfondire argomenti di interesse3.
Promuovere la conoscenza come strumento per la crescita personale e la comprensione del mondo3.
Autori e Collaboratori
Le lezioni sono tenute da professori universitari, intellettuali e scrittori italiani3.
Tra i docenti figura anche Edoardo Balistri, studente di matematica e medaglia d’oro alle Olimpiadi della matematica23.
I professori Mauro Bonazzi, Walter Lapini, Paolo Di Stefano e Maurizio Ferraris hanno coordinato i gruppi di lavoro degli studiosi3.
Modalità di Accesso
Per i non abbonati al Corriere, è disponibile un’offerta speciale a prezzo bloccato per i primi due anni, che consente l’accesso a tutte le lezioni e alla navigazione illimitata sul sito3.
Per gli abbonati a “Naviga+” o “Tutto+”, il nuovo canale è accessibile senza costi aggiuntivi3.
Le “Lezioni d’autore” sono incluse nell’offerta “Tutto”, acquistabile con la Carta del Docente e la Carta della Cultura e del Merito3.
La strada giovane è il romanzo d’esordio di Antonio Albanese, pubblicato da Feltrinelli nella collana “I Narratori” il 1° aprile 2025. Con questo libro, Albanese – noto attore, comico e regista – si cimenta per la prima volta nella narrativa lunga, rivelando un talento per la scrittura intensa, drammatica ma anche attraversata da profonda tenerezza124.
Trama
Il romanzo è ambientato durante la Seconda guerra mondiale e prende ispirazione da una storia familiare dell’autore.
Il protagonista è Nino, un giovane panettiere siciliano delle Madonie che, dopo l’8 settembre 1943, viene catturato dai tedeschi.
Nino, come molti soldati italiani dell’epoca, diventa un IMI (Internato Militare Italiano): non ha nemmeno i diritti di un prigioniero di guerra e subisce privazioni estreme in un campo di prigionia in Austria, tra fame, freddo e paura145.
Nel campo, trova conforto nell’amicizia con Lorenzo, un giovane toscano colto e vivace, e con il Piemontese, un gigantesco macellaio che governa le cucine. Approfittando del caos dei festeggiamenti di Capodanno del 1944, i tre tentano la fuga.
Ma la libertà si rivela un percorso ancora più arduo: il viaggio verso la Sicilia diventa un’odissea tra gelo, fame, diffidenza e ostilità di una popolazione segnata dalla guerra.
Ogni passo avvicina Nino alla meta ma gli costa innocenza e giovinezza145.
A sostenerlo sono il ricordo della sua terra, il profumo dei biscotti preparati dal padre, il sapore dei babbaluci in umido, l’emozione della Targa Florio e soprattutto il pensiero di Maria Assunta, la donna amata che spera di riabbracciare145.
Temi e stile
Albanese racconta la storia di un “eroe normale”: un ragazzo di 22 anni ingenuo ma buono, che nonostante tutto riesce a restare tale grazie ai suoi ricordi, all’amore per la famiglia e la sua terra, e alla forza del sentimento che lo lega a Maria Assunta23.
Il romanzo è un omaggio ai giovani e al loro potenziale, alla capacità di resistere e di credere nel futuro anche nei momenti più bui.
Lo stile alterna tensione narrativa e delicatezza, con una scrittura che cerca di restituire onestamente la fisicità e le emozioni del protagonista, in continuità con il lavoro teatrale e cinematografico di Albanese, ma affidandosi questa volta solo alle parole123.
Origine e ispirazione
L’idea del romanzo nasce dal ricordo di uno zio di Albanese, che da bambino gli raccontava la sua fuga da un campo di internamento nazista e il lungo viaggio a piedi dall’Austria alla Sicilia.
L’autore ha voluto così restituire voce e dignità a chi ha vissuto quell’esperienza, scegliendo di raccontare non un eroe epico, ma un giovane qualunque, la cui forza sta nella capacità di resistere e di amare23.
“È un omaggio ai ragazzi, alla loro forza, al loro potenziale ignorato. Non spaventatevi davanti alle porte chiuse. Apritele.”
Edith Bruck, scrittrice ungherese naturalizzata italiana, pubblicherà il suo nuovo romanzo “La donna dal cappotto verde” con La Nave di Teseo, disponibile in libreria a partire dal 21 gennaio 2025. Questo libro affronta temi profondi come la memoria e la testimonianza, esplorando il conflitto tra il rancore legato ai ricordi e la possibilità di trovare sollievo attraverso la narrazione[2][8].
Nata il 3 maggio 1931 a Tiszakarád, in Ungheria, Bruck è stata deportata ad Auschwitz all’età di 13 anni e ha vissuto esperienze traumatiche nei campi di concentramento, che ha poi trasformato in una vasta opera letteraria. I suoi scritti non solo raccontano l’Olocausto, ma anche la sua vita dopo la guerra, evidenziando le sfide affrontate dai sopravvissuti[1][3][7].
“La donna dal cappotto verde” si inserisce nel suo ampio repertorio che include opere significative come Chi ti ama così e Il pane perduto. La sua scrittura è caratterizzata da un linguaggio evocativo e da una profonda introspezione, rendendo Bruck una voce fondamentale nella letteratura contemporanea[4][6].
Sono trascorsi quarant’anni da quando il figlio del fabbro di Dovia ha mosso i primi passi in politica; quasi venti da quando ha impugnato lo scettro del potere; poche settimane da quando ha annunciato agli italiani che il destino batte l’ora della guerra. Proprio adesso, alla fine di giugno del 1940, quel destino offre al Duce un segno, forse un presagio: Italo Balbo, il condottiero della Milizia, il maresciallo dell’aria celebre in tutto il mondo, viene abbattuto in volo da fuoco amico. Ma non c’è più tempo per volgersi indietro. Affinché la Storia metta in scena l’immane tragedia della guerra, ciascuno deve interpretare la sua parte.
Come il generale Mario Roatta, feroce pianificatore di rappresaglie e capo di un esercito spaventosamente impreparato; Galeazzo Ciano, ossessionato dall’idea di dominare il Mediterraneo; Edda, pronta a unirsi alla Croce rossa per avere la sua prima linea; Clara Petacci, che stringe tra le braccia un uomo sempre più simile a un fantasma; Amerigo Dùmini, l’assassino di Matteotti, che ha prosperato ricattando quel fantasma; e la lunghissima sfilza di gerarchi, tra cui Dino Grandi, sempre più insofferenti verso il Duce.
Costretta a fare il proprio dovere è poi una generazione intera di italiani, uomini, donne, soldati, tra cui l’alpino Mario Rigoni Stern, arruolatosi volontario, che nel gelo del fronte russo apre gli occhi sulla natura del dramma a cui partecipa, o il maggiore Paolo Caccia Dominioni, che deve guidare il suo reparto nelle sabbie della tragica battaglia di El Alamein.
E infine c’è lui, Benito Mussolini, ancora convinto di poter bilanciare in Europa le brame conquistatrici di Hitler ma in realtà pronto a scodinzolare al fianco della tigre tedesca come un patetico sciacallo.
A questo quarto pannello della sua epopea letteraria e civile Scurati affida il gigantesco affresco dell’Italia fascista sui fronti del secondo conflitto mondiale, degli errori, degli orrori e dell’eroismo ancora possibile per uomini e donne reduci da vent’anni di dittatura. E tratteggia il ritratto al nero di un uomo di fronte al destino che ha plasmato per sé e per un’intera nazione, un uomo solo all’incrocio tra il parallelo del crepuscolo e un meridiano di sangue.
«In fondo, la vera materia della Storia, quel che la costituisce, è pur sempre la geografia». È su questo assunto che Paolo Pagani dà inizio al suo viaggio, in parte biografia e in parte reportage, in parte narrazione romanzesca e in parte memoir, sulle tracce di Walter Benjamin, filosofo inafferrabile, randagio per vocazione prima ancora che per necessità, intellettuale raffinatissimo e poliedrico, capace di interessarsi a «una costellazione di temi solo in apparenza inconciliabili: il messianismo teologico, i giocattoli, i romanzi gialli, l’arte, il dramma barocco tedesco, la radio, la fotografia, i nuovi media, le esperienze allucinogene con gli stupefacenti, le città e i loro misteri nascosti benché eloquenti». Eppure incamminarsi con lui attraverso le sue esperienze, i suoi nomadismi, il suo pensiero spesso impervio e anticipatore significa non soltanto seguire il dipanarsi di un’esistenza, ma anche compiere un itinerario incandescente dentro a una stagione di ferro e fuoco, dagli inizi del Secolo Breve sino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Significa incontrare Benjamin, dunque, ma anche le idee della sua epoca, i formidabili ingegni del suo tempo: da Ernst Bloch a Theodor Adorno, da Max Horkheimer a Bertolt Brecht, da Hannah Arendt a Joseph Roth e moltissimi altri. E quel cammino che Pagani ha ripercorso quasi passo passo per infiniti anfratti d’Europa non poteva che cominciare dalla fine, dalla stanza numero 4 dell’hotel di Port-Bou, al confine tra Francia e Spagna, dove intorno alle dieci di sera del 26 settembre 1940, sopraffatto dalla tragedia della Storia e dalle assurdità degli uomini, il dottor Walter Benjamin ingoia una dose letale di pillole di morfina e muore. A un soffio dalla salvezza e per sempre ignaro dell’ultima, feroce beffa della sorte.
Figlio indisciplinato e renitente di un grand seigneur, uomo sfortunatissimo e totalmente sprovvisto di senso pratico, marxista eterodosso e libertario, filosofo atipico e sincopato, indagatore della modernità capitalista, critico letterario sopraffino, traduttore di Baudelaire e Proust, teorico rivoluzionario molto sui generis, scrittore asistematico ma saggista eccelso, Walter Benjamin, classe 1892, una delle figure intellettuali più originali, inclassificabili e poliedriche del Novecento, vittima predestinata della barbarie.
Hanno detto di Nietzsche on the road:
«La scrittura di Pagani procede con un metodo che non è filosofico, ma narrativo: con tutti i colpi di scena necessari alla drammaturgia del personaggio, col risultato di trovarci davanti a un “reportage sentimentale”, a un “dramma filosofico in movimento”». Massimo Onofri, Avvenire
«Ciò che Pagani riesce a comunicarci, a partire dalla geografia, è la profondità di un’inquietudine che ha il colore bluastro e la cupezza di certe tele di Munch». Paolo Di Paolo, Robinson
Redenta è nata a Castrocaro il giorno del delitto Matteotti. In paese si mormora che abbia la scarogna e che non arriverà nemmeno alla festa di San Rocco. Invece per la festa lei è ancora viva, mentre Matteotti viene ritrovato morto. È cosí che comincia davvero il fascismo, e anche la vicenda di Redenta, della sua famiglia, della sua gente. Un mondo di radicale violenza – il Ventennio, la guerra, la prevaricazione maschile – eppure di inesauribile fiducia nell’umano. Sebbene Bruno, l’adorato amico d’infanzia che le aveva promesso di sposarla, incurante della sua «gamba matta» dovuta alla polio, scompaia senza motivo, lei non smette di aspettarlo. E quando il gerarca Vetro la sceglie come sposa, il sadismo che le infligge non riesce a spegnere in lei l’istinto di salvezza: degli altri, prima che di sé. La vita di Redenta incrocia quella di Iris, partigiana nella banda del leggendario comandante Diaz. Quale segreto nasconde Iris?
– Ha qualcosa che non va, la purina, – dicevano. – È la scarogna, – ripeteva tranquilla mia madre, premendomi sulla bocca il seno. – Però ha una bella faccina, – aggiungevano, e quel «però» era il segno della loro compassione. «Però è buona», «Però è tranquilla». Però non è come gli altri. – Com’è che non piange? – chiedeva la sera mio padre. – Piangerà. Le donne prima o poi piangono tutte.
Hanno detto de Il valore affettivo:
«L’autrice procede con voce sicura nel dipanare il filo dei ricordi, con autenticità, senso del ritmo e padronanza di tempi». Viola Ardone
«Nicoletta Verna ha scritto un romanzo familiare di rara intensità che affonda nell’enigma di un sentimento di colpa senza redenzione». Corrado Augias
«Una penna che controlla perfettamente trama e personaggi». Valeria Parrella
Nel 1494, solo due anni dopo la ‘scoperta dell’America’, a Tordesillas, una piccola località della Castiglia, veniva firmato un trattato tra Spagna e Portogallo che divideva il mondo in due e inventava l’Occidente come spazio, comunità e cultura. Mai nessuno si sarebbe potuto aspettare che una semplice firma avesse conseguenze così gigantesche e durature.
Questa è la storia di come, tra medioevo ed età moderna, le società europee (all’inizio spagnoli e portoghesi in testa) spinsero le proprie ambizioni sempre più verso l’oceano e così facendo trasformarono l’idea che esse avevano dell’Ovest: quella che era una direzione divenne poco alla volta uno spazio pensabile.
È perciò una storia di grandi navigatori e di dibattiti violenti tra geografi, una storia di sfide e di esplorazioni che solcarono l’ignoto. Ma è anche la storia dei dibattiti culturali che ne seguirono e che inventarono e definirono quell’Occidente che prima mancava dalle mappe. E il punto di arrivo di questa storia siamo noi.
In un momento in cui tutto questo appare ormai largamente messo in discussione, forse vale la pena riprendere il discorso da capo e chiedersi come si sia giunti alla nostra idea di Occidente. Come una direzione geografica ha fatto nascere e maturare un’idea di appartenenza.
Quel che non possiamo fare è darlo per scontato. Pensare che noi si sia davvero da sempre così, che la nostra storia, la nostra cultura e la nostra civilizzazione corrispondano da sempre a quello spazio indistinto con i piedi in Europa e la testa nell’Atlantico: quell’Occidente che in questo secolo faticoso appare sempre più difficile da stringere nelle nostre idee e nelle nostre mappe.
Il padre della lingua italiana, l’autore di un capolavoro che è anche un trattato di psicologia umana — i drammi dei dannati, le pene del purgatorio, le glorie celesti — che diventa un veicolo allegorico della salvezza umana: Dante e la Divina Commedia sono al centro del nuovo c. Ogni martedì alle 21.10 su Rai Storia
Amerigo Speranza è l’io narrante di una storia straordinaria, dura, di un romanzo che racconta la vicenda poco conosciuta di migliaia di bambini meridionali che nel secondo dopoguerra, grazie al Partito Comunista, vennero strappati alla miseria e affidati a famiglie del Nord e del Centro.
Amerigo è povero, vive a Napoli con la madre Antonietta, figlio unico senza un padre, forse sparito in America, «a faticare». La madre decide di offrirgli l’opportunità di una vita migliore, non vuole più mandarlo a raccogliere le «pezze»; per lui desidera scuola, cibo, salute.
Il bambino parte per il Nord spaventato dalle dicerie sulle cattiverie e sulla crudeltà dei comunisti; sale sul treno per recarsi in un altrove sconosciuto dove troverà, gli hanno garantito, una famiglia affettuosa e una casa accogliente. Il romanzo di Viola Ardone «ha il pregio, davvero consolante, di raccontare la storia di un bambino in affido senza occultarne alcun aspetto. E anzi rispettando la straziante “doppiezza” della vita di Amerigo, la perdita della mamma e la sconfitta della fame, le radici recise e la nuova serenità, l’insicurezza indegna e la protezione “artificiale” imposta dall’altro e al tempo stesso provvidenziale» (Michele Serra, «la Repubblica»).
Ci sono fotografie capaci di segnare un’epoca, di lasciare un segno, di sintetizzare mille parole. Immagini destinate a fissarsi per sempre nella nostra memoria e a costruire l’immaginario collettivo.
Mario Calabresi, giornalista e grande appassionato di fotografia, ha viaggiato a lungo per incontrare gli autori di scatti divenuti ormai iconici e farsi raccontare quali emozioni li avessero attraversati mentre fermavano sulla pellicola un pezzo di Storia. Il fotogiornalismo, come il giornalismo, è fatto di pazienza, dedizione e costanza.
Per essere credibili bisogna andare dove i fatti accadono, per vedere, capire e testimoniare. Non può farlo chi si limita a osservare il mondo dall’alto, chi resta distante e distaccato, ma soltanto chi è pronto a calarsi anche nelle realtà più crude, chi si immerge nelle storie correndo rischi.
Lo sanno bene Josef Koudelka, che ha documentato la Primavera di Praga del 1968, Don McCullin, testimone dei sanguinosi conflitti in Vietnam e nell’Irlanda del Nord, Steve McCurry, che ha affrontato i monsoni e attraversato l’Afghanistan in macerie, o Gabriele Basilico, che ha immortalato una Beirut distrutta da anni di guerra civile. I fotografi incontrati da Calabresi hanno accettato di raccontare i momenti che li hanno definiti: l’umanità dolente in fuga dai massacri ruandesi o gli schiavi delle miniere a cielo aperto ritratti da Sebastiao Salgado, le discriminazioni razziali americane testimoniate da Elliott Erwitt o i rifugiati palestinesi ai quali, nelle sue immagini volutamente un po’ sfocate, rivolge con pudore lo sguardo Paolo Pellegrin.
Questo libro contiene le lezioni di Susan Meiselas, capace di costruire rapporti di una vita con i soggetti delle sue foto, come le denunce in bianco e nero di Letizia Battaglia, che ha messo sotto gli occhi dell’Italia la realtà della mafia siciliana. “A occhi aperti” è un affascinante viaggio non solo nella fotografia, ma negli eventi che hanno fatto la Storia degli ultimi cinquant’anni, ancora oggi vividi e toccanti grazie a uomini e donne che hanno saputo cogliere l’attimo perfetto.
Come può un uomo come Zvi Luria, che è sempre stato affidabile e solido, un punto di riferimento per famiglia e amici, un ingegnere che costruiva strade e tunnel, scendere a patti con il proprio inevitabile declino mentale? Come possono farlo sua moglie e i suoi figli? Come ci si comporta di fronte alla razionalità che lentamente svanisce?
E come si affronta la paura? Yehoshua costruisce intorno a queste domande una toccante meditazione sull’identità e sull’amore, sui gesti che è necessario compiere prima di congedarsi.
Una vicenda intima e privata che s’intreccia a doppio filo con quella collettiva e politica del popolo palestinese e di quello israeliano, vicinissimi eppure cosí distanti dal trovare un modo per esistere insieme.
Pubblicato nel 1941 a cura di Elio Vittorini, Americana propone una scelta antologica della letteratura statunitense che in quegli anni stava diventando in Italia e non solo un modello per gli scrittori più giovani
Etty Hillesum, scomparsa poco prima di compiere trent’anni ad Auschwitz, con il suo diario e le sue lettere ci ha lasciato una straordinaria testimonianza del cuore nero del Novecento ed è diventata un simbolo della resistenza spirituale di fronte al Male. Ma prima di trasformarsi in una figura simbolica, racconta Elisabetta Rasy in questo libro, la intrepida ebrea olandese è stata una giovane donna libera, inquieta e irriverente, tenacemente intenta alla scoperta di sé stessa e del senso dell’esistenza, desiderosa di amore e di amicizia nelle loro mutevoli forme, dall’affetto e dalla tenerezza fino alla passione assoluta, e vera maestra di una giovinezza senza tempo in cui ognuno può riconoscere le proprie emozioni, la forza e la fragilità, la paura e il coraggio. Ci sono libri che, se non cambiano la vita, ci toccano in profondità e ci fanno scoprire qualcosa di noi che non sapevamo.
Questo è stato il Diario di Etty Hillesum per Rasy che, ricostruendone la vicenda umana e letteraria, si è trovata a indagare su sé stessa, tra ricordi e riflessioni, e sui temi eterni della vita umana: i complicati arabeschi dell’amore, le tortuose vie dell’anima, la necessità di non soccombere all’orrore, la possibilità di trovare gioia anche nei momenti più difficili, il desiderio di vivere a pieno la propria vita, infine il senso della scrittura autobiografica, questa singolare inchiesta sui propri segreti e misteri. Con la maestria dei grandi autori, Rasy intreccia la vita di Etty Hillesum con quella di altre giovani donne straordinarie dello stesso terribile periodo storico, da Edith Stein a Simone Weil a Micol Finzi-Contini, l’eroina del romanzo di Giorgio Bassani, e con le vicende di scrittrici e scrittori amati e dei loro altrettanto amati personaggi. Fino a comporre un doppio romanzo di formazione, quella dell’indimenticabile ragazza olandese e la propria.
Elisabetta Rasy, è nata a Roma dove vive e lavora, avendo passato l’infanzia a Napoli, la città della sua famiglia. Ha pubblicato numerosi libri di narrativa e saggistica tra cui La prima estasi; (Mondadori 1985), Posillipo (Rizzoli 1997, Premio Selezione Campiello), La scienza degli addii (Rizzoli 2005), L’estranea (Rizzoli 2007), Memorie di una lettrice notturna (Rizzoli 2009), Figure della malinconia (Skira, 2012), Le regole del fuoco (Rizzoli, 2016, Premio Selezione Campiello), Le disobbedienti (Mondadori, 2019) ispirato a sei importanti pittrici del passato. Nel maggio 2021 ha pubblicato Le indiscrete (Mondadori), storie di vita e arte di cinque grandi fotografe del Novecento. È stata tra i fondatori della casa editrice Edizioni delle donne e della rivista Panta. Le sue opere sono tradotte in molti paesi europei. Ha scritto di letterature e di arte per numerose riviste culturali e testate giornalistiche italiane. Attualmente collabora al supplemento domenicale del “Sole 24 ore”.
Hanno ragione Pigi Battista e Giampiero Mughini quando, a proposito di Peter Handke, premio Nobel per la letteratura, dicono che uno scrittore va giudicato per la qualità dei libri e non per l’appoggio a dittatori e mascalzoni vari e alle loro porcherie, altrimenti dovremmo buttare molti dei migliori.
Ma di ragione ne ha tanta di più Gianni Riotta quando, sulla Stampa, ricorda che Handke fu al fianco di Slobodan Milošević e della sua macelleria bosniaca perché il premio Nobel, lo svalutatissimo premio Nobel, andrebbe aggiudicato a chi abbia messo l’arte al servizio del «massimo beneficio per l’umanità» e della «fraternità fra le nazioni».
La fraternità fra le nazioni, ad Handke, interessava al punto da sorvolare sull’orrida carneficina di Srebrenica, oltre ottomila musulmani bosniaci uccisi dai serbi di Milošević e Ratko Mladić.
Ma in fondo è giusto così, tutto torna. I caschi blu olandesi dell’Onu si girarono dall’altra parte e lasciarono che a Srebrenica la carneficina si compisse e uno di loro, sconvolto, scrisse su un muro “UN – united nothing”, Unito Niente al posto di Nazioni Unite. Per dire quanto importassero la fraternità e l’umanità all’Onu, all’Europa, a ognuno di noi che fremevamo per l’assedio di Sarajevo giusto il tempo di un servizio del tg.
Oggi quell’«united nothing» è la perfetta targa sull’Europa mentre premia i suoi figli più degni e mentre si sdilinquisce per i lager libici e per il tradimento criminale dei curdi, purché a distanza di sicurezza, e armata di un vocabolario pigro e imbelle, in attesa di incoronarne un altro con un vocabolario di qualche pagina in più.
Serres era una figura molto popolare in Francia, anche perché non esitava a comparire in dibattiti e trasmissioni televisive per confutare il «declinismo» e la tendenza di molti intellettuali, reazionari e non, a idealizzare il passato ritenendolo un’epoca d’oro rispetto alla presunta barbarie e decadenza contemporanea. Serres era convinto del contrario, e chiamava il nostro tempo l’«epoca dolce»: guerre, attentati e orrori esistono ancora, ma nella sua visione sono scorie di una civiltà superata.
La storia di Roma antica o storia romana tratta le vicende di Roma dalla sua fondazione nel 753 a.C. alla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C., anno in cui si colloca convenzionalmente l’inizio del Medioevo.
Ovunque si getti lo sguardo, i giornali son pieni del nome di Mussolini. A quelli che non l’hanno mai visto lo descrivo io, Mussolini. Punto per punto, tratto per tratto. Genitori di Mussolini, non sforzatevi di criticarmi! Non gli somiglia? La copia più esatta è la sua politica. Mussolini ha un orribile aspetto. Nude le estremità, nera la camicia, sulle braccia e sulle gambe migliaia di peli a ciuffi. Le braccia arrivano ai calcagni e scopano per terra. Nell’insieme Mussolini ha l’aspetto di scimpanzé Non ha faccia : al suo posto ha un enorme marchio da brigante. Quante narici ha ogni uomo! È inutile! Mussolini in tutto, ne ha una sola, e anche questa gli è stata spaccata esattamente in due alla spartizione del bottino.
Devi effettuare l'accesso per postare un commento.