Memoria

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 107-109

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Malinconia

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 104-107

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Invidia

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 94-96

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Legge

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 96-99

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Identità

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 83-85

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Erotismo

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 63-65

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Dio

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 49-51

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Democrazia

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 47-48

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Corpo

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 40-41

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Anima

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 23-25

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Amore

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
19-22

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Alterità

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 17.18

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Gabriele De Ritis, CAMMINARSI DENTRO (98): Più che di amore della saggezza, parleremo di saggezza dell’amore.

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Max Weber (1864 -1920): ETICA DEI PRINCIPI ed ETICA DELLA RESPONSABILITA’, 1919. Scheda di Paolo Ferrario, redatta nel 2009 per un corso di formazione

Nella sua ormai famosissi­ma conferenza sul tema Politica come professione (tenuta a Mona­co il 28 gennaio 1919, un anno prima della sua morte), Max We­ber trattò in modo disincantato il tema del rapporto fra etica e politica.

La politica è il dominio della forza. Chi ha la «vocazione» per la politica (Beruf in tedesco significa sia professione sia vocazio­ne) sa di dover affrontare aspre lotte. Solo uomini astuti e dal carattere forte potranno affrontare le insidie «diaboli­che» della politica, il cui terre­no proprio è l’uso della forza.

E’ per definire questo carattere che Weber introduce la distin­zione tra

  • etica della convin­zione” — o più precisamente “eti­ca dei princìpi” (Gesinnungsethik)
  • ed “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).

La prima è un’etica assoluta, di chi ope­ra solo seguendo principi rite­nuti giusti in sé, indipendente­mente dalle loro conseguenze. E’ questa un’etica della testimonianza assolutizzata: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.

La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica. L’etica della responsabilità si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mette in atto.

Il pro­blema, scrive Weber, è che «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle vol­te dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determi­nare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il ma­le — «in politica è un fanciul­lo».

Le due etiche non sono però «antitetiche ma si comple­tano a vicenda, e solo- congiun­te formano il vero uomo, quel­lo che può avere la “vocazione per la politica“», salvo ribadire che tra esse non potrà mai dar­si vera conciliazione né armo­nia a buon mercato.

La lezione di realismo di Weber si spinge così fin den­tro le pieghe dell’etica. Egli afferma che solo un atto di reponsabilità può risolvere, nell’azione, i “dilemmi etici” che il politico, e in generale chiunque abbia responsabilità verso il prossimo, si trova ine­vitabilmente di fronte. I valori sono più d’uno, ognuno ugual­mente importante nella propria sfera, e non sempre sono armo­nizzabili, ma possono scontrar­si ed entrare in conflitto quando è il momento di agire.

Questo è il senso del concetto di “politeismo dei valo­ri“.

Le precedenti annotazioni sono tratte dalle conferenze La scienza come professione e La politica come professione,  pubblicate (con il titolo Il lavoro intellettuale come professione) nei “Saggi” Einaudi, tradotti da Antonio Giolitti e con l’introduzione di Delio Cantimori.

Nel 2001 sono state ripubblicate dalle edizioni Comunità a cura di Pietro Rossi e Francesco Tuccari. Il traduttore Wolfgang Schuchter sostituisce la locuzione “etica dei princìpi” a quella di “etica della convinzione” e così ne spiega la motivazione:

La difficoltà più rilevante riguarda la coppia concettua­le Gesinnungsethik-Verantwortungsethik, che ha un ruolo centrale in Politik als Beruf. mentre il secondo termine trova una ovvia corrispondenza in «eti­ca della responsabilità», la stessa cosa non vale per il primo, data l’assenza in italiano (ma anche nelle altre lingue principali) di un equivalente preciso del tedesco Gesinnung. Esso è stato tradotto da Giolitti con «etica dell’in­tenzione», mentre in seguito si è preferito, sulla scorta della versione ingle­se e di quella francese, renderlo con «etica della convinzione». L’una e l’al­tra soluzione sono però insoddisfacenti, poiché la Gesinnungsethik weberiana non costituisce un’etica della pura intenzione in senso kantiano, né trova la propria base in una semplice «convinzione»: essa riveste per un verso un significato soggettivo, in quanto designa l’incondizionata adesione perso­nale a certi principi che devono guidare l’agire dell’individuo, e per l’altro verso un significato oggettivo, in quanto comporta il riferimento a principi assunti come incondizionatamente validi, che l’individuo assume come pro­pri scopi indipendentemente dalla considerazione dei mezzi necessari e del­le prevedibili conseguenze della loro realizzazione. Si è perciò preferito adot­tare qui un’altra versione (ancorché legata, in parte, a una diversa tradizio­ne di filosofia morale), rendendo Gesinnungsethik con «etica dei principi».

Ma leggiamo direttamente il testo:

L’etica può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale. Facciamo alcuni esempi.

Raramente troverete che un uomo, il quale abbia smes­so di amare una donna per un’altra, non senta il bisogno di giu­stificarsi con se stesso dicendo che la prima non era più degna del suo amore, o che lo aveva deluso, o adducendo altre «ra­gioni» simili. Si tratta di una mancanza di cavalleria che, al sem­plice dato di fatto che egli non la ama più e che la donna deve portarne le conseguenze, aggiunge ancora una parvenza di le­gittimità, in forza della quale egli pretende un diritto e cerca di rovesciare sulla donna, oltre all’infelicità, anche un torto. Si comporta esattamente allo stesso modo il concorrente fortuna­to in amore: il rivale deve valere di meno, altrimenti non sa­rebbe stato sconfitto.

Le cose non vanno ovviamente in modo diverso quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vinci­tore afferma con una tracotanza priva di dignità: ho vinto per­ché avevo ragione. Oppure, quando qualcuno crolla interior­mente di fronte agli orrori della guerra e, invece di dire sem­plicemente che era troppo, sente il bisogno di giustificare di fronte a se stesso la sua stanchezza della guerra con questo sen­timento: «Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa moralmente cattiva». E lo stesso accade per chi è sconfitto in guerra. Dopo una guerra, invece di andare in cer­ca del «colpevole» con una vecchia mentalità da donnicciole -quando è stata invece la struttura della società a determinare la guerra – chiunque assuma un atteggiamento virile e sobrio dirà al nemico: «Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è ormai cosa fatta: concedeteci ora di discutere su quali conse­guenze se ne debbano trarre in relazione agli interessi oggetti­vi che erano in gioco e – questa la cosa principale – in rappor­to alla responsabilità di fronte al futuro, che grava special­mente sul vincitore».

Tutto il resto è privo di dignità e ha gravi conseguenze. Una nazione perdona una ferita dei propri inte­ressi, ma non una ferita del proprio onore, e tanto meno una fe­rita inflitta con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni fa sorgere nuovamente grida di sdegno, l’odio e l’ira, mentre la guerra, una volta terminata, dovrebbe essere almeno moralmente sepolta. Questo è possibile soltanto attraverso l’oggettività e la cavalleria, ma so­prattutto mediante la dignità. E mai attraverso un’« eti­ca», che in verità significa mancanza di dignità da entrambe le parti. Invece di preoccuparsi di ciò che interessa l’uomo politico – il futuro e la responsabilità di fronte a esso – l’etica si occupa della questione della colpa commessa nel passato, una questio­ne politicamente sterile perché indecidibile. Agire in que­sto modo è una colpa politica, se mai ve n’è una. E inol­tre, l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene oc­cultato da interessi assai materiali: l’interesse del vincitore al guadagno – morale e materiale – più alto possibile, le speranze dello sconfitto di procurarsi qualche vantaggio attraverso il ri­conoscimento della propria colpa: se vi è mai qualcosa di « v o l g a r e », è proprio questo, ed è la conseguenza di un siffatto modo di utilizzare l’«etica» come pretesto per «mettersi dalla parte della ragione».

Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica ? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta af­fermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire?

Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sa­rebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero esse­re formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Do­vrebbe essere davvero cosi indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo cosi specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza ? Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica, giungono esat­tamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore milita­re ? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del po­tere del vecchio regime ? E in che cosa, ancora, si distingue la polemica che la maggior parte dei rappresentanti della presun­ta nuova etica ha scatenato contro i suoi avversari da quella di qualsiasi altro demagogo? Ci si dirà: per la nobile intenzione! Bene. Ma qui è dei mezzi che si sta parlando, e anche gli av­versari con cui si combatte pretendono per sé allo stesso iden­tico modo, in piena sincerità da un punto di vista soggettivo, la nobiltà delle proprie intenzioni ultime. «Chi di spada ferisce, di spada perisce», e la lotta è sempre lotta. E dunque, l’etica del sermone della montagna? Con il sermone del­la montagna – vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo – si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla legge­ra. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scien­za: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per sa­lirvi o scenderne20. Al contrario: tutto oppure niente, è pro­prio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Cosi, per esempio, la parabola del gio­vane ricco: «Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ric­chezze». Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto. L’uomo po­litico dirà: una pretesa insensata dal punto di vista sociale, fin­tantoché non viene realizzata per tutti. E dunque: tassazioni, espropriazioni, confische, in una parola: coercizione e ordine per tutti. Ma il precetto etico non chiede affatto una cosa del genere, ed è questa la sua natura. Oppure: «Porgi l’al­tra guancia». Incondizionatamente, senza chiedere come mai spetti all’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità, eccetto che per un santo. Questo è il punto: si deve essere san­ti in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli Apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora quest’etica è dotata di senso ed è espressio­ne di una dignità. Altrimenti no. Infatti, quando in conseguenza di un’etica acosmica dell’amore si dice: «Non opporti al male con la violenza», per l’uomo politico vale il prin­cipio opposto: devi resistere al male con la violenza, altri­menti sarai responsabile della sua affermazione. Chi intenda agi­re secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi – poiché essi rappresentano una forma di coercizione – e si iscriva ai sin­dacati gialli. E soprattutto non parli di «rivoluzione». Infatti quell’etica non intende certo insegnare che proprio la guerra ci­vile sia l’unica forma di guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo i precetti del Vangelo rifiuterà o getterà via le armi, co­me veniva raccomandato in Germania, in quanto ciò rappresenta un dovere morale, allo scopo di porre fine alla guerra e dunque a ogni guerra. L’uomo politico dirà: l’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un periodo in qualche modo preve­dibile sarebbe stata una pace di status quo. I popoli si sa­rebbero chiesti allora: a che scopo la guerra? Essa sarebbe sta­ta ridotta ad absurdum, ciò che oggi non è più possibile. Infat­ti per i vincitori – o quanto meno per una parte di essi – essa è stata politicamente vantaggiosa. E di ciò è responsabile quella condotta che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Quando dunque l’epoca della stanchezza sarà trascorsa, non la guerra, ma la pace sarà screditata: una conseguenza dell’etica assoluta.

Infine: il dovere della verità. E un dovere incondizionato per l’etica assoluta. Se ne è dunque dedotta la conseguenza di pubblicare tutti i documenti, soprattutto quelli che accusano il proprio paese, e sul fondamento di questa pubblicazione unila­terale di riconoscere la propria colpa unilateralmente, senza condizioni, senza riguardo alle conseguenze. L’uomo politico troverà che in tal modo non si è promossa la verità, ma la si è sicuramente oscurata attraverso l’abuso e lo scatenamento del­le passioni; che soltanto una verifica generale, condotta secon­do un piano e attraverso giudici imparziali potrebbe dare buo­ni frutti, e che ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che cosi agisce, conseguenze che si dovranno ancora ri­parare tra decenni. Ma è proprio sulle «conseguenze» che l’e­tica assoluta non si interroga.

Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramen­te conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ri­condotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dal­l’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsa­bilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo.

Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima del­l’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, re­cita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agi­re nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’eti­ca della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sinda­calista convinto che agisca in base all’etica dei principi voi po­trete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’a­zione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudi­zio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati ta­li.

Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media de­gli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giusta­mente detto Fichte” – di dare per scontata la loro bontà e per­fezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguen­ze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro prin­cipio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continua­mente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare.

Ma nemmeno cosi il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fi­ni «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eti­camente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o an­che alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente peri­colosi e le sue possibili conseguenze collaterali.

Per la politica il mezzo decisivo è la violenza, e quanto sia grande la portata della tensione tra il mezzo e il fine da un pun­to di vista etico lo potete desumere dal fatto, noto a tutti, che i socialisti rivoluzionari (corrente di Zimmerwald) già duran­te la guerra professavano un principio che si potrebbe cosi for­mulare: « Se ci trovassimo a dover scegliere tra un anno di guer­ra ancora e poi la rivoluzione, oppure la pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di guerra! » All’ulteriore domanda: «Che cosa può portare questa rivolu­zione?», qualsiasi socialista dotato di una qualche preparazio­ne scientifica avrebbe risposto che non si poteva parlare di un passaggio a un’economia che si potesse definire socialista nel senso da lui inteso, ma che sarebbe sorta una nuova eco­nomia borghese, la quale avrebbe potuto soltanto far piazza pu­lita degli elementi feudali e dei residui dinastici. Dunque, per questo modesto risultato: «Ancora qualche anno di guerra! » Si potrà certo affermare che in questo caso, anche con una assai salda convinzione socialista, si potrebbe respingere il fine che richiede un tale mezzo. E tuttavia nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni forma di socialismo rivoluzio­nario, le cose stanno esattamente allo stesso modo, ed è natu­ralmente assai ridicolo quando da questa parte vengono moral­mente rimproverati i «politici della forza» del vecchio regime a causa dell’impiego dell’identico mezzo, per quanto possa es­sere del tutto giustificato il rifiuto dei loro fini.

Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principi sembra in ge­nerale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente sol­tanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principi si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre «l’amore alla violenza», nell’istante successivo invitano alla violenza – alla violenza ultima , la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza – cosi come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace.

Colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità eti­ca del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione.

Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principi e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine deb­ba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio.

[ …]

Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevo­le di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi del­l’amore acosmico per l’uomo e del bene – provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani – non hanno ope­rato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo», e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Karataev e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di al­tre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto sol­tanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può tra­sformarsi in un conflitto insanabile.

[ …]

In verità: la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. In ciò coloro che agiscono in base al­l’etica dei principi hanno pienamente ragione. Ma se si debba agire in base all’etica dei principi o all’etica della respon­sabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. Si può dire soltanto una cosa: se adesso, in que­sti tempi (come voi pensate) di n o n «sterile» agitazione – ma l’agitazione non è sempre del tutto genuina passione – se ades­so improvvisamente i politici che agiscono in base al­l’etica dei principi si presentassero in massa con la parola d’or­dine: «Non io, ma il mondo è stupido e mediocre, la responsa­bilità per le conseguenze non riguarda la mia persona, ma gli altri, al cui servizio io lavoro, e la cui stupidità o volgarità io sradicherò», io dico allora apertamente che in primo luogo vor­rei interrogarmi sulla sostanza interiore che sta die­tro questa etica dei principi. Ho la sensazione che in nove casi su dieci mi troverei di fronte a degli spacconi che non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebriano di sensa­zioni romantiche. Ciò non mi interessa molto dal punto di vi­sta umano e mi lascia del tutto indifferente. Suscita invece un’e­norme impressione sentir dire da un uomo maturo – non importa se vecchio o giovane anagraficamente – il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: «Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo». Questo è un at­teggiamento umanamente sincero e che commuove. E infatti una tale situazione deve certamente potersi verificare una volta o l’altra per chiunque di noi non sia privo di una pro­pria vita interiore. Pertanto l’etica dei principi e l’etica della re­sponsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto in­sieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vo­cazione per la politica».

[ …]

La politica consiste in un lento e tenace superamento di du­re difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tem­po stesso. E certo del tutto esatto, e confermato da ogni espe­rienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fer­mezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di rea­lizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicu­ro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole of­frirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto que­sto: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica.

Da: Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, 2001, pagg. 97-113


Altre informazioni su questo argomento rintracciabili in rete:

https://tinyurl.com/2p86xbse


Haruki Murakami, A Sud del confine a Ovest del sole (1992), Feltrinelli, 2005, riflessione di Paolo Ferrario

Haruki Murakami è, per me, un autore generazionale.

Intendo per generazionale uno che ha attraversato il mio stesso arco di tempo: quello della seconda metà del novecento.

Murakami ha preso la distanza, un po’ come hanno fatto (rispetto alla loro storia) alcuni protagonisti tedeschi del ciclo Heimat di Edgar Reitz, dalla tradizione giapponese, dai loro rituali imperiali, dalle loro culture così difensive verso l’esterno del mondo.

Murakami è un autore che parla di adolescenze, di maturità, di adultità, di musicalità transculturali. Un suo alter ego si racconta così:

”Sono nato il quattro gennaio 1951, nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime, che significa “inizio” “

A Sud del confine, a Ovest del sole, pag. 9

In questo romanzo Hajime trascorre la prima adolescenza con Shimamoto. Ascolta con lei le sinfonie di Rossini, la Pastorale di Beethoven, il Peer Gynt. Ma ascoltano anche Nat King Cole, Bing Crosby.

Poi i due ragazzi si perdono di vista.

Hajime , nell’età dei licei, “uscirà” con Izumi, scoprendo i primi contatti dei corpi nudi. Poi farà l’amore con la cugina di Izumi: “nei nostri incontri andavamo subito al sodo. Consumavo con avidità quello che avevo davanti e così lei”.

Tutti figli unici questi giovani: c’è questo ad accomunarli.

Studierà, parteciperà alla stagione delle lotte politiche giovanili, comincerà a lavorare, si sposerà con Jukiko, farà carriera.

Ma ad un certo momento il Daimon del destino riunisce ancora Hajime e Shimamoto.

Le pagine seguenti segnano i caratteri fra l’irreale e l’esperienziale di quell’incontro. C’è anche Duke Ellington ad incidere quei momenti.

“Sai, Shimamoto,” dissi. “Per tutto questo tempo ho desi­derato incontrarti, per poter parlare un po’ con te. Volevo dirti tante cose.”

“Anch’io volevo rivederti, alla fine tu non ti sei più fatto vivo. Ti ricordi? Quando abbiamo iniziato le medie e ti sei trasferito nell’altra città, ho aspettato a lungo che venissi a trovarmi. Perché sei scomparso così? Ero molto triste. Pensai che avessi fatto altre amicizie in quel nuovo ambiente e che ti fossi dimenticato di me.”

Shimamoto spense la sigaretta nel portacenere. Le sue unghie erano ricoperte da un velo di smalto trasparente. Erano così levigate e perfette che sembravano l’opera raffi­nata di un artigiano.

“Avevo paura,” dissi.

“Paura?” fece lei. “E di che cosa? Avevi forse paura di me?”

“No, non di te. Temevo solo che potessi respingermi. Sai, ero ancora un ragazzino e non potevo immaginare che tu mi stessi aspettando. Ero davvero terrorizzato all’idea di essere rifiutato da te. Temevo che, venendo a casa tua, sarei stato di disturbo e così decisi di allontanarmi da te. Pensavo: piutto­sto che rimanere ferito, è meglio conservare il ricordo dei giorni felici trascorsi insieme.”

Shimamoto chinò leggermente la testa. Poi prese un anacardio e lo fece rotolare nel palmo della mano.

“Le cose non vanno mai come vorremmo!”

“E proprio così,” dissi io.

“Eravamo destinati a rimanere amici per molto più tempo! A essere sincera non ho avuto più nessun amico, né alle medie, né alle superiori e nemmeno durante l’università. Sono rimasta sempre sola. Ho sempre pensato a come sareb­be stato bello se ci fossi stato tu vicino a me, mi sarebbe bastato anche solo poterti scrivere qualche lettera. Molte cose sarebbero andate diversamente e sarebbero state più facili da sopportare.” Rimase per un po’ in silenzio, poi con­tinuò: “Non so perché, ma dalle medie in poi ho iniziato ad andare male a scuola. E più non riuscivo a farcela, più mi chiudevo in me stessa. Era come un circolo vizioso”.

Annuii.

“Fino alle elementari sono riuscita a cavarmela abbastan­za bene, ma poi è stato un disastro. Mi sentivo come prigio­niera in fondo a un pozzo.”

Anch’io avevo provato una sensazione simile, nei dieci anni dall’inizio dell’università fino al matrimonio con Yukiko. Se qualcosa comincia ad andare storta trascina con sé il resto. Tutto sembra andare sempre peggio, non si riesce a trovare alcun rimedio, a meno che qualcuno non riesca a tirarti fuori.

“Innanzitutto, avevo quel difetto alla gamba e molte cose, che per gli altri erano normali, per me erano impossibili. E così passavo il mio tempo a leggere libri e me ne stavo sem­pre per conto mio. Inoltre, avevo, come dire, un aspetto che non passava certo inosservato. Quindi quasi tutti mi consi­deravano una persona complessa e superba. O forse ero diventata davvero così.”

“Forse eri troppo bella,” dissi. Prese una sigaretta e se la mise in bocca: gliela accesi con un fiammifero.

“Pensi davvero che io sia bella?” mi domandò.

“Lo penso davvero e credo che te lo sia sentito ripetere tante volte.”

Shimamoto scoppiò a ridere. “No, non è vero. A essere sincera, non è che il mio viso mi piaccia tanto. Perciò sono contenta di sentirmi dire questo da te,” disse. “Comunque sia, non piaccio molto alle donne. Purtroppo. Spesso ho pensato a come sarebbe stato meglio poter essere una ragaz­za comune, avere degli amici come tutti, anche a costo di sentirmi dire che non sono bella.”

Shimamoto allungò una mano e sfiorò leggermente la mia sul bancone. “Ma mi fa piacere sapere che sei felice!”

Io rimasi in silenzio.

“Perché sei felice, o sbaglio?”

“Non lo so. Di sicuro non mi sento infelice, né solo,” dissi, aggiungendo poco dopo: “A volte, però, mi è capitato di pensare che il periodo più felice della mia vita è stato quando noi due ce ne stavamo nel tuo soggiorno ad ascolta­re la musica”.

“Sai, quei dischi li conservo ancora adesso. Nat King Cole, Bing Crosby, Rossini, il Peer Gynt e altri. Li ho ancora tutti. Me li ha lasciati mio padre prima di morire, come suo ricordo. Li avevamo custoditi con tanta cura che ancora adesso non hanno neanche un graffio. Ti ricordi come maneggiavo con delicatezza quei dischi?”

“E così tuo padre è morto?”

“E morto cinque anni fa, per un cancro all’intestino retto.

È stata una morte terribile. E pensare che era una persona così piena di vita!”

Avevo incontrato diverse volte il padre di Shimamoto. Sembrava un uomo forte e solido come la quercia che stava nel giardino di casa sua.

“E tua madre sta bene?” le domandai.

“Sì, suppongo di sì.”

Notai qualcosa di particolare nel suo tono di voce. “Non vai d’accordo con tua madre?”

Shimamoto finì il suo daiquiri, poggiò il bicchiere sul banco e chiamò il cameriere. Poi mi domandò: “Dai, consi­gliami un cocktail speciale della casa!”.

“Ci sono diversi cocktail originali. Il più apprezzato è quello che porta il nome del locale, il ‘Robin’s Nest’. E una mia invenzione, è a base di rum e vodka. Si fa bere subito, ma è molto forte.”

“L’ideale per far cadere una donna fra le proprie braccia!” “Tu non lo sai, Shimamoto, ma i cocktail sono fatti pro­prio per questo.”

Scoppiò a ridere e disse: “Allora ne assaggerò uno”. Dopo che le portarono il cocktail, rimase per un po’ a osservarne il colore. Ne bevve un sorso e chiuse gli occhi, per poterlo assaporare meglio. “Ha un gusto molto particola­re,” disse. “Né dolce, né amaro. Ha un sapore semplice e delicato, ma si sente anche una certa corposità. Non sapevo che avessi questo talento.”

“Non sono capace di costruire neanche una mensola, non so cambiare il filtro dell’olio della macchina, né attaccare un francobollo dritto. Spesso sbaglio perfino a digitare i numeri di telefono, però sono stato capace di creare diversi cocktail originali, molto apprezzati dai miei clienti.”

Shimamoto poggiò il suo cocktail sul piattino e rimase a fissarlo per un po’. Lo inclinò e il riflesso delle luci del soffit­to oscillò debolmente.

“Non vedo mia madre da tantissimo tempo. Circa dieci anni fa abbiamo avuto dei contrasti e da allora non ho quasi più avuto contatti con lei. Ci siamo incontrate solo al funera­le di mio padre.”

Il trio jazz aveva finito di suonare un proprio blues origi­nale e il pianoforte aveva attaccato Star-Crossed Lovers. Quando io ero nel locale, il pianista suonava spesso per me questa ballata, sapendo che mi piaceva. Non era uno dei pezzi più famosi di Duke Ellington e non era neanche legato a un mio particolare ricordo personale. Mi era solo capitato di sentirla una volta e da allora mi dava sempre una forte emozione. Sia da studente, sia quando lavoravo alla casa edi­trice, la sera ascoltavo infinite volte il pezzo Star-Crossed Lovers dell’LP Such Sweet Thunder. C ‘era un assolo delicato e raffinato di Johnny Hodges. Quando ascoltavo quella bellis­sima e languida melodia, mi tornavano sempre in mente quei giorni. Non era stato certo un periodo felice della mia vita, con tutte le aspirazioni insoddisfatte che avevo allora. Ero molto più giovane, pieno di desideri e molto più solo. Ero la stessa persona, ma come “ridotta all’osso” e resa sen­sibilissima. La musica che ascoltavo allora e i libri che legge­vo, li sentivo penetrare dentro di me, nota per nota, riga per riga. I miei nervi erano tesi e affilati come cunei e nel mio sguardo c’era una luce così penetrante che sembrava quasi voler trafiggere gli altri. Quando riascoltavo Star-Crossed Lovers mi tornavano in mente sempre quei giorni e i miei occhi riflessi nello specchio.

“A essere sincero, una volta, quando ero in terza media, sono venuto a trovarti. Provavo un senso di solitudine insop­portabile,” le dissi. “Avevo cercato di telefonarti, ma il nume­ro era cambiato. Allora presi il treno e venni fino a casa tua, ma sulla targhetta del tuo portone c’era un altro nome.”

“Due anni dopo il tuo trasferimento, andammo ad abita­re a Fujisawa, vicino a Enojima, dove mio padre era stato mandato per lavoro. Da allora ho vissuto sempre lì, fino a quando non ho cominciato l’università. Dopo essermi tra­sferita, ti ho scritto una cartolina con il nuovo indirizzo. Non ti è arrivata?”

Scossi la testa: “Se l’avessi ricevuta, ti avrei risposto. Che strano! Ci deve essere stato sicuramente qualche errore”.

“Forse siamo noi due a essere sfortunati!” disse Shimamo­to. “Per una serie di contrattempi, finiamo sempre per perder­ci. Ma parlami un po’ di te, di che cosa hai fatto finora.”

“Non è che ci sia molto di interessante da dire,” risposi io.

“Non importa, voglio sapere lo stesso.”

Le feci un resoconto generale della mia vita. Le dissi che avevo avuto una ragazza negli anni del liceo, con la quale, però, alla fine mi ero comportato molto male. Non le rac­contai i particolari della storia, ma solo che, ferendo in quel modo i suoi sentimenti, avevo finito per fare del male anche a me stesso. Le parlai dell’università a Tokyo, del lavoro alla casa editrice e della solitudine che aveva accompagnato quel periodo della mia vita. Non avevo amici e le ragazze con cui ero uscito qualche volta non mi avevano reso felice. Dalla fine del liceo fino a trent’anni, cioè fino a quando non incon­trai e sposai Yukiko, non avevo amato veramente nessuna donna. Le dissi anche che, in quel periodo triste della mia vita, avevo pensato spesso a lei e desiderato moltissimo poterla incontrare e parlarle, anche solo per un’ora. A queste parole sorrise.

“Hai pensato spesso a me?” mi domandò. “Certo,” risposi.

“Anch’io ti ho pensato spesso. Quando attraversavo momenti difficili, pensavo sempre a te. Forse sei stato l’uni­co amico che abbia mai avuto.”

Si appoggiò al bancone con una mano sotto il mento e chiuse gli occhi per un po’, come priva di forza. Notai che non portava nessun anello al dito. Ogni tanto sembrava che le ciglia fossero attraversate da un impercettibile tremito. Poco dopo aprì lentamente gli occhi e guardò l’orologio che aveva al polso. Era già quasi mezzanotte.

Prese la borsa e, con un leggero movimento, scese dallo sgabello.

“Buonanotte, è stato bello rivederti,” disse.

La accompagnai alla porta di ingresso e le chiesi: “Ti chia­mo un taxi? Ti sarà difficile trovarne uno con questa pioggia!”.

Shimamoto scosse la testa e aggiunse: “Non preoccuparti. Posso cavarmela da sola”.

“Veramente, non sei rimasta delusa?” le domandai.

“Di te?”

“Sì, di me.”

“No che non sono rimasta delusa,” disse con un sorriso. “Non preoccuparti. Ma sei sicuro che il tuo completo non è di Armani?”

Mi accorsi che Shimamoto non zoppicava più. Non cam­minava molto velocemente e a guardarla con attenzione, si notava che c’era qualcosa di artificioso nella sua andatura. Per il resto, però, era quasi del tutto normale.

“Quattro anni fa, mi sono sottoposta a un’operazione e sono guarita,” disse Shimamoto, come per giustificarsi. “Non è che la gamba sia perfetta, ma è migliorata molto. E stato un intervento difficile, ma è andato tutto bene. Mi hanno tagliato diverse ossa e me le hanno riattaccate.”

“Incredibile. Adesso il difetto alla gamba non si vede più.”

“Sì, è vero,” disse lei. “Ho fatto bene a prendere questa decisione, anche se forse avrei dovuto farlo molto prima.”

Presi il suo cappotto dal guardaroba e la aiutai a infilarse­lo. Quando mi si avvicinò, mi accorsi che non era molto alta. Sembrava che la sua statura non fosse cambiata da quando aveva dodici anni e questo mi fece una strana impressione.

“Shimamoto, ci rivedremo ancora?”

“Forse,” disse lei. Sulle sue labbra apparve un lieve sorri­so, come un fumo sottile che si leva in una tranquilla giorna­ta senza vento. “Forse.”

Poi aprì la porta e uscì. Dopo quasi cinque minuti, anch’io salii su per le scale per cercare di raggiungerla sulla strada. Temevo che non trovasse facilmente un taxi. La piog­gia continuava a cadere e Shimamoto non era più lì. La stra­da era deserta, si vedevano solo le luci dei fari delle macchi­ne sull’asfalto bagnato.

Forse era stato solo un sogno, pensai. Rimasi lì fermo a guardare la pioggia. Mi sembrava di essere tornato il ragazzi­no di dodici anni che nelle giornate piovose restava spesso a fissare immobile l’acqua che scendeva. Quando guardavo la pioggia, senza pensare a nulla, avevo l’impressione che il mio corpo si sciogliesse e che il mondo reale si allontanasse da me. Sentivo che la pioggia aveva un particolare potere sulle persone, quasi ipnotico.

Ma non era stato un sogno. Tornato nel locale, vidi che dove si era seduta Shimamoto c’erano ancora il suo bicchiere e il posacenere. Dentro erano rimasti i mozziconi di sigaretta che lei aveva spento delicatamente, sporchi di rossetto. Mi sedetti accanto al suo sgabello e chiusi gli occhi. A poco a poco, l’eco della musica cominciò a svanire e rimasi solo. In quella velluta­ta oscurità, la pioggia continuava a cadere silenziosa.

A Sud del confine, a Ovest del sole, pag. 92-99

UMBERTO GALIMBERTI, Per una filosofia attenta all’altro

“La via dell’amore”, il nuovo saggio di Luce Irigaray
PER UNA FILOSOFIA ATTENTA ALL’ALTRO
di Umberto Galimberti *
E se “filo-sofia” non volesse dire ” amore della saggezza” ma “saggezza dell’amore”, così come “teo-logia” vuol dire discorso su Dio e non parola di Dio, o come “metro-logia” vuol dire scienza delle misure e non misura della scienza? Perchè per “filo-sofia” questa inversione nella successione delle parole? Perchè in Occidente la filosofia si è strutturata come una logica che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nelle università dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo un sapere che non ha alcun impatto sull’esistenza e sul modo di condurla? Sarà per questo che da Platone, che indica come condotta filosofica “l’esercizio di morte”, ad Heidegger, che tanto insiste sull’essere-per-la morte, i fillosofi si sono innamorati più del saper morire che del saper vivere?
Questa è la provocazione di Luce Irigaray che, nel suo ultimo libro: La via dell’amore, denuncia l’atteggiamento tipico e totalmente irriflesso del filosofo che, nella cura della purezza del logos, trascura il dia-logo con uno o più soggetti differenti, come le donne, per esempio, onde evitare i delicati problemi relazionali che nascono dal confronto con l’altro. E’ saggio tutto questo? O è semplicemente il sintomo di una paura o di una incapacità di entrare in relazione con l’altro?
Con questa provocazione Irigaray non intende distruggere l’edificio concettuale che la filosofia ha costruito in Occidente, ma denunciarne il carattere parziale, dovuto al fatto che si è preferito coltivare la purezza delle idee piuttosto che il rapporto intersoggettivo tra gli uomini, tutti portatori di idee, amputando così la verità, l’etica, la teologia stessa dei suoi valori di base, per privilegiare un monologo solipsistico, sempre più lontano dal reale.
Tutto ciò non corrisponde a una saggezza umana, ma piuttosto a un esilio circondato da fortificazioni dove il filosofo si ripara, servendosi soprattutto di una lingua difficilmente accessibile e più preoccupata di ” parlare di” invece che di ” parlare con” gli altri e così apprendere che non c’è una sola verità, una sola bellezza, una sola scienza.
E questo vale soprattutto oggi dove, per effetto della globalizzazione sperimentiamo che la diversità non è solo tra l’uomo e la donna, e più in generale fra i soggetti, ma tra le differenti culture, ciascuna delle quali è portatrice di un’oggettività difficilmente catalogabile con le nostre categorie, oltre che di una simbolica e di una sensibilità che richiedono di essere non solo comprese, ma pensate.
Qui più del logos conta il dia-logo, che è possibile solo quando riconosco che l’altro possa avere un gradiente di verità superiore al mio. Questa è l’essenza della tolleranza che le religioni, nonostante il gran parlare che ne fanno, misconoscono. Perchè non si può dialogare con chi si ritiene depositario di una verità assoluta. Questo la filosofia deve dire alle religioni, ma solo se si presenta non tanto come amore per la saggezza quanto come saggezza dell’ amore. Perchè è proprio dell’amore il riconoscimento dell’alterità dell’altro.
Bisogna allora passare dalla “trascendenza verticale” proposta dalle religioni alla “trascendenza orizzontale” che riconosce l’altro non nel Grande Altro ma nell’altro che ogni giorno incontriamo e che invoca un discorso per elaborare non la città ideale di Platone che sta nell’iperuranio, ma un universo che sia da tutti il più possibile condiviso. Meno filosofia del logos e più pratica filosofica attenta al mondo della vita. Questo forse oggi è necessario se non addirittura urgente.
– LUCE IRIGARAY, La via dell’amore, Bollati Boringhieri – Traduzione di Roberto Salvatori – Pagg. 117, – Euro 14
* La Repubblica/Almanacco dei libri, 12.04.2008.

libri di Grazia Apisa Gloria

Ha pubblicato racconti, favole e poesie:

“Il linguaggio dei sogni”, (Genova, 1994) con la Nuova Editrice Genovese;

“Stelle d’Igea”, favole ispirate ad un sogno (Genova, 1994);

“Scacco matto alla ragione – La strada di San Diego – due racconti e 11 poesie” (Genova, 1994);

“Ti amo – Dalla dialettica al dialogo” (Genova, 1994);

“Luce bianca nel sentiero” (Genova, 1994) con la Silver Press;

“Senza Traccia” (Genova, 1995),

“Il fiore del gelsomino” (Genova, 2007),

“La strada Bianca” (Genova, 2007),

“Quell’Aprile antico” (Genova, 2007),

“L’infinito e il suo sogno” (Genova, 2007),

“Nell’attimo eterno” (Genova 2008),

“Il Dio di luce” (Genova, 2008),

“Nella città della luce e del sogno” (Genova, 2008),

“Mi chiederai di nascere” (Genova 2008),

“L’incontro” (Genova, febbraio 2009) con la Golden Press..

Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975. Presentazione di Paolo Ferrario

Introduzione
Carlo Tullio Altan (1916-2005) è stato uno dei fondatori della antropologia culturale in Italia.
Nella sua biografia intellettuale dice di sé:
Nel ripren­dere in mano i testi che scrissi e pubblicai a partire dal 1943, e nel leggervi le riflessioni che vi erano riportate, tratte an­che da quaderni di appunti andati perduti, constatai un fat­to che mi sorprese alquanto. Si tratta di scritti che da oltre quarant’anni non avevo più ripreso in esame, e di cui avevo quasi del tutto scordato il preciso contenuto. Riletti a tanta distanza di tempo, questi scritti mi rivelarono che molte del­le idee e degli argomenti che mi avrebbero impegnato, con l’apparenza della novità, alcuni decenni dopo, avevano già assunto una prima consapevolezza di se’ in quegli originari e spontanei tentativi di metterli a fuoco. E questo mi ha fat­to tornare alla mente un passo di Ortega y Gasset, che avevo letto allora e che mi era rimasto nella memoria, in cui il filosofo spagnolo sosteneva che le idee prendono possesso di un uomo fra i venticinque e i trentanni, e non lo lasciano più per il resto della sua vita. E penso proprio che, almeno per quanto mi riguarda, questo sia in buona parte accaduto.
In Carlo Tullio – Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano 1992, p. 15

I suoi studi e riflessioni hanno avuto per oggetto
le religioni ed i simboli ( Lo spirito religioso del mondo primitivo, Il Saggiatore, Milano, 1960, Soggetto, simbolo e valore, Feltrinelli, Milano, 1992, Le grandi religioni a confronto, l’età della globalizzazione, Feltrinelli, 2002, Ethnos e Civiltà, Feltrinelli, Milano, 1995),
i fondamenti dell’approccio antropologico alla analisi sociale ( Antropologia funzionale, Bompiani, Milano, 1968; Manuale di Antropologia Culturale, Bompiani, Milano, 1971; Antropologia, storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1983), Le classi sociali e i valori giovanili (con Alberto Marradi, Valori, classi sociali e scelte politiche, Bompiani, Milano, 1976; con Roberto Cartocci, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, Mondadori-Isedi, 1979),
la cultura civica degli italiani (La nostra Italia, Feltrinelli, Milano, 1986; Populismo e trasformismo, Feltrinelli, Milano, 1989).
Negli ultimi anni si dedicò all’elaborazione di un idealtipo dell’ethnos, analizzato nelle sue cinque componenti: epos, ethos, logos, genos e topos, allo scopo di trovare una soluzione scientifica sul piano dell’antropologia, al conflitto tra i vari etnocentrismi e l’esigenza di un nuovo ordine internazionale.
Dice di lui Umberto Galimberti: “ La grandezza di Carlo Tullio-Altan non sta tanto nel suo pionierismo, quanto nel fatto che le sue ricerche antropologiche erano guidate da profonde conoscenze filosofiche che facevano riferimento allo strumentalismo deweyano, al materialismo storico, alla fenomenologia, all´esistenzialismo, al neopositivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo, perché Tullio-Altan aveva capito che l´uomo è una realtà troppo complessa per essere inquadrata e compresa in una sola idea . Se in occasione della sua morte riprendessimo tra le mani i suoi libri e riflettessimo sulle sue idee, spesso profetiche e anticipatrici, renderemmo a Carlo Tullio-Altan il migliore degli omaggi.”
Nel saggio poco conosciuto, perché diffuso soprattutto fra operatori sociali alla fine degli anni ’60, che presentiamo qui sotto Carlo Tullio – Altan elabora un magistrale modello di analisi dell’ “uomo in situazione” di grande forza analitica, sia per leggere ed interpretare i “segni dei tempi” che attraversiamo, sia per attraversarli come soggetti consapevoli dell’intreccio che contraddistingue la nostra esistenza nel tratto di vita che ci è assegnato.
Paolo Ferrario
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Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975
Il problema di una possibile collaborazione fra psichiatri e studiosi di scienze umane richiede innanzi tutto, per essere risolto, la messa a pun­to di un linguaggio comune, per cogliere certi aspetti della realtà umana che rientrano nella sfera di interesse degli uni e degli altri.
Il fat­to che questo linguaggio non esista ancora, non è casuale. E’ la posizione assai diversa che i due gruppi di studiosi assumono di fronte al feno­meno della malattia mentale che ne è la causa. Gli studiosi di scienze umane, se si esclude una certa parte degli psicologi, non guardano al singolo malato, ma al fenomeno malattia nella sua dimensione sociale e cioè statistica. Ma vi è di più, bisogna ammettere che numerosi stu­diosi di problemi sociali, subiscono, senza avvedersene, un processo di identificazione con il sistema in cui vivono e che studiano, che viene accettato da essi come paradigma, come norma cui assegnano inconsapevolmente un significato assoluto. Una volta assunta questa prospettiva, essi mostrano una sorta di « disattenzione seletti­va » per tutti quei fenomeni di disfunzione del sistema sociale in cui vivono, che in certa mi­sura contraddicono all’ipostasi inconscia che ne hanno fatta. Quando si parla di « società ma­lata », essi obbiettano che non vi è una misura scientifica per definire una distinzione univer­salmente accettabile fra una società sana e una malata. Questo è certamente vero, se questa mi­sura viene ricercata nella forma di una norma costante, di una struttura esemplare, ma allora anche lo psichiatra potrebbe rispondere allo stesso modo, e negare l’esistenza della malattia. E qualcuno di essi lo fa. Se si fa notare che il fenomeno delle malattie mentali ha assunto di­mensioni sociali e che l’influenza di certe varia­bili di classe, di cultura, di genere di vita è sta­tisticamente dimostrabile, in tal caso è il valore dell’analisi statistica ad essere revocato in dub­bio e con argomenti molto convincenti: la dif­formità delle diagnosi, la difficoltà della rac­colta dei dati, le differenze di trattamento dei casi, molti dei quali vengono così a sfuggire al controllo statistico, e via dicendo. Tutto questo, se non altro, dimostra una certa misura di disin­teresse per il fenomeno fastidioso della malattia mentale.
Gli psichiatri si trovano di fronte allo stesso fenomeno in una prospettiva radicalmente di­versa: si trovano di fronte a casi singoli, a individui malati con i quali entrano in un rap­porto diretto, più o meno autentico, in relazio­ne alla loro struttura concettuale, ma comunque sempre individuale, personale, privato. Essi so­no assorbiti dal compito di curare quel certo malato, e tendono in genere a mettere in pa­rentesi la dimensione sociale del caso partico­lare che hanno di fronte, soprattutto quando appartengono ad una rigida scuola organicistica.
Fra gruppi di studiosi così diversamente orien­tati è chiaro che un discorso interdisciplinare si instaura con molta difficoltà, per la mancanza di un comune terreno d’incontro fra la prospet­tiva collettiva scelta dai primi e la prospettiva individuale scelta dai secondi. Il formarsi e dis­solversi di gruppi di studio costituiti su queste basi o meglio su questa carenza di basi comu­ni, è perfettamente spiegabile: in quei gruppi non ci può essere processo di comunicazione, i codici sono troppo diversi. Molti psicoterapeuti tuttavia, trattando, soprat­tutto con il metodo analitico, il caso particolare, si rendono conto che i problemi del malato, quei problemi che, irresoluti, sono spesso la fon­te della malattia, si costituiscono in un contesto sociale e non solo privato, sia esso quello della famiglia, del lavoro o altro. Essi ottengono, at­traverso il discorso del malato, una rappresen­tazione della società ben diversa da quella irenica e paradigmatica che molti sociologi ci of­frono. Certo, l’immagine ottenuta attraverso il discorso del malato è viziata dalla sua stessa malattia, è deformata e non accettabile senza ampie riserve. Nonostante questo il terapeuta si chiede se non vi sia un germe di verità in questo quadro negativo, e per avere maggiori informazioni si rivolge ai suoi colleghi studiosi di scienze sociali. Ma il discorso con quest’ulti­mi è assai difficile, per i motivi che si sono detti: manca ancora una base concettuale adatta alla convergenza delle due tipiche prospettive sotto le quali il fenomeno della malattia viene guar­dato.
« Ciò che è necessario, per costituire lo schema adatto alla collaborazione interdisciplinare, sono due cose che sono estranee alle consuetudini dell’antropologia e della psichiatria… Una è la necessità per lo psichiatra di raccogliere siste­maticamente dati sull’ambiente sociale e cultu­rale e sui sistemi di motivazioni che si disegna­no sempre sullo sfondo dei casi reali. La se­conda è la necessità per l’antropologia di sen­sibilizzarsi non solamente in relazione allo sfon­do culturale dal quale i singoli casi emergono, ma anche alle tipiche modalità del funziona­mento mentale negli esseri umani. Il terreno comune, che possiamo semplicemente chiamare psicodinamica, richiede un’adeguata analisi me­dico-psichiatrica di persone concrete e di casi concreti, stagliati sullo sfondo di una prospet­tiva di comprensione di ordine culturale ». Per realizzare questo proposito, così bene enun­ciato da Opler, l’antropologia offre un modello, o meglio una serie coordinata di modelli con­cettuali operativi.
Il primo di questi modelli è quello ricordato dallo stesso Opler: la cultu­ra. A questo proposito è subito necessario pre­cisare il senso tecnico in cui questo termine vie­ne usato in antropologia, per sgomberare a prio­ri il terreno dalle possibili confusioni. In senso antropologico cultura non significa l’« esser col­to », o quel gruppo di persone che formano l’intellighentzia di un certo paese, i circoli che as­sumono la « cultura » come loro specializzazione professionale, le élites colte di una certa società. Col termine di cultura si intende qualcosa di as­sai più generale. « Mentre il modo di vivere di un popolo può raggiungere una sua coerenza interna e sviluppare in se stesso inconsci ca­noni di scelta, la cultura è sempre uno strumen­to per adattare l’uomo alla natura che gli da modo di metterla sotto controllo, risolvere i pro­blemi dell’attività sociale, dell’economia, della politica, della religione e della filosofia, e di regolare il comportamento » (Opler). In sostanza la cultura è, in senso antropologico, quel com­plesso di nozioni codificate in forma collettiva e sociale che permettono ad un certo gruppo umano di affrontare e risolvere quei problemi di vita che la società stessa, con questi modelli di comportamento ha previsto. Essa quindi com­prende nozioni tecniche elementari, modalità di istituire rapporti interpersonali di ogni ge­nere, oltre al complesso di conoscenze scientifi­che e al patrimonio artistico, filosofico e reli­gioso, cui si riserva in genere la definizione di cultura in senso stretto. Una volta che si assegni alla cultura questa spe­cifica funzione strumentale, che consiste nell’aiutare l’uomo a vivere da uomo, è chiaro che l’interpretazione freudiana ne è una deformazione. La cultura non è fonte di frustrazione, o non dovrebbe esserlo, ma è un sistema per evitare la frustrazione. Se non assolve al suo scopo, in tal caso è necessario ricercarne le cause concrete.
Il secondo modello offerto dall’antropologia cul­turale al discorso interdisciplinare è legato al primo. Esso è il sistema di personalità (o per­sonalità di base, come spesso viene chiamato). Questo si forma nell’uomo attraverso il proces­so dell’inculturazione e cioè dell’acquisizione da parte del singolo di quella porzione della cultu­ra che gli sarà necessaria per affrontare quel ge­nere di vita, che l’appartenenza ad un certo gruppo umano gli offre. Il risultato è quell’ap­parato che la tradizione ha variamente chiama­to coi termini di anima, mente, intelletto, ra­gione o cervello. Esso si costituisce partendo da una base ben istintuale ereditaria assai ridotta e si plasma in relazione alle esperienze gradatamente realizzate dal fanciullo nei rapporti con la madre, con la famiglia, con la scuola e poi, per l’uomo maturo, con la società. Attraverso que­sto processo, le informazioni necessarie alla vita del singolo vengono recepite e registrate in un complesso sistema di cellule che forma il tessu­to corticale del cervello, che è l’organo biolo­gico cui spetta la specifica funzione della me­morizzazione delle informazioni e dell’esecuzio­ne di quelle operazioni interpretative che la situazione di vita del singolo rende via via ne­cessarie. Quest’apparato, se funzionale, riesce a mettere in sintonia il singolo con la sua situa­zione di vita. Esso ha quindi una chiara natu­ra bio-psichica, e cioè una dimensione organica e una socio-culturale. Per intendere bene il modo in cui funziona il sistema di personalità così concepito, è neces­sario tenere sempre presente, come quadro di riferimento, la situazione in cui opera, intesa come un « campo » (Lewin) nel quale molteplici forze interagenti di ordine psichico, sociale, cul­turale e naturale sono anch’esse operanti. Il si­stema di personalità funzionale realizza l’omeostasi psicologica. « Le teorie dell’omeostasi e del­lo squilibrio possono valere pienamente solo se ci si rende conto che l’unico tipo di omeostasi, o della mancanza di essa, che può esistere, è in­cluso nell’ambito dell’intera struttura della per­sonalità, che viene costituita in base a certi con­testi esistenziali ed opera in essi » (Opler).
A questo punto l’antropologia culturale può offrire il suo terzo modello concettuale interdi­sciplinare. Il sistema della società. La cultura, come codice comune ai membri di un gruppo, rende possibile fra di loro la comunicazione, non solo, ma offre loro una comune prospettiva attraverso la quale guardare ai concreti proble­mi di vita, che si fanno così problemi comuni, da risolvere in comune, con comportamenti ade­guati e di conseguenza istituzionalizzati e codi­ficati a questo fine, per economia di sforzi ed efficienza di strutture. Il complesso tessuto socia­le si costituisce su questi presupposti funzionali e forma uno schema nel quale gli individui as­sumono una posizione specifica (uno status) in relazione al compito che essi vi assolvono (il ruolo). Questo tessuto si articola anche in strut­ture particolari, destinate alla formazione dei nuovi modelli culturali e alla loro trasmissione ai singoli. Essa è la matrice del sistema di cultu­ra e di quello di personalità.
Noi disponiamo quindi ora di tre modelli, il primo dei quali, la cultura, ha una dimensione collettiva e sociale, come patrimonio del sape­re di un certo gruppo, e una dimensione psi­cologica e individuale, in quanto si interioriz­za a formare il sistema di personalità di ogni singolo componente di un certo gruppo sociale. Noi abbiamo così modo di far convergere, gra­zie a questo modello concettuale, la prospettiva sociale del sociologo con quella individuale dello psicologo e dello psichiatra. A questo punto però il discorso non è finito. Infatti tutti e tre questi modelli, fra di loro coordinati, sono anche essi da situare in un «campo», onde verificarne la funzionalità, e cioè la rispondenza alle esigenze che essi debbono soddisfare. Questo campo, come quello cui si è accennato a proposito del sistema di persona­lità, è un campo dinamico di forze, o meglio una situazione in cui insorgono problemi, che il sistema di cultura deve prevedere, orientan­do il comportamento dei singoli in modo effi­cace, così da realizzare l’omeostasi degli indivi­dui, e l’armonia sociale che si manifesta nella collaborazione fattiva. Questo accade però solo se la cultura dispone di modelli adatti ad orien­tare il comportamento dei singoli in modo ef­ficace, con le conseguenze che si sono dette. In caso contrario le azioni, guidate da modelli ana­cronistici di comportamento, falliscono, l’equili­brio dei singoli, frustrati dalle esperienze di scacco, è compromesso e la collaborazione so­ciale è sostituita dal marasma e dal caos. In questo caso noi diciamo che il complesso arti­colato dei tre sistemi è disfunzionale in rela­zione alla situazione in cui opera.
Vi sono infatti due ordini di problemi, che ri­guardano i tre sistemi ricordati, quello della loro coerenza interna e quello della loro rispon­denza ai problemi di situazione. I due gruppi di problemi non coincidono in tutto e per tut­to. Se è vero che ogni sistema funzionale dev’es­sere in se stesso coerente così da poter funzio­nare, non ogni sistema in se stesso coerente e quindi funzionale è per ciò stesso funzionale, cioè rispondente alle esigenze del campo situa­zionale. Un esempio chiarissimo è offerto dal sistema di personalità malata, che assume la struttura difensiva del delirio sistematizzato: il sistema di personalità è in tal caso coerentissi­mo in se stesso, ma per nulla rispondente alle esigenze concrete della situazione di vita del malato; le sue operazioni mentali sono compiu­te nel rispetto di una logica ferrea, ma che nul­la ha a che fare con la concretezza dei proble­mi che tale logica dovrebbe affrontare. Gli esem­pi si possono moltiplicare a volontà in ogni campo della vita associata e a tutti i livelli. Questo conferma la necessità di ben distinguere i due gruppi di problemi ricordati, come pro­blemi di funzionamento dei sistemi e come pro­blemi di funzionalità degli stessi, interrelati, ma distinti.
La perdita di funzionalità dei sistemi dipende da due fattori, anche quando il funzionamento degli stessi è intatto. Il primo fattore è dato dalla dinamica del campo situazionale, nel qua­le operano le forze che si sono dette e in base alle quali insorgono sempre nuovi problemi non previsti dalla cultura codificata e tradizionale. Il secondo fattore è dato dalla rigidità dei si­stemi e cioè dalla loro scarsa plasticità, o inef­ficienza in essi delle strutture di autotrasfor­mazione, che ogni sistema deve avere per non perdere contatto con la concretezza della situa­zione in movimento costante. Mettiamo ora a fuoco il sistema di personalità che c’interessa per il nostro discorso interdisciplinare. Ne abbiamo descritto la funzione e il funzionamento. Quando si verifica in esso la condizione di perdita di funzionalità? Questa può andare perduta in relazione ai due gruppi di problemi, di funzionalità e di funzionamen­to, prima distinti. Esaminiamo il primo aspet­to della questione, e cioè il caso in cui la cultu­ra non offra modelli adatti alla situazione mu­tata. In tal caso l’uomo reagisce in due modi opposti: inventa modelli nuovi, in base ai qua­li i nuovi problemi sono individuati e avviati alla soluzione, si decondiziona dai modelli ana­cronistici e si ricondiziona con modelli adegua­ti, oppure rinuncia o si mostra incapace a far­lo. Nel primo caso egli realizza una forma di adattamento attivo, che trasforma lui stesso, la cultura, la società e l’intera situazione in cui vi­ve, nella quale la sua azione innovatrice agisce come potente elemento dinamico. Nel secondo caso egli subisce l’azione frustrante della realtà e si difende sul piano inconscio con la nevrosi. Nel primo caso la funzionalità del sistema di personalità viene costantemente restaurata, nel secondo viene perduta.
Ma la perdita di funzionalità del sistema di personalità può avere origini diverse, e dipen­dere cioè da problemi più ristretti di funziona­mento del sistema stesso di personalità. Questo sistema infatti è una « costruzione » che com­prende una fase di montaggio e necessita di materiale organico da organizzare in un certo modo. La fase di montaggio è realizzata nel de­licatissimo periodo dell’infanzia, e successivo, e può essere caratterizzata da eventi che compro­mettono la formazione del sistema di persona­lità, indipendentemente dal fatto che la cultu­ra disponga o meno di modelli collettivi di comportamento adatti alla situazione sociale. Il risultato, come tutti gli analisti sanno, è un sistema di personalità che funziona male, per­ché i modelli interiorizzati sono stati deformati nella fase di montaggio, e che va risistemato con adatte terapie. Ma il difetto può dipendere anche dal materiale biologico che deve formare la base portante organica del sistema bio-psi­chico della personalità. Questo materiale può recare in sé tare genetiche o venire, in conse­guenza di traumi fisici, processi di intossica­zione o altro, leso in modo irreversibile. Nella tendenza all’autoconservazione, che caratterizza ogni sistema sia esso organico o bio-psichico, o sociale ed economico, il sistema di personalità in crisi per questi motivi si difende con pro­cessi tipici, che sono appunto l’oggetto specifi­co di studio della psichiatria. Sono i sintomi delle diverse forme morbose. Come si vede gli squilibri dovuti al primo grup­po di problemi, quelli che nascono dalla man­canza di modelli sociali di comportamento ade­guato, sono difficilmente curabili dallo psichia­tra. In tali circostanze, quando egli si trova di fronte a fenomeni di vasta disfunzione psichi­ca dovuta a motivi di fondo, socio-culturali, egli deve necessariamente ridursi a fare quello che fa un medico militare, quando accoglie i feriti che gli vengono spediti dalle trincee, e li rimet­te in sesto alla meglio per rimandarli a farsi ac­coppare. E’ triste questo fatto, ma è un fatto. Se vuole intervenire attivamente, infatti, lo psi­chiatra non può più limitarsi a fare lo psichia­tra, ma denunciando la situazione a chiare let­tere, assume la veste del cittadino responsabile, del riformatore sociale e del politico. In questa veste egli può essere un preziosissimo collabora­tore di coloro a cui, nel tessuto sociale, spetta il ruolo specifico di realizzare quei riadattamen­ti culturali e sociali che la situazione dinamica comporta: gli studiosi di scienze umane, per la parte della ricerca, e i politici, per la realizza­zione pratica dei risultati della ricerca stessa. Per quanto riguarda gli squilibri dovuti al se­condo gruppo di problemi, squilibri nel proces­so di inculturazione e di origine organica, ben­ché mai si debba ignorare che si verificano in uomini che hanno necessariamente una dimen­sione socio-culturale, essi sono tuttavia l’ogget­to specifico delle cure psichiatriche in senso stretto. E se si tiene conto del fatto della na­tura bio-psichica del sistema di personalità, è possibile trovare anche un punto d’incontro fra il discorso degli analisti e degli psichiatri di origine organicistica che in realtà non si esclu­dono affatto fra di loro.
Per riassumere questi concetti, che si propon­gono di offrire modelli concettuali per un di­scorso interdisciplinare, mi sia permesso fare ricorso ad uno schema grafico che, con tutte le ovvie limitazioni di questi schemi, può es­sere un utile strumento per visualizzare e me­morizzare il discorso che si è fatto. (Vedi sche­ma 1).
In questo schema è rappresentato l’insieme dei tre sistemi della cultura, personalità e società, innestati nel terreno bio-fisico che ne è la base portante. Il sistema di personalità incorpora una certa porzione di sapere collettivo (cultura) che lo fornisce dei modelli operativi adatti ad inserirsi positivamente nella vita sociale. In condizione di omeostasi, quando i tre sistemi sono coordinati, integrati e funzionali, l’azione in cui si manifesta il comportamento dell’indivi­duo può essere rappresentata dal vettore A + : azione compiuta con successo e attraverso la quale l’individuo assolve al suo ruolo sociale. In questo secondo schema rappresentiamo invece la condizione dei sistemi in contrasto con la situazione dinamica, e cioè integrati, coordinati, ma non funzionali. (Vedi schema 2).
In questo caso l’azione dell’individuo, guidata da modelli anacronistici, va incontro alla con­dizione di scacco X e si riflette negativamente sul sistema di personalità con il vettore A – .
A questo punto la reazione dell’individuo può as­sumere una caratteristica opposta. L’individuo può reagire creando un nuovo modello, proces­so raffigurato dal vettore che muove da 0, si volge verso l’alto e ritorna nella sfera della cul­tura. Questo nuovo modello è in condizione di orientare un nuovo tipo d’azione, guidata da un nuovo tipo di esperienza, che non solo s’in­serisce nel contesto sociale, ma lo trasforma, por­tando più innanzi i confini del sistema (vettore A +).
L’altro genere di reazione, caratterizzata dal rifiuto della sfida posta dalla situazione, si manifesta in un comportamento regredito, di­fensivo a livello inconscio (vettore B). E’ la rea­zione nevrotica, in conseguenza di fattori socio­culturali e di situazione. Lo stesso schema può essere usato per la rappresentazione grafica dei fenomeni di disfunzione del sistema di personalità non dovuti a cause socio-culturali e collet­tive, e cioè alla carenza di modelli adatti alla vita in trasformazione, ma a un difetto di fun­zionamento del sistema di personalità dovuto al processo educativo, o a lesioni o insufficienze organiche. In tal caso non si può avere il vet­tore ascendente da O, che indica l’operazione di invenzione di nuovi modelli, ma solo il vet­tore discendente B, che consegue alla serie di frustrazioni rappresentate dal vettore A -, e che si manifesta nella fenomenologia morbosa. Que­sta fenomenologia ha la stessa apparenza di quella derivante da origini socio-culturali col­lettive. Ed infatti essa è una manifestazione di difesa contro un’unica condizione, che è quella dell’ansietà, che si crea sia in un caso come nel­l’altro. Ma mentre le prime forme non possono trovare soluzione se non attraverso operazioni di rinnovamento culturale (vettore A + ascen­dente), le seconde possono essere curate indivi­dualmente con diverse possibilità di successo. A questo proposito, sia detto per inciso, l’antropologia culturale può fornire talune conoscen­ze circa la funzione di pratiche e rituali propri di gruppi arcaici, che non sono senza valore nell’interpretare certi comportamenti tipici dei ma­lati.
I concetti espressi in forma assai sintetica e sche­matica nelle pagine che precedono ci permet­tono di impostare un discorso più concreto sulla distinzione fra individuo normale e ammalato di mente. L’uomo « sano » di mente è colui il quale si mo­stra capace di adattamento attivo alla situazio­ne in cui vive. Egli è cioè dotato di modelli ade­guati ai suoi problemi, attraverso i quali li rico­nosce, o è in grado di reagire attivamente di fronte all’ignoto creandone di nuovi attraverso i quali dargli un nome, e lo viene così a co­noscere. La sola frustrazione di cui soffre è quel­la normale a tutti, che deriva da due necessarie condizioni della vita umana: la prima è data dal carattere generale e medio dei modelli cul­turali, che non si adattano mai del tutto, come un vestito su misura, a chi li adotta, perché co­stui ha una sua base genetica e una sua storia particolare che lo fa essere un unicum, e l’al­tra è data dalla dinamica della situazione, che crea le sfasature di cui si è detto, fra modelli e problemi, frustrazione questa dalla quale ha vi­ta il pensiero nuovo. Se questa dose normale di frustrazione è una malattia, ebbene allora essa è una malattia veramente connessa con l’esser uomo. Ma è una malattia di cui si guarisce ad ogni istante. E il risultato di questa guarigione è ciò che chiamiamo l’« io », se consideriamo che esso non in altro consiste se non nel felice ri­sultato di un’operazione attraverso la quale con l’ausilio dei modelli cognitivi e operativi di cui è costituito, l’uomo pone sotto controllo la situazione in cui vive, se ne costituisce sog­getto, e ne fa l’oggetto della sua conoscenza e della sua azione efficace. Un sistema di perso­nalità di questo tipo apporta caratteristiche fe­lici all’uomo che ne è il portatore: questi ap­pare sereno, fiducioso, dotato di senso critico in modo costruttivo e di gusto per la vita, è di­sponibile, aperto e facile nello stabilire rappor­ti interpersonali fecondi, accessibile alla critica altrui, dotato di un profondo senso di solida­rietà umana.
II sistema di personalità che rende un uomo incapace di adattamento attivo è ciò che finisce col fare di quell’uomo un malato. In tal caso, e per i più diversi motivi, il sistema si mostra disfunzionale, e finisce, per autodifendersi, col farsi fine a se stesso ed ergersi come uno scher­mo contro la realtà, vietando all’io di manife­starsi nel modo che si è detto sopra. Invece di legare l’uomo al mondo, lo isola, usando tutte le possibili tecniche che sono i sintomi della malattia. L’uomo, anche quando non giunge al vero e proprio stadio morboso, si mo­stra insicuro, indisponibile, egocentrico, auto­ritario, intollerante e incapace di stabilire rap­porti umani fecondi. La vera e propria malat­tia appare con il manifestarsi aperto e chiaro dei sintomi dati dalle difese inconsce.
Si può fare lo stesso discorso per la società? Io non lo ritengo impossibile, ma inutile, perché sarebbe un discorso troppo generale e vago. Si può parlare di società « facili » o « difficili » o « dure » come dicono gli Arsenian in un loro la­voro, società che offrono all’uomo condizioni più o meno favorevoli per un adattamento attivo.
Un’analisi dei motivi di queste diverse condi­zioni è certamente utilissima, purché sia fatta su basi empiriche e su dati concreti, che riveli­no i motivi patogenici che esse contengono. Questo è proprio il compito che spetta agli stu­diosi di scienze sociali e agli antropologi culturali in particolare. Le conclusioni delle loro ricerche potranno anche venire sintetizzate sot­to generiche definizioni come quelle ricordate, ma ciò non porta avanti la ricerca. In genere le società che producono un maggior numero di disadattati sono quelle ad elevato ritmo di tra­sformazione, e ciò accade per lo sforzo* che esse impongono ai singoli per realizzare un adatta­mento attivo alla situazione dinamica. Ma non per questo tali società sono da dire malate, ben­sì rischiose, impegnative, o « dure », per ricor­dare il termine cui si è accennato, ma nelle qua­li vale tuttavia la pena di vivere.
Ha invece più senso forse l’uso del termine di società « malata » per indicare alcune società ri­gide, nelle quali i canali di autotrasformazione si sono bloccati, per la resistenza del sistema ai mutamenti imposti dalla situazione, che si pon­gono come fini a se stesse e sviluppano sul piano collettivo singolari forme di comportamento re­gredito, che riprendono temi propri di società molto arcaiche. I rituali nazisti, ad esempio, e il connesso culto del sangue tedesco, le opera­zioni di aggressività distruttiva proiettata su de­terminati gruppi etnici, sono fenomeni che danno da pensare e sembrano quasi giustificare l’uso del termine malattia. Per quanto riguarda il Terzo Reich, si è trattato di una forma di to­tale disfunzionalità (incoerenza con la situa­zione storica) di un intero sistema socio-cultu­rale, che non per questo ha cessato di essere funzionante, ma lo era in base ad una logica di tipo delirante collettivamente accettata come valida. Questi casi meriterebbero una maggiore attenzione da un punto di vista della ricerca di psicopatologia sociale.
Queste note hanno un taglio particolare, e met­tono in parentesi una gran quantità di elementi di specifico interesse psicologico e psichiatrico. Il quadro delineato del sistema di personalità non accenna ai fattori dell’istinto, tempera­mento, affettività e via dicendo, né alla dina­mica interna di questi elementi. Ma ciò è stato fatto di proposito per offrire ai colleghi stu­diosi uno schema di discussione estremamente semplificato, onde servire come base per possi­bili convergenze, dalle quali il quadro dei pro­blemi possa risultare più chiaro e completo at­traverso un organico lavoro di gruppo. Si è voluto cioè proporre solo un minimo denomi­natore comune concettuale per un discorso interdisciplinare ancora tutto da fare.

Intervento di Giovanni: Emanuele Severino e Massimo Cacciari

Caro Paolo,
se capisco bene, posso fare qui l’indicazione richiesta e penserai tu a metterla sull’antologia.
Scrivo qualcosa su Severino. Al più presto scriverò anche qualcosa su Cacciari.
Gli autori cui in questi anni sento di dovere molto sono più direttamente E.Severino, soprattutto per Essenza del nichilismo, Adelphi 1995 (prima ed. 1970) e Destino della necessità, Adelphi 1980, e M. Cacciari, per Dell’Inizio, Adelphi 1990 e Della Cosa Ultima, Adelphi 2003.
Due autori che, proprio per il fatto che rappresentano, almeno all’apparenza, due vie opposte, è vantaggioso leggere insieme.
L’uno, Severino, pone il pensiero dell’essere immutabile ed eterno del Tutto e, in esso, di tutto, di ogni cosa o momento e smaschera la follia del pensiero del non essere, del pensiero che quel che è stato o è o verrà non sia, che le cose vengano dal nulla e tornino al nulla: il pensiero del nulla è la follia in cui si dibatte l’Occidente sin dall’origine. La necessità è la verità eterna di ogni cosa ed è questa verità che va contemplata, poiché nulla viene e va, tutto è immutabile e non vi è divenire alcuno. Quel che viene e passa è, piuttosto, l’apparire di quello che a mano a mano appare, l’essere immutable, appunto, che, infinito, attraversa il cono finito dell’apparire… Il fascino di questo pensiero è veramente insuperabile. La durezza inflessibile del procedere razionale di Severino apre scenari di una lontananza abissale.. eppure quella lontananza è questo luogo in cui noi siamo…non vi è alcun oltre, la verità è qui… (tuttavia, si vorrebbe obiettare, è possibile non vederla…).

L’idea di una antologia del tempo che resta

“La conversazione è un edificio al quale si lavora in comune.
Gli interlocutori devono sistemare le loro frasi
pensando all’effetto d’insieme,
come fanno i muratori con le pietre”

André Maurois (1885-1967)

L’idea di una antologia del tempo che resta nasce da un dialogo fra due persone:

Uno dice: “ah, quante cose mi piacerebbe leggere … ma il tempo è così poco …”

Altro risponde: “Ci vorrebbe una antologia, come quella degli adolescenti.
Se a quella età abbiamo imparato la letteratura e la filosofia, forse ora, da adulti, possiamo imparare ancora comunicandoci le pagine che ci sembrano importanti per il cammino …

Da qui l’idea della antologia e di questo blog a più teste, cuori e mani.
Uno spazio senza coordinatori: una pagina bianca a disposizione di chi sente questo desiderio.

Uno presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.

Altro legge e, a sua volta, presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.

Uno legge e …


EMANUELE SEVERINO, scheda biografica in Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi, Marsilio editore, 2008

PIETRO CITATI, PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO, da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

 
PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO 

 


di PIETRO CITATI 

L´estate scorsa, la televisione italiana ci ha offerto un dono inconsueto. Nelle sere di sabato e di domenica, alle 19.35, cominciava la proiezione di un film della serie del Tenente Colombo, che accompagna da molti anni la nostra vita. Confesso di avere una passione infantile per le vicende del piccolo tenente spiegazzato: passione che Federico Fellini condivideva. Qualsiasi cosa accadesse, qualsiasi invito allettante mi venisse rivolto, non abbandonavo la poltrona o la seggiola davanti alla televisione, sebbene avessi visto dieci volte quel film e mi ricordassi quasi a memoria ogni particolare. Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple – con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale – mi affascina fino a questo punto.
Tutti conoscono la trovata fondamentale dell´intera serie. Gli sceneggiatori del Tenente Colombo, tra i quali si nasconde una mente sottilissima, hanno capovolto la struttura del giallo tradizionale. Se in un testo di Conan Doyle o di Agata Christie o su Nero Wolfe la scoperta del colpevole avviene puntualmente alla fine del libro, qui, pochi minuti dopo l´inizio, il mistero è già rivelato: sappiamo chi è la vittima e chi il colpevole, e per quali ragioni e in quali circostanze la vittima è stata uccisa. Suppongo che, nei primi tempi, questo capovolgimento abbia turbato il mondo degli appassionati. Se il mistero era rivelato subito, rischiava di venire abolito. Ma la straordinaria bravura degli sceneggiatori del Tenente Colombo, ha fatto sì che questo pericolo venisse cancellato. Non ho quasi mai seguito un giallo con tanta partecipazione e tensione.
Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile.
Nei gialli di tipo «matematico», ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico. Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volte sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata (c´è sempre una signora elegante che gliene regala una nuova), le scarpe sformate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l´incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l´enorme apparecchio televisivo, l´educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia.
Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l´occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai, finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto… Il suo volto conosce poche espressioni. Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima. Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario.
Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l´assassino. Non sappiamo come né perché, né su quali indizi si basi, ma una cosa si ripete sempre: egli non ha dubbi né esitazioni. Egli sa. Appena ha ricevuto l´illuminazione, non si preoccupa di nulla d´altro. Non guarda le cose, trascura piste apparentemente importantissime, si distrae, sogna, fantastica. Quando ha trovato la vera pista, mette in moto il suo formidabile istinto per tutto ciò che è microscopico. Annusa eventi minimi: un residuo di sigaretta, una minima discordanza temporale, un fiammifero, l´orma di una scarpa, una coincidenza falsa, il filo di un abito, un capello tinto, una sensazione improbabile, un posteggio misteriosamente asciutto. Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore.
Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa sopratutto per obbedire al suo dovere di poliziotto, e alle volte sembra dispiaciuto, come se il suo compito gli pesasse. Qualche assassina, specie se bella e ingegnosa, lo commuove. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d´attenzioni. Forse è un po´ succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell´universo.
Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove egli ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l´unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto, e il suo proclamato sentimento coniugale è una pura istituzione pubblica. Ama appassionatamente soltanto il suo mestiere di poliziotto: non c´è una goccia di sangue, in lui, che non agogni misteri da risolvere, assassinii da rivelare, tenebre da illuminare, ordine da ristabilire.
Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi; e qualche volta ci sentiamo inteneriti da un vago sentimento di pietà verso di loro. Se essi accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema (i sindaci, i governatori, i capi della polizia), allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che egli è una avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l´istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l´antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino.

da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

Emanuele Severino, LA FESTA E LO SGUARDO DEL MORTALE, con Piero Coda e Massimo Donà, Festival della filosofia “Crema del Pensiero” dal titolo “Ricordati di santificare le feste”, 2007, AUDIO di 90 minuti

Emanuele Severino risponde al questionario liberamente ispirato al gioco di Marcel Proust, di Paolo Di Stefano, in Io Donna, Il Femminile nel Corriere della Sera n. 28, 14 luglio 2007

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Massimo Cacciari a Emanuele Severino: significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento

Caro Professore, fu soltanto dopo la pubblicazione del mio Krisis, nel 1976, che lessi per la prima volta le sue fondamentali opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma credo che proprio la distanza della mia formazione filosofica e delle mie prime esperienze culturali e politiche dal suo percorso di studioso e dall’ambiente in cui esso maturò, mi abbia permesso di avvicinarmi, forse più di altri, al significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento. Finché la «storia» della filosofia contemporanea continuerà ad essere «giocata» o all’interno della «linea» nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell’opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contradizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut aut. Quando finiranno le chiacchiere e confusioni alla moda, quando si potrà studiare la nostra epoca da una «buona» distanza, non dubito che tale decisione apparirà il problema fondamentale della nostra filosofia – e non solo. Heidegger – senza alcuna distinzione tra le varie fasi del suo pensiero – coglie tutta l’ intrinseca debolezza dell’antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo (lungi dal negarlo!), coerentemente e radicalmente, in un grandioso anti-Parmenide. L’opera di Severino (mille miglia oltre ogni astratta polemica) rappresenta l’altro polo. Davvero, ogni altra posizione sembra oggi «costretta» nella forma di questa polarità. Non credo, caro Professore, che aver compreso la sua lezione significhi semplicemente esplorare i contorni di tale polarità e saggiarne le conseguenze. Significa affrontarne la sua pretesa definitività, il suo «consummatum est». La strada finisce anche giungendo alla mèta – anch’essa è aporia. E l’ aporia può essere nuovo inizio. Su questo «scommettono» i suoi migliori allievi, io credo. Ne segua benevolmente l’improbus labor, senza mai consolarne debolezze e contraddizioni.

La sua lezione è pari a quella di Heidegger
Repubblica — 22 febbraio 2001

Paolo Ferrario, ATTIMI DI LUOGO: Amaltea di Coatesa, 1992/1995

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IL SOGNO della ACCETTAZIONE delle PARZIALITA’, fine analisi junghiana con Claudio Risè: 29 dicembre 1992 (1978/1992)

  • AUDIO DEL SOGNO:


Qui in formato Mp3:

 Sogno della accettazione delle parzialità, 29 dicembre 1992 


Dò molta importanza agli eventi casuali che costellano la mia esistenza.
Dico sempre che niente avviene a caso. Nel caso c’è sempre un messaggio da trovare e comprendere.
Bene. Qualche giorno fa  Batsceba (blogger di splinder con la quale ho perso i contatti) ha invitato sul suo blog a parlare di qualche proprio sogno. Un invito interessante, perchè talvolta propongono immagini potentissime.
I sogni sono una cosa seria, impegnativa. Sono anche qualcosa di un po’ sacro. Parlo di una sacralità interiore.
Proprio in quelle ore, riordinando la mia biblioteca avevo trovato un pacco di miei sogni, risalenti ad un periodo in cui non solo alla mattina li ricordavo, ma addirittura li ricopiavo per conservarli. Appunto come qualcosa di sacro, in quanto proveniente da quella parte di me non controllata dalla coscienza.
E così ho tirato fuori il sogno della accettazione delle parzialità.
Quella notte mi svegliai di colpo con l’impellente bisogno di scriverlo.
E’  fantastico svegliarsi in piena notte.  Spinto da una forza  irresistibile  di fare  i conti con me stesso.
Di questi tempi non mi capita più.
Per forza: sono sempre qui attaccato al blog … anche per la canzone di mezzanotte … si dorme poco … si ricorda poco dei sogni …

17 febbraio 2007

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Primo momento: un pezzo del sogno

Notte del 29 dicembre 1992 ore 2 e 20 
Ho partecipato ad alcuni gruppi di incontro psicologico con fini terapeutici. Di quelli molto diffusi negli Stati Uniti, nei quali le persone si trovano per più giorni ed effettuano intense esperienze di comunicazione interpersonale e corporea.
In una di queste esperienze mi assumo io il compito di guidare un piccolo gruppo di attività creativa: mi pare di una cosa pittorica.
Il punto fondamentale è questo: non c’ è un momento di comunicazione complessiva al gruppo globale di questa singola esperienza che io conduco. Il piccolo gruppo non comunica a quello grande ciò che è successo.
Questo crea dei conflitti e qualcuno mi chiede il perché di questo.
Io lo liquido abbastanza velocemente ed una ragazza prende le mie difese e mi da ragione, dicendo che il desiderio invadente di sapere è un problema di quella persona, non mio.

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Secondo momento: rêverie sul sogno

In sé il sogno potrebbe fornire pochi messaggi significativi.
Sennonché quella notte feci  una lunga “Reverie”, ossia una riflessione fra il conscio ed il dormiente di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard. Una esperienza davvero piena di anima.
E questo è il commento, registrato quella notte e poi da me trascritto dalla voce notturna e conservato come uno dei più potenti messaggi che il mio inconscio mi abbia suggerito:

Mi sono chiesto se qui ci sia anche un messaggio di valutazione del punto in cui sono nel percorso della mia vita e della stessa analisi. Come se fossi ad un bivio.
In particolare mi viene in mente la mia attuale situazione esistenziale.
Mi trovo nella condizione di poter accettare una serie di mie parzialità psicologiche.
Un esempio di parzialità è quella per cui, pur non avendo capacità grafiche, ultimamente imposto quasi tutto il mio lavoro didattico utilizzando le immagini.
Certe immagini geometriche, che tuttavia hanno un effetto evocativo non basato sulla parola.
Una seconda mia parzialità è quella per cui, pur non avendo una cultura filosofica (neppure elementare), sento di aver bisogno di riferimenti filosofici che ricerco anche in modo confuso ed eclettico nelle mie ricerche bibliografiche. Ed alcuni concetti, magari avvicinati in modo semplificato e superficiale, entrano a far parte della mia attività culturale.
Io credo che questo abbia a che fare con la mescolanza fra discorsi tecnici e spazio creativo. Mi rendo conto di avere due tipi di attività psichica: una collegata alla razionalità e un’altra – più laterale – in cui mi permetto di dare spazio alla creatività.
Dunque vivo esperienze parziali.
E allora forse questo sogno sta dicendomi qualcosa di molto significativo su come e dove orientare il tempo che resta della mia vita.

Terzo momento: ripresa del sogno

Ed ecco che , in questo momento , del sogno ricordo ancora qualcosa …. Qualcosa ancora sta affiorando … Era lì sopito …  Ma la Reverie lo estrae.

I fatto è che tutti ce ne andiamo da quel luogo terapeutico, ognuno va per conto suo.
Io però poi provo il desiderio di scrivere a ciascuno una lettera, pur rendendomi conto che è una cosa scorretta, in quanto per farlo devo andare ad indagare sugli indirizzi privati delle persone e questo non fa parte della situazione relazionale che avevamo impostato nel gruppo.
A ciascuno dico la mia e più o meno faccio un discorso sull’importanza del “politeismo dei valori”.
Cioè dico  che ciascuno prende dalla vita alcune occasioni,ed in queste occasioni l’importante è valorizzare la soggettività di ciascuno. Nel senso che le esperienze consentono di esprimere la soggettività di ciascuno.
E nella lettera dico che sono contento per l’esistenza di ognuno di loro.
Ma l’esperienza si è conclusa lì.
Il cammino insieme si è concluso.
E se io non ho potuto dire a loro che cosa era avvenuto nell’ esperienza di gruppo che avevo gestito, questo non era un errore mio, ma semmai un problema di progettazione dell’’ attività terapeutica complessiva.
E che bisogna accettare che ci sono delle situazioni nelle quali non si riesce a fare tutto.
E che nonostante questo, io conservavo dentro di me un’immagine di ciascuno molto intensa.
E c’ è anche l’esigenza di provare a cambiare la vita.
Di essere più attivo nel mio progetto esistenziale.
Cioè devo attivamente prendere atto che sono ad un punto del percorso in cui posso accettare le parzialità della mia storia personale e che contemporaneamente devo fare uno sforzo attivo su di me.
E percorrere un’altra strada del bivio.

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In quella notte finiva il mio lungo cammino di analisi, iniziato nel settembre 1978 :mi ricordo … L’APPUNTAMENTO, narrazione dal lontano settembre 1977.

Grazie, Claudio

2016-10-19_160842

mi ricordo che iniziava l’analisi, 14 settembre 1978

 

Martin Buber – Confessioni estatiche (Adelphi, 1987)

Confessioni estatiche.

Martin Buber – Confessioni estatiche (Adelphi, 1987)
Pubblicato originariamente nel 1909 e rivisto nel 1921, il volume rappresenta un’antologia unica nel panorama della letteratura mistica. Buber raccoglie testimonianze eterogenee – da Plotino a Ramakrishna, da Simeone il Nuovo Teologo a figure meno note come la pastorella Alpais o la serva Armelle – unificandole attraverso il filo rosso dell’esperienza estatica vissuta come incontro sovrumano1.

Struttura e intento
Buber evita classificazioni gerarchiche o interpretazioni riduttive (psicologiche, fisiologiche), privilegiando la vox humana che tenta di dire l’indicibile16. L’opera si configura come un dialogo trans-storico dove mistici di epoche e culture diverse «parlano una sola voce», quella dell’uomo di fronte all’abisso del divino1.

Influenza culturale
Il libro ha segnato intellettuali come Jorge Luis Borges, che dichiarò: «Tutto ciò che so sull’estasi l’ho imparato da questo libro»6, e Robert Musil, il quale attinse alle Confessioni per i dialoghi mistici tra i protagonisti de L’uomo senza qualità1. Pietro Citati lo definisce «il più bel breviario di mistica» per la capacità di coniugare rigore e potenza visionaria6.

  1. https://www.adelphi.it/libro/9788845902437
  2. https://www.paolinestore.it/confessioni-estatiche.html
  3. https://shop.cavouresoterica.it/products/confessioni-estatiche-martin-buber
  4. https://www.ibs.it/confessioni-estatiche-libro-martin-buber/e/9788845925368
  5. https://www.libreriadelsanto.it/reparti/libri/autori-e-personaggi/autori/buber-martin/427.html
  6. https://www.adelphi.it/libro/9788845925368
  7. https://www.lafeltrinelli.it/confessioni-estatiche-con-saggio-di-libri-vintage-martin-buber/e/2562817141423
  8. https://www.ebay.it/itm/295453381901

Paolo Ferrario, La Scarpinata, il mondo visto dalla poesia, in ul Tivan, 10 giugno 1967. Recensione del libro di Marisa Zoni

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alcune domande a MARISA ZONI, intervista di Paolo Ferrario, in La Vasca periodico studentesco n. 1, Como, 1967

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Giuseppe Berto, Il male oscuro, Rizzoli, 1964

Emanuele Severino

Emanuele Severino

Brescia, 1929

Documenti correlati

 


VITA
Nato il 26 gennaio 1929 a Brescia, Emanuele Severino si laurea a Pavia nel 1950 con Gustavo Bontadini, con una tesi su “Heidegger e la metafisica”. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università. Dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989.OPERE
Note sul problematicismo italiano,Brescia, 1950; La struttura originaria (1957), Milano, 1981;Studi di filosofiadella prassi(1962), Milano, 1984;Essenza del nichilismo, Milano, 1972;Gli abitatori del tempo,Roma , 1978;Legge e caso, Milano, 1979;Techne. Le radici della violenza,Milano, 1979;Destino della necessità, Milano, 1980;A Cesare e a Dio,Milano, 1983La strada,Milano, 1983;La filosofia antica,Milano, 1985;La filosofia moderna,Milano, 1985;Il parricidio mancato,Milano, 1985;La filosofia contemporanea,Milano, 1988;Il giogo, Milano, 1989;La filosofia futura,Milano, 1989;Alle origini della ragione:Eschilo, Milano, 1989;Antologia filosofica, Milano, 1989;Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 1990;La guerra, Milano, 1992;Oltre il linguaggio,Milano, 1992;Tautotes, Adelphi, Milano, l995.

PENSIERO
A partire da Platone una “cosa” è ciò che si mantiene in un provvisorio equilibrio tra essere e non essere. Questa “fede nel divenire” implica che
l’ “ente” sia un niente, quando non è ancora nato o non è più. E’ questa, per Severino, la “follia” dell’Occidente, il “sentiero della notte”, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’angoscia del divenire, l’Occidente, rispondendo a quella che Severino chiama la “logica del rimedio”, ha evocato gli “immutabili” (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica sarebbe il modo in cui oggi domina il senso greco della “cosa”. All’inizio della nostra civiltà Dio – il Primo Tecnico – crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica – ultimo dio – ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia del divenire innanzitutto perché crede che il divenire esista.


Contributi dell’autore all’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche:

Trasmissioni

Articoli

Aforismi

Interviste

da: Emanuele Severino.

Biografia di Emanuele Severino (1929-2020)

Emanuele Severino è stato un influente filosofo italiano, nato a Brescia il 26 febbraio 1929 e scomparso nella stessa città il 17 gennaio 2020. La sua opera ha avuto un impatto significativo sulla filosofia contemporanea, in particolare per la sua critica al nichilismo e la sua proposta di un ritorno alla concezione dell’essere, ispirata ai presocratici, in particolare a Parmenide.

Formazione e carriera accademica

Severino si laureò in Filosofia all’Università di Pavia nel 1948, discutendo una tesi su Heidegger sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Filosofia teoretica nel 1950, iniziò la sua carriera accademica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1954. Qui divenne professore ordinario di Filosofia morale nel 1962 e pubblicò opere significative come Studi di filosofia della prassi (1962) e Ritornare a Parmenide (1964) [1][3][7].

Nel 1970, Severino si trasferì all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove contribuì alla fondazione della facoltà di lettere e filosofia. Rimase attivo in questa istituzione fino al 2001, quando divenne professore emerito. Durante il suo incarico, Severino ha diretto l’Istituto di Filosofia e ha insegnato vari corsi, inclusi logica e storia della filosofia [4][5][7].

Pensiero filosofico

Il pensiero di Severino è caratterizzato da una profonda riflessione sul concetto di essere. Egli sostiene che la storia della filosofia occidentale è segnata dal nichilismo, poiché molte correnti filosofiche tendono a ridurre l’essere al nulla. Per superare questa crisi, Severino propone un ritorno alla concezione dell’essere come immutabile e eterno, contrapposta all’idea del divenire [1][2][7].

Severino ha anche esplorato le implicazioni del suo pensiero per la tecnica e la società contemporanea, criticando il modo in cui il pensiero moderno affronta la questione dell’essere. Le sue opere principali includono titoli come Essenza del nichilismo (1972), La struttura originaria (1958) e Il destino della tecnica (2009), che riflettono la sua visione critica della tradizione metafisica [1][2][3].

Riconoscimenti e eredità

Severino è stato nominato Accademico dei Lincei nel 1994 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo contributo alla filosofia. Ha collaborato con importanti pubblicazioni italiane come il Corriere della Sera. La sua influenza si estende anche attraverso i suoi allievi e le generazioni successive di filosofi che hanno continuato ad esplorare i temi da lui introdotti [2][5][7].

In sintesi, Emanuele Severino rappresenta una figura centrale nella filosofia italiana del XX secolo, noto per le sue profonde analisi sull’essere e per la critica al nichilismo che permea gran parte della tradizione filosofica occidentale.

Citations:
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-severino/
[2] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2020/02/Emanuele-Severino-e-Gianni-Vattimo-In-cammino-verso-il-nulla–0930282d-897b-4310-8a53-b847c8ac5d24.html
[3] https://www.casadellacultura.it/1022/emanuele-severino-nel-ricordo-di-galimberti
[4] https://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4fca90dc08db4
[5] https://www.unive.it/pag/14024/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=8425
[6] https://www.vitaepensiero.it/scheda-articolo_digital/emanuele-severino/la-struttura-dellessere-001050_1950_05-6_43067002-378676.html
[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[8] http://www.filosofia.it/archivio/images/download/argomenti/SguardosuSeverino_Miligi_Torno_07.pdf
[9] https://www.emanueleseverino.it/biografia/

Emanuele Severino ha scritto numerose opere fondamentali che hanno influenzato profondamente la filosofia contemporanea. Di seguito sono elencate alcune delle sue principali opere:

Opere principali

  • La struttura originaria (1958): Un testo fondamentale che esplora il concetto di essere e la sua relazione con il pensiero.
  • Essenza del nichilismo (1972): In questo libro, Severino analizza il nichilismo e la sua influenza sulla cultura occidentale.
  • Il destino della tecnica (1988): Un’opera che discute le implicazioni filosofiche e sociali della tecnica nella vita contemporanea.
  • Il nulla e la poesia (1990): Un saggio che riflette sul tema del nulla in relazione all’arte poetica.
  • La filosofia dai Greci al nostro tempo (diverse edizioni): Un’opera che esamina l’evoluzione del pensiero filosofico dall’antichità fino ai giorni nostri.
  • Fondamento della contraddizione (2004): Un’analisi approfondita del principio di non contraddizione nella filosofia.
  • Antologia filosofica. Dai greci al nostro tempo (2006): Una raccolta delle opere più significative dei filosofi occidentali.
  • La gloria (2001): Un’opera che esplora il concetto di gloria attraverso una lente filosofica.

Tematiche trattate

Le opere di Severino affrontano temi come:

  • L’essere e il divenire
  • Il nichilismo
  • La tecnica e la sua influenza sulla società
  • La verità e la sua natura storica
  • La relazione tra poesia e nulla

Severino è noto per la sua capacità di affrontare questioni complesse con uno stile rigoroso e una profonda conoscenza della tradizione filosofica, rendendo le sue opere accessibili sia a studiosi che a lettori interessati.

Citations:
[1] https://librerie.unicatt.it/libri-autore/emanuele-severino.html
[2] https://www.larivistadeilibri.it/emanuele-severino/
[3] https://www.adelphi.it/catalogo/autore/941/emanuele-severino
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[7] https://www.lafeltrinelli.it/libri/autori/emanuele-severino
[8] https://www.mimesisedizioni.it/catalogo/autore/3900/emanuele-severino

Le opere di Emanuele Severino affrontano diversi temi centrali della filosofia, con un focus particolare sull’essere, il nichilismo e la condizione umana. Ecco un riepilogo dei principali temi trattati:

Temi principali

1. L’essere e la sua eternità

Severino pone al centro del suo pensiero la questione dell’essere, sostenendo che ogni ente è eterno e immutabile. Questa tesi è espressa in opere come La struttura originaria e Ritornare a Parmenide, dove afferma che l’essere non può mai diventare nulla, e quindi ogni essente esiste eternamente, indipendentemente dalla sua apparizione o scomparsa[1][2].

2. Critica al nichilismo

Severino analizza il nichilismo come una delle principali problematiche della filosofia occidentale, ritenendo che molte tradizioni filosofiche abbiano erroneamente accettato l’idea che l’essere possa divenire nulla. La sua critica si estende a diverse correnti di pensiero che, secondo lui, hanno contribuito a questa visione decadente della realtà[1][3].

3. Il divenire e l’illusorietà del cambiamento

Contrariamente alla concezione tradizionale del divenire come elemento fondamentale della realtà, Severino sostiene che il cambiamento è illusorio. Ogni ente, anche se appare in forme diverse nel tempo, rimane eternamente ciò che è. Questa idea si riflette nella sua metafora del “cerchio dell’apparire”, dove gli enti entrano ed escono dalla vista ma non dalla loro esistenza[1][2].

4. La condizione umana

Severino esplora anche la condizione dell’uomo nel contesto della verità e dell’errore. Sottolinea come l’uomo sia conteso tra la consapevolezza della propria mortalità e la verità dell’essere eterno. La sua filosofia invita a superare la percezione di caducità per riconoscere l’eternità intrinseca di ogni ente[2][5].

5. Riflessioni sulla tecnica e sulla società

Severino critica sia il capitalismo che il comunismo, vedendoli come espressioni di una “vita inautentica” dominata dalla tecnica. Egli avverte dei pericoli insiti in una società che perde di vista il significato profondo dell’essere a favore di un’esistenza superficiale e tecnocratica[1][3].

In sintesi, le opere di Emanuele Severino si concentrano su una visione filosofica radicale che sfida le convenzioni tradizionali riguardo all’essere, al cambiamento e alla condizione umana, proponendo una riflessione profonda sull’eternità e sull’illusorietà del divenire.

Citations:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[2] https://www.pandorarivista.it/articoli/emanuele-severino-filosofia-e-destino-occidente/
[3] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[4] https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-i/
[5] https://www.lelettere.it/blog/41/emanuele-severino-leternita-di-tutte-le-cose

Emanuele Severino interpreta il concetto di “dominio della tecnica” come un fenomeno centrale nella civiltà contemporanea, riflettendo sulla sua profonda influenza sulla condizione umana e sulla filosofia occidentale. Ecco i punti chiave della sua interpretazione:

1. La tecnica come espressione della volontà di potenza

Severino considera la tecnica non solo come un insieme di strumenti, ma come un’espressione della volontà umana di dominare e trasformare la realtà. In questo contesto, la tecnica diventa il principale mezzo attraverso cui l’umanità cerca di affermare il proprio potere sul mondo, ma al contempo rappresenta una perdita di controllo, poiché l’uomo finisce per diventare schiavo della propria creazione[1][5].

2. La tecnica e il nichilismo

Secondo Severino, il dominio della tecnica è intrinsecamente legato al nichilismo, che egli definisce come la grande contraddizione che muove l’Occidente. Questo nichilismo si manifesta nella convinzione che gli enti oscillino tra l’essere e il non essere, portando a una visione del mondo in cui la tecnica diventa l’unico principio di riferimento per l’agire umano. La tecnica, quindi, è vista come il culmine della fede nel divenire, un’idea che Severino critica profondamente[2][3].

3. La tecnica come destino dell’umanità

Severino sostiene che la tecnica ha assunto un ruolo così predominante da diventare il vero destino dell’umanità. Essa non è più semplicemente un mezzo per raggiungere fini, ma è diventata un fine in sé, trasformando radicalmente l’essenza dell’agire umano. Questo cambiamento implica che l’umanità non riesca a concepire un’esistenza al di fuori della dimensione tecnica[1][4].

4. Critica alla tradizione filosofica

Severino critica la tradizione filosofica occidentale per aver abbandonato l’essere parmenideo a favore del divenire, generando così una crisi esistenziale e una nostalgia per l’essere. In questo contesto, la tecnica rappresenta una risposta alla paura del nulla e all’angoscia del divenire, ma anche una forma di alienazione[5][6].

5. Impossibilità di limitazioni

Infine, Severino avverte che la tecnica avanza senza incontrare limiti invalicabili, liberata dalla filosofia contemporanea che le consente di procedere all’infinito. Questo aspetto solleva interrogativi etici e filosofici riguardo al futuro dell’umanità e alla direzione in cui ci sta portando il dominio della tecnica[3][5].

In sintesi, per Severino, il dominio della tecnica è una manifestazione complessa della condizione umana contemporanea, caratterizzata da una tensione tra desiderio di controllo e perdita di libertà, con profonde implicazioni filosofiche e sociali.

Citations:
[1] https://www.npensieri.it/approfondimenti/filosofia/filosofi/filosofia-contemporanea/domande-e-risposte-su-emanuele-severino/
[2] http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/5860/844768-1180261.pdf?sequence=2
[3] https://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/1185/1138/2152
[4] https://emanueleseverino.com/2021/02/16/il-pensiero-severino-come-egli-stesso-ricorda-in-unintervista-rammenta-quando-formulo-le-sue-idee-per-la-prima-volta-quelle-idee-destinate-a-suscitare-cosi-tanto-stupore-aveva-ventitre-anni/
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.docsity.com/it/docs/il-destino-della-tecnica-emanuele-severino-riassunti/5084305/
[7] https://www.ousia.it/content/Sezioni/Temi/Tesi/NichilismoTechnePoesia.doc

Citazioni sul tempo in Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti italiani, ha riflettuto profondamente sul tema del tempo e della sua fugacità. Le sue opere esprimono un’intensa consapevolezza della transitorietà della vita e dell’inevitabilità del passare del tempo. Ecco alcune citazioni significative che illustrano il suo pensiero:

Citazioni sul Tempo

  • Fugacità della vita: In “A Silvia”, Leopardi scrive:

“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi?”
Questi versi evocano la bellezza e la gioventù, sottolineando come il tempo porti via le speranze e le illusioni giovanili[1].

  • Riflessione sulla giovinezza: Nella poesia “Alla luna”, Leopardi afferma:

“Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso.”
Qui si evidenzia la dolcezza della giovinezza, contrapposta alla tristezza che il passare del tempo porta con sé[4].

  • La percezione del tempo: Leopardi osserva:

“Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d’averne che basti; quanto più se ne getta, tanto par che n’avanzi.”
Questa riflessione mette in luce la nostra relazione complessa con il tempo: più lo consideriamo prezioso, più ci sembra di non averne mai abbastanza[5].

  • Malinconia e speranza: In uno dei suoi pensieri, Leopardi scrive:

“Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura.”
Qui il poeta suggerisce che la consapevolezza del dolore e della fugacità del tempo può portare a una forma di malinconia profonda[2].

Riflessioni sul Tempo

Leopardi non solo descrive il passare del tempo, ma esplora anche le emozioni e le esperienze umane ad esso collegate. La sua poesia spesso riflette una tensione tra speranza e disperazione, evidenziando come la bellezza della vita sia sempre accompagnata dalla consapevolezza della sua brevità. La malinconia diventa un tema centrale nella sua opera, rappresentando un modo per affrontare l’inevitabile scorrere del tempo.

In sintesi, Leopardi ci invita a riflettere su come viviamo il nostro tempo, sull’importanza dei ricordi e sulla necessità di abbracciare sia la gioia che il dolore che esso porta con sé.

Citations:
[1] https://libreriamo.it/frasi/frase-giacomo-leopardi-fugacita-vita/
[2] https://www.frasicelebri.it/frasi-di/giacomo-leopardi/
[3] https://www.ilcuoredelmondonellarte.it/giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-malinconia/?doing_wp_cron=1732995124.4357669353485107421875
[4] https://www.frasicelebri.it/frase/giacomo-leopardi-oh-come-grato-occorre-nel-tempo-g/
[5] https://sapere.virgilio.it/aforismi/autori/giacomo-leopardi