UMBERTO GALIMBERTI, Per una filosofia attenta all’altro

“La via dell’amore”, il nuovo saggio di Luce Irigaray
PER UNA FILOSOFIA ATTENTA ALL’ALTRO
di Umberto Galimberti *
E se “filo-sofia” non volesse dire ” amore della saggezza” ma “saggezza dell’amore”, così come “teo-logia” vuol dire discorso su Dio e non parola di Dio, o come “metro-logia” vuol dire scienza delle misure e non misura della scienza? Perchè per “filo-sofia” questa inversione nella successione delle parole? Perchè in Occidente la filosofia si è strutturata come una logica che formalizza il reale, sottraendosi al mondo della vita, per rinchiudersi nelle università dove, tra iniziati, si trasmette da maestro a discepolo un sapere che non ha alcun impatto sull’esistenza e sul modo di condurla? Sarà per questo che da Platone, che indica come condotta filosofica “l’esercizio di morte”, ad Heidegger, che tanto insiste sull’essere-per-la morte, i fillosofi si sono innamorati più del saper morire che del saper vivere?
Questa è la provocazione di Luce Irigaray che, nel suo ultimo libro: La via dell’amore, denuncia l’atteggiamento tipico e totalmente irriflesso del filosofo che, nella cura della purezza del logos, trascura il dia-logo con uno o più soggetti differenti, come le donne, per esempio, onde evitare i delicati problemi relazionali che nascono dal confronto con l’altro. E’ saggio tutto questo? O è semplicemente il sintomo di una paura o di una incapacità di entrare in relazione con l’altro?
Con questa provocazione Irigaray non intende distruggere l’edificio concettuale che la filosofia ha costruito in Occidente, ma denunciarne il carattere parziale, dovuto al fatto che si è preferito coltivare la purezza delle idee piuttosto che il rapporto intersoggettivo tra gli uomini, tutti portatori di idee, amputando così la verità, l’etica, la teologia stessa dei suoi valori di base, per privilegiare un monologo solipsistico, sempre più lontano dal reale.
Tutto ciò non corrisponde a una saggezza umana, ma piuttosto a un esilio circondato da fortificazioni dove il filosofo si ripara, servendosi soprattutto di una lingua difficilmente accessibile e più preoccupata di ” parlare di” invece che di ” parlare con” gli altri e così apprendere che non c’è una sola verità, una sola bellezza, una sola scienza.
E questo vale soprattutto oggi dove, per effetto della globalizzazione sperimentiamo che la diversità non è solo tra l’uomo e la donna, e più in generale fra i soggetti, ma tra le differenti culture, ciascuna delle quali è portatrice di un’oggettività difficilmente catalogabile con le nostre categorie, oltre che di una simbolica e di una sensibilità che richiedono di essere non solo comprese, ma pensate.
Qui più del logos conta il dia-logo, che è possibile solo quando riconosco che l’altro possa avere un gradiente di verità superiore al mio. Questa è l’essenza della tolleranza che le religioni, nonostante il gran parlare che ne fanno, misconoscono. Perchè non si può dialogare con chi si ritiene depositario di una verità assoluta. Questo la filosofia deve dire alle religioni, ma solo se si presenta non tanto come amore per la saggezza quanto come saggezza dell’ amore. Perchè è proprio dell’amore il riconoscimento dell’alterità dell’altro.
Bisogna allora passare dalla “trascendenza verticale” proposta dalle religioni alla “trascendenza orizzontale” che riconosce l’altro non nel Grande Altro ma nell’altro che ogni giorno incontriamo e che invoca un discorso per elaborare non la città ideale di Platone che sta nell’iperuranio, ma un universo che sia da tutti il più possibile condiviso. Meno filosofia del logos e più pratica filosofica attenta al mondo della vita. Questo forse oggi è necessario se non addirittura urgente.
– LUCE IRIGARAY, La via dell’amore, Bollati Boringhieri – Traduzione di Roberto Salvatori – Pagg. 117, – Euro 14
* La Repubblica/Almanacco dei libri, 12.04.2008.

Una sfaccettatura della sincronicità: Il colpo d’occhio o sguardo sincronico


Dall’autobiografia di Teresa di Gesù Bambino
«Ero un carattere gaio ma non sapevo lanciarmi nei giochi dell’età mia; spesso durante la ricreazione mi appoggiavo ad un albero e da là contemplavo il colpo d’occhio, abbandonandomi a riflessioni serie!» (Manoscritto A, 115).
Questo brano è una splendida immagine della dote manifestata da Maria al banchetto di Cana.
Nel racconto evangelico, tutti hanno qualcosa da fare: chi nella cucina, chi al servizio, chi agli strumenti musicali. Soltanto Maria vede l’insieme, ha il colpo d’occhio e capisce che cosa di essenziale sta succedendo e che cosa di essenziale sta mancando: “Non hanno più vino”. Cardinale Carlo Maria Martini
Più di una volta mi sono trovata a leggere:
La sinossi dei Vangeli è uno sguardo d’insieme o parallelo dei vangeli. Da sùnopsis, “colpo d’occhio” cioè avere la possibilità di guardare la corrispondenza dei passi in uno stesso tempo. Qualora si mettessero i primi tre vangeli in parallelo, con un solo colpo d’occhio, si noterebbe che hanno delle grandi affinità. La sinossi, quindi, è uno sguardo contemporaneo, sincronico, del materiale evangelico.”
Tra i sentieri della sincronicità, allora, da anni ne intuisco uno che mi rimanda ad un atteggiamento di fronte alla vita di “sincronizzazione” con il mondo.
La sincronizzazione ha il suo proprio ritmo. In ciascuna vita c’è un tempo per ogni cosa. Il processo di sincronizzazione non può essere forzato: esso deve essere colto con fluida grazia, un passo alla volta. Questo è l’inizio della saggezza.
Dice Carl Gustav Jung che “La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima.”
“Una definizione filosofica elementare dice che la saggezza consiste nel “fare il miglior uso possibile della conoscenza che si ha a disposizione”. Una decisione saggia, ad esempio, va presa anche quando le informazioni a disposizione sono incomplete. Pertanto, per poter agire saggiamente, bisogna essere capaci di intra-vedere al meglio.
Molte autorità e governi moderni, nonché religioni ed etiche, affermano che la saggezza richiede una “prospettiva illuminata”.
Le azioni e le intuizioni che sono considerate dai più come sagge tendono a:
• innalzarsi al di sopra di un singolo punto di vista, aspirando ad un modo di essere che sia compatibile con più di un sistema etico;
• aver cura della vita, del bene pubblico e degli altri valori impersonali, senza anteporre loro il proprio ristretto interesse personale;
• avere una solida conoscenza dell’esperienza del passato (senza per questo essere incapaci di svincolarsene), ed essere al contempo in grado di anticipare le probabili conseguenze future di certe azioni;
non prestare ascolto solo alla voce dell’intelligenza, – ma anche a quella dell’intuizione, del sentimento, dello spirito, etc.
Tradizionalmente, la saggezza è collegata alla virtù. È tautologico affermare che chi è saggio è anche virtuoso. Le virtù più spesso associate alla saggezza sono l’umiltà, la compassione, la temperanza, la carità, la tolleranza e la mancanza di presunzione.
Alcuni sostengono che il più universale (ed il più utile) significato del termine saggezza sia quello di essere in grado di vivere stando bene insieme agli altri. In questa prospettiva, il saggio è colui che è in grado di mostrare agli altri la pochezza delle cose del mondo e l’intrinseca interconnessione di ogni cosa ad ogni altra.
Colloquialmente, si considera la saggezza come una qualità che sopraggiunge con l’avanzare dell’età.” Da: Wikipedia
I sentieri che hanno un cuore, allora, intersecano talvolta, quasi per caso, la via maestra del pensiero razionale, ma quando questo accade, quando la nostra testa e il nostro cuore si muovono all’unisono, sembrano verificarsi condizioni particolari, la cui caratteristica è di infrangere ogni nostra aspettativa e di essere a-logiche, a-temporali, a-scientifiche ma, nondimeno, perfettamente reali.
Allora mi sembra di intuire che anche noi possiamo avere un approccio alla vita di tipo sincronico e/o diacronico, un approccio che “aiuta” la sincronicità.
Sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle “coincidenze significative” (da Wikipedia)
Una sfaccettatura della sincronicità, allora, potrebbe essere un approccio sincronico che è quel colpo d’occhio che permette di intuire immediatamente la struttura di fondo di tutta una serie d’eventi.
Lo sguardo diacronico, invece, è lo sguardo “solito”, che permette di dare un giudizio soltanto dopo che è stata esaurita la conoscenza dei fatti particolari.
La parola “sincronico” deriva dal greco “sin-kronos”. “Sin” vuol dire “insieme”, “kronos” vuol dire “nel tempo”. “Diacronico” – “dia-kronos” – vuol dire “attraverso il tempo”.
Chi è esperto di musica sa che questa è fatta di tre elementi: il tempo, la melodia e l’armonia.
La melodia è diacronica, lo sviluppo di una nota melodica; l’armonia è sincronica, una nota sull’altra. Il tempo è la struttura di base che permette all’armonia e alla melodia di stare insieme.
Solo uno sguardo sincronico consente di cogliere stadi di coesistenza o di sovrapposizione.

Pensieri correlati

Diacronia / sincronia
Da: Dizionario di storiografia
“Termini derivati dalla linguistica strutturale di F. de Saussure. La sincronia (estensione nello Spazio) è compresenza acronica delle relazioni strutturali che compongono la langue; la diacronia (estensione nel Tempo) è la successione temporale degli stati del sistema linguistico. L’analisi storico-critica (R. Engler, T. De Mauro) ha dimostrato che esistono in Saussure vari significati dei due termini. Si può affermare però che solo la langue (sistema dei mezzi linguistici, superindividuale e trascendente, sincronia fuori dal tempo) è oggetto di scienza, e che nel campo della diacronia non c’è vera conoscenza. Il cambiamento linguistico è infatti per Saussure la sostituzione di uno stato sincronico con un altro stato sincronico. L’opera storiografica di A. Meillet, allievo di Saussure, ha mostrato la relazione tra sincronia linguistica e organizzazione sociale, cercando di formulare una teoria del sistema linguistico che renda conto della diacronia e del mutamentoindividuale. La teoria della lingua s’interseca in Meillet con la sociologia di E. Durkheim, e si ricongiunge ai problemi della conoscenza storica (per esempio in M. Bloch).”
“Il pensiero sincronico può essere definito un “pensiero di campo”, al cui centro si trova un tempo periodico, infinito e immaginario, a forte valenza affettiva. Un tempo d’anima. E’ da questo centro che scaturisce il kairòs, il tempo debito. Il pensiero causale è, per così dire, lineare, e procede secondo una concezione del tempo sequenziale e relativistica. Questi due tempi, sincronico e causale, sono per noi i poli estremi e complementari (di cui il primo, però, dev’essere considerato centrale anche al secondo) di un unico asse temporale su cui si declina il simbolico nel suo farsi ineffabile esperienza di vita, sospesa tra tempo sacro e profano. Tra i due, c’è una serie infinita di stadi intermedi in cui le due modalità si combinano tra di loro.
Sono quindi da considerarsi sincronici, oltre i tre tipi elencati, anche gli imprevisti, gli incidenti, le malattie e le guarigioni, le perdite e i ritrovamenti, gli incontri e gli scontri, le guerre e la pace, gli eventi sociali e naturali, la fortuna e la sfortuna, le nascite e le morti, le mutazioni, le invenzioni, persino le scoperte scientifiche, i sogni e, naturalmente, evento degli eventi, l’amore. Come vedete, la vita stessa, nel suo complesso, può essere concepita come un immenso flusso, continuo e ininterrotto, di eventi sincronici.
La sincronicità si ha allora quando l’anima dell’uno mostra la sua stretta e intima interconnessione, patica (sia nel verso sin che anti), con l’anima dell’altro, ed entrambe con l’anima del mondo.”

Da: Baldo Lami, Le sincronicità: neppure il caso viene a caso!

“La cultura della improvvisazione nell’attimo presente è lo sguardo che occorre”. Paolo Ferrario parlando di Jazz.
“Guardare” significa anzitutto badare, sorvegliare, custodire, e fare attenzione. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l’oggetto. Ed è così che io “sono”: nel vedere mi vedo.. ; nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi. […] Così tutto il volto diventa un occhio

In: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo
“Noi non vediamo l’occhio umano come un ricettore. Quando vedi l’occhio vedi qualcosa uscirne. Vedi lo sguardo dell’occhio”. In: L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi
“Lo sguardo è la cosa che esce, la cosa dell’uscita – e per essere più precisi: lo sguardo non è niente di fenomenico, al contrario è la cosa in sé di un’uscita da sé, solo con la quale un soggetto diventa soggetto, e la cosa in sé dell’uscita o dell’apertura non è uno sguardo su un oggetto ma l’apertura verso un mondo. In verità, non è più affatto uno sguardo-su, è uno sguardo tout-court, aperto non su ma dall’evidenza del mondo.” In: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo

Filmografia
– Il favoloso mondo di Amélie
– ?

libri di Grazia Apisa Gloria

Ha pubblicato racconti, favole e poesie:

“Il linguaggio dei sogni”, (Genova, 1994) con la Nuova Editrice Genovese;

“Stelle d’Igea”, favole ispirate ad un sogno (Genova, 1994);

“Scacco matto alla ragione – La strada di San Diego – due racconti e 11 poesie” (Genova, 1994);

“Ti amo – Dalla dialettica al dialogo” (Genova, 1994);

“Luce bianca nel sentiero” (Genova, 1994) con la Silver Press;

“Senza Traccia” (Genova, 1995),

“Il fiore del gelsomino” (Genova, 2007),

“La strada Bianca” (Genova, 2007),

“Quell’Aprile antico” (Genova, 2007),

“L’infinito e il suo sogno” (Genova, 2007),

“Nell’attimo eterno” (Genova 2008),

“Il Dio di luce” (Genova, 2008),

“Nella città della luce e del sogno” (Genova, 2008),

“Mi chiederai di nascere” (Genova 2008),

“L’incontro” (Genova, febbraio 2009) con la Golden Press..

Emmanuel Lèvinas – Il volto dell’Altro come alterità etica e traccia dell’infinito.


La filosofia di Lèvinas origina da un pensiero personale nato dallo stupore del silenzio di Dio verso le tragedie, pensiero nel quale confluiscono diverse tradizioni e culture – l’ebraismo lituano, intellettualista e non mistico; la letteratura russa; la filosofia francese, in particolare quella di Bergson; la fenomenologia di Husserl e Heidegger – che si integrano tra loro in una unità elaborata grazie alla sua riflessione e alla sua personale esperienza di vita, molto segnata dalla Seconda Guerra Mondiale e dai campi di concentramento.

“Configurandosi come fagocitazione dell’altro, l’ontologia fino ad Heidegger si delinea, secondo Lèvinas, come una filosofia della potenza che porta al dominio ed alla sopraffazione del prossimo. Alla violenza teorica dell’approccio ontologico, corrisponde, sul piano pratico, l’annientamento della dignità e della libertà dell’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tanto che lo stesso Heidegger nel 1933 aderirà al nazismo; scelta quest’ultima che determinerà il radicale distacco di Lèvinas dal filosofo tedesco.

Dolcezza, accoglienza, ospitalità, dimora, passività della ragione in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, vulverabilità, verginità ossia l’inviolabilità dell’infinito che resta, e deve restare, desiderato e mai posseduto, alterità, questi tratti femminili per eccellenza, secondo la tradizione, sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Lèvinas, il quale nel suo percorso filosofico cerca di ridefinire l’identità del soggetto mettendo in questione il Logos greco, razionalità arida ed avvilente. Il primato dell’ontologia è il paradigma dell’Occidente: Da Parmenide ad Heidegger non c’è mai stata la possibilità della singolarità. In Totalità e infinito Lèvinas scrive:

“Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale […] resta all’interno dell’obbedienza dell’anonimato e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. […] L’essere prima dell’ente. L’ontologia prima della metafisica – cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’altro”.

Secondo Lèvinas, infatti, il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione del medesimo nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere.

Fin dal saggio del 1935 L’evasione, Lèvinas si domanda se per dire l’umano sia possibile intraprendere un’altra strada rispetto a quella dell’essere: “Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via”.” (Tratto da: Mirko di Bernardo, Emmanuel Lèvinas: La metamorfosi del femminile come via che conduce all'”altrimenti che essere”?)



Per Lèvinas, come per quasi tutti i filosofi contemporanei, l’etica non è fatta solo di regole o direttive, ma anche di attenzione alle realtà umane, specialmente alle azioni e alla responsabilità di ogni essere libero.


Egli fonda tutta la sua teoria dell’etica della società su “il faccia a faccia con l’altro”. E’ lì che è racchiuso il segreto supremo della vita: nel volto che abbiamo di fronte e che mai riusciremo ad afferrare per intero, riconducendolo a noi stessi.



Così egli scrive: “Quando mi riferisco al volto, non intendo solo il colore degli occhi, la forma del naso, il rossore delle labbra. Fermandomi qui io contemplo ancora soltanto dei dati; ma anche una sedia è fatta di dati. La vera natura del volto, il suo segreto sta altrove: nella domanda che mi rivolge, domanda che è al contempo una richiesta di aiuto e una minaccia”.
In “Dio, la morte e il tempo” scrive: “La morte apre al volto d’Altri, il quale è espressione del comandamento “Non uccidere”. Tentare di partire dall’omicidio come da ciò che suggerisce il senso esauriente della morte. Pensare la morte a partire dal tempo – e non come in Heidegger, il tempo a partire dalla morte – è uno degli inviti tratti dal primo sguardo all’utopismo di Bloch; pensarla d’altra parte a partire dall’interrogazione sul senso dato all’emozione che accoglie la morte. Porre in risalto la questione che la morte solleva nella prossimità del prossimo, questione che, paradossalmente, è la mia responsabilità per la sua morte”.

All’origine dell’etica lèvisiana sta l’appello dell’alterità/esteriorità d’altri che significa nel “volto”, in quanto esso mi comanda di aiutarlo nella sua indigenza, nudità, esposizione, fragilità e altezza al tempo stesso. Il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, “che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire”. “La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina in una dimensione di maestosità”. L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, “anzi, comando etico incondizionato che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” del Signore e del Maestro, e rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui”.

“Il volto si sottrae al possesso, al mio potere. Nella sua epifania, nell’espressione, il sensibile, che è ancora afferrabile, si muta in resistenza totale alla presa. Questo mutamento è possibile solo grazie all’apertura di una nuova dimensione. Infatti la resistenza alla presa non si produce come una resistenza insormontabile, come durezza della roccia contro cui è inutile lo sforzo della mano, come lontananza di una stella nell’immensità dello spazio. L’espressione che il volto introduce nel mondo non sfida la debolezza del mio potere, ma il mio potere di potere. Il volto, ancora cosa tra le cose, apre un varco nella forma che per altro lo delimita. Il che significa concretamente: il volto mi parla e così mi invita ad una relazione che non ha misura comune con un potere che si esercita, foss’anche godimento o conoscenza”.


Quella del volto è una delle tesi fondamentali del suo saggio “Totalità e Infinito”. Nella Prefazione Lèvinas scrive: “Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità. In essa si consuma l’idea dell’infinito”, il luogo in cui si manifesta la totale alterità di Dio, che si fa strada nell’incontro con l’Altro.



Oltre a una relazione diretta con l’altro nel faccia a faccia della prossimità, esiste una relazione più indiretta e mediata, che non passa necessariamente attraverso la vicinanza dell’incontro. È quello che Lévinas chiama “il terzo” e che in “Altrimenti che essere” definisce come “un altro rispetto al prossimo, ma anche un altro prossimo”. È qui che si pone l’esigenza di giustizia come istanza di colmare, nell’uguaglianza, la distanza che separa il prossimo dal lontano. Questa responsabilità si allarga nella giustizia e nello Stato, a un livello universale.

La Diaconia da: E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore.



“La visitazione del volto non è il disvelamento di un mondo. Nella concretezza del mondo, il volto è astratto o nudo. E’ denudato della propria immagine. E’ solo grazie alla nudità del volto che la nudità in sé diventa possibile nel mondo.



La nudità del volto è una spoliazione priva di ogni ornamento culturale, un’assoluzione, un distacco in seno stesso alla propria produzione. Il volto entra nel nostro mondo a partire da una sfera assolutamente estranea, e cioè proprio a partire da un assoluto che, del resto, è il nome stesso dell’estraneità innata. Nella sua astrazione, il significato del volto è, in senso laterale, stra-ordinario. Com’è possibile una simile produzione? Com’è possibile che, nella visitazione del volto, la venuta d’Altri a partire dall’assoluto non si trasformi, in nessun modo, in rivelazione, non fosse che come simbolismo o suggestione? Perché il volto non è semplicemente una rappresentazione vera in cui l’Altro rinuncia alla propria alterità? Per poter rispondere a tali domande dovremo studiare la significazione eccezionale della traccia (in E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza” con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore) e l’ordine personale in cui tale significazione è possibile.



Insistiamo per ora sul senso implicito nell’astrazione o nella nudità del volto che ci apre tale ordine e sullo sconvolgimento della coscienza che risponde a tale astrazione. Spogliato della sua stessa forma, il volto è irrigidito nella sua stessa nudità. E’ una miseria. La nudità del volto è indigenza e già supplica nella rettitudine che mi concerne. Ma tale supplica è un esigere. In essa l’umiltà si unisce all’alterigia. E con ciò si annuncia la dimensione etica della visitazione. Mentre la rappresentazione vera resta possibilità di apparenza, mentre il mondo che ostacola il pensiero non può nulla contro il libero pensiero che nella propria intimità è capace di non aderire al mondo, di rifugiarsi in sé, di rimanere appunto libero pensiero dinnanzi al vero e di esistere “per primo” come origine di ciò che riceve, di dominare con la memoria ciò che lo precede, mentre il libero pensiero resta “lo Stesso”, il volto mi si impone senza che io possa rimanere sordo al suo appello o obliarlo, e cioè senza che io possa smettere di essere ritenuto responsabile della sua miseria. La coscienza perde il suo primato.



La presenza del volto significa anche un ordine irrecusabile – un comandamento – che fa venir meno la disponibilità della coscienza. Il volto mette in questione la coscienza. La messa in questione non è nuovamente presa di coscienza di tale messa in questione. L’assolutamente altro non si riflette nella coscienza. Vi resiste a tal punto che la sua resistenza non si trasforma in contenuto di coscienza. La visitazione consiste nello sconvolgere l’egoismo stesso dell’Io, il volto disorienta l’intenzionalità che mira ad esso.



Si tratta della messa in questione della coscienza e non di una coscienza della messa in questione. L’Io perde la sua sovrana coincidenza con sé, la propria identificazione in cui la coscienza ritorna trionfalmente a se stesa per riposare in sé. Dinnanzi all’esigenza d’Altri, l’Io espelle se stesso da tale riposo e non si identifica con la coscienza, già orgogliosa, di tale esilio. Qualsiasi compiacimento distruggerebbe la rettitudine del movimento etico.



Ma la messa in questione di questa selvaggia e ingenua libertà, sicura del proprio rifugio in sé, non è soltanto questo movimento negativo. La messa in questione di sé è proprio l’accoglimento dell’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è il volto in cui l’Altro mi interpella e mi impartisce un ordine attraverso la sua stessa nudità, la sua stessa indigenza. La sua presenza è un’ingiunzione a rispondere. L’Io non prende solo coscienza della necessità di tale risposta, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere rispetto a cui ci sarebbe possibilità di scelta. Nella sua stessa posizione, egli è integralmente responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.



Essere Io significa allora non potersi sottrarre alla responsabilità. Questo più d’essere, questa esagerazione che chiamiamo essere io, questa sporgenza dell’ipseità nell’essere, si compie come una turgescenza della responsabilità. La messa in questione di me stesso da parte dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. Solidale, non nel senso in cui la materia è solidale con il blocco di cui fa parte, o come lo è un organo con l’organismo in cui ha la propria funzione; solidarietà, qui, significa responsabilità come se tutta la struttura della creazione poggiasse sulle mie spalle. L’unicità dell’Io consiste nel fatto che nessuno può rispondere al mio posto. La responsabilità che svuota l’io del suo imperialismo e del suo egoismo, persino del sano egoismo, non lo trasforma in un momento dell’ordine universale. Lo conferma nella sua ipseità, nella sua funzione di supporto dell’universo.



Svelando all’Io un simile orientamento lo si identifica con la moralità. L’Io dinnanzi ad Altri è infinitamente responsabile. L’Altro che suscita questo movimento etico nella coscienza, e che sconvolge la buona coscienza della coincidenza dello Stesso con sé, implica un sovrappiù inadeguato all’intenzionalità. E’ questo il Desiderio: bruciare di un fuoco diverso da quello del bisogno che l’appagamento estingue, pensare al di là di ciò che si pensa. A causa di questo sovrappiù inassimilabile, a causa di questo al di là, abbiamo chiamato la relazione che ricongiunge l’Io all’Altro “Idea di Infinito”.



L’idea di Infinito è Desiderio. Essa consiste, paradossalmente, nel pensare più di ciò che è pensato, mantenendo comunque questo più nella sua dismisura rispetto al pensiero, consiste nell’entrare in relazione con l’inafferrabile, garantendo tuttavia a quest’ultimo il suo statuto di inafferrabile. L’infinito non è dunque il correlato dell’idea di infinito, come se l’idea fosse un’intenzionalità che ha termine nel proprio oggetto. La meraviglia dell’infinito nel finito è uno sconvolgimento dell’intenzionalità, uno sconvolgimento di questo appetito di luce: contrariamente alla saturazione in cui l’intenzionalità viene appagata, l’infinito disorienta la sua idea. L’Io in relazione con l’Infinito non può arrestare la propria marcia in avanti, non può abbandonare il proprio posto, come afferma Platone nel Fedone; non ha letteralmente il tempo di volgersi indietro. E’ questo l’atteggiamento irriducibile alla categoria. Non potersi sottrarre alla responsabilità, non disporre di un’interiorità come nascondiglio in cui rientrare in sé, andare avanti senza preoccuparsi di sé. Diventare sempre più esigenti rispetto a se stessi: quanto più faccio fronte alle mie responsabilità tanto più sono responsabile. Potere costituito dall’impotenza, è questa la messa in questione della coscienza che la fa entrare in un tessuto di relazioni che rompono con il disvelamento.”.

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“… Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a parlare, e nemmeno a formulare un pensiero, se non mi sta davanti qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono sicuro che il discorso si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di praticaccia. E’ così: non mi viene la parola se non mi rappresento qualcuno in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui quasi tutto il mio scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si snoda il discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio.

No, non c’è praticaccia che tenga: se non guardo in faccia la gente, non riesco a parlare.

Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono uno dal colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi perseguita con graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi lampeggiano dentro, da sempre.” (David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)



“La mia conoscenza personale di Don Dilani risale addirittura al 1954. Una disadorna stanza di Cadenzano, alle porte di Firenze,gli serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente: un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto. Già dall’ora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici. E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui.” David Maria Turoldo

“La mia faccia annuncia la mia presenza, riferisce sulla mia natura e soprattutto, rivolta com’è verso l’esterno, reca un messaggio agli altri. Gli angeli suonano la tromba. Ridestano dal sonno. Altrettanto fa la faccia: pretende una risposta”. (James Hillman)

“La faccia umana in realtà assomiglia a una di quelle divinità orientali: un’intera serie di facce giustapposte su piani diversi; è impossibile vederle tutte contemporaneamente” ebbe a dire Proust.



Una faccia va osservata nel tempo, sotto luci variate, durante molte scene diverse. Nessuno ha “una” faccia. La faccia invecchiata mostra la sovrapposizione di “un’intera serie di facce”. Le sette età che passano e ripassano, una trama da leggersi tra le righe. Perfino la faccia del neonato lascia intravedere tutta la gamma; fuggevoli espressioni di disposizioni irrealizzate, ma possibili”.
In: “La forza del carattere”, James Hillman

ALFRED A. TOMATIS: l’orecchio, l’ascolto e l’anima

Alfred A. Tomatis nasce prematuro di sei mesi il 1 Gennaio 1920 a Nizza (Francia) da genitori italiani. Racconta lui stesso che la sua levatrice, pensando che fosse morto, l’aveva preso per un orecchio e gettato nel cestino dei rifiuti. Fortunatamente alla scena assiste la nonna paterna che lo raccoglie e lo rianima. Diventerà il più grande “professore dell’orecchio” nella storia dell’uomo. Muore a Carcassonne (Francia) il giorno di natale del 2001.
Figlio di un famoso cantante d’opera, Alfred cresce in un mondo di suoni, di musica e canto, appassionandosi fin da piccolo alla misteriosa relazione esistente tra l’orecchio e la voce, che lo invierà agli studi di medicina e alla specializzazione in Otorinolaringoiatria.
Le sue prime esperienze cliniche furono nel campo dell’inquinamento acustico e delle sordità professionali, a partire dal trattamento dei cantanti (amici del padre) che presentavano problemi di voce.
Approfondendo la sua indagine e la sua ricerca, Tomatis si rende subito conto che la relazione tra l’orecchio e la voce coincide con quella tra l’ascolto e la comunicazione, che occupa un ruolo veramente centrale nella problematica dell’espressività umana a tutti i livelli.
Secondo il nostro autore, nei nove mesi della gestazione, il feto costruisce la propria capacità di attenzione a partire dall’ascolto della voce materna e dagli stimoli uditivi che riceve filtrati dentro il corpo della madre. Il futuro sviluppo del nascituro è quindi legato a quel periodo della gravidanza che può essere sereno, o al contrario difficile. Per questo Tomatis ritiene che il tempo della gestazione sia di fondamentale importanza nella formazione psichica dell’uomo.
La funzione dell’ascolto è infatti direttamente collegata alla concentrazione della memoria, alle condizioni psicologiche, alla consapevolezza e alla comunicazione. La nostra società si preoccupa troppo dell’aspetto razionale e logico-matematico della mente, privilegiando il pensiero lineare dell’emisfero sinistro; tali abilità sono certamente importanti, ma non possono essere così basilari come la capacità di ascoltare e quindi di comprendere.
È qui che si rivela il genio. Convinto che la genesi della sensibilità originaria da cui scaturisce il linguaggio è quell’ascolto basico della vita al suo darsi come rapporto dotato di “senso”, annidato nella comunicazione intrauterina madre-figlio; e convinto altresì che tale delicatissimo senso è suscettibile di un’infinità di perturbazioni, fino al declino in cui è precipitato nell’anima contemporanea, Tomatis sente l’urgenza di una forma rapida e radicale di terapia. A cominciare da un’applicazione strumentale, pratica e accessibile a tutti.
Inventa un apparecchio, che la stampa dell’epoca chiama “Orecchio Elettronico”, che con una serie di filtri idraulici è in grado di simulare l’ascolto intrauterino della voce umana, al fine di riparare il danno vocale attraverso la rieducazione dell’orecchio, ossia dell’area corticale connessa. E formula le tre leggi dell’audio-psico-fonologia o “metodo Tomatis”: la voce esprime solo ciò che l’orecchio può sentire; se l’ascolto si modifica, immediatamente e inconsciamente si modifica anche la voce; è possibile trasformare durevolmente la fonazione se la stimolazione acustica viene mantenuta per un certo tempo (legge della rimanenza).
L'”Orecchio Elettronico” fu presentato ufficialmente alla Fiera Mondiale di Brouxelles nel 1958 e valse al suo inventore la Medaglia d’Oro per la Ricerca Scientifica.
Apparecchio versatile dalle molteplici applicazioni, dai disturbi della comunicazione a quelli dell’apprendimento e del linguaggio, si è dimostrato ottimo anche nell’acquisizione delle lingue straniere. Riguardo quest’ultimo utilizzo, fondamentale per una società multiculturale e multilinguistica, risultò cruciale un esperimento condotto da Tomatis in Belgio nel 1976.
Il Professore divide una classe in due, un gruppo ascolta delle lezioni di inglese in cuffia con i suoni filtrati (gruppo sperimentale), l’altro segue le lezioni normali di lingua (gruppo di controllo). Questo per tre mesi. Alla ripresa dell’attività comune, i genitori del gruppo sperimentale hanno il timore che i loro bambini siano in ritardo rispetto agli altri: il preside convoca degli ispettori che esaminano le competenze linguistiche degli alunni, e il gruppo sperimentale parla più fluidamente e appropriatamente, pur non avendo studiato la grammatica. Di contro, un’esperienza di apprendimento per ‘immersione’ condotta in Canada secondo le indicazione di insigni linguisti del calibro di Chomsky e Harris, che si prefiggeva di insegnare l’inglese ai francofoni e il francese agli anglofoni esponendoli tutti i giorni all’altra lingua, si rivelò un fiasco per l’amministrazione canadese.
Il motivo dell’insuccesso, secondo Tomatis, sta nell’orecchio: l’orecchio francese è sordo ai suoni della lingua inglese. In termini più tecnici, la banda passante del francese (100-300, 1000-2000 Herz) e la banda passante dell’inglese (2000-12000 Herz) non condividono alcun suono. Se si espone invece mediante l’Orecchio Elettronico un parlante francese all’ascolto dell’inglese, filtrato come l’ascolterebbe un nascituro di madre inglese, si supera il fatidico “muro del suono” e l’acquisizione diviene molto più semplice, facile e immediata. È lo stesso motivo per cui i parlanti lingue slave sono avvantaggiati, poiché hanno una banda passante molto larga (2000-8000 Herz). Anche l’italiano non se la cava male tutto sommato, confina con il francese a un estremo e ha una certa sovrapposizione con l’inglese all’altro estremo (2000-4000 Herz).
Nei quarant’anni della sua feconda e instancabile attività, approfondendo le proprie conoscenze in diversi campi e senza mai distaccarsi dall’osservazione clinica in cui eccelleva, Alfred Tomatis si dedicò allo sviluppo e alla diffusione del suo metodo, presentato come una disciplina basata su assunti riguardanti il modo in cui l’uomo sviluppa e utilizza la capacità di comunicare con se stesso, con gli altri e con l’ambiente; un ambito di conoscenza e di pratica terapeutica e pedagogica situato al punto d’incrocio delle scienze umane.
Centri Tomatis di audiopsicofonologia si sono così diffusi in oltre 30 paesi europei e in America, anche se l’aspetto tecnico-strumentale e applicativo del metodo ha finito per prevalere sull’universalità del pensiero che ne stava alla base.

Eccellente scrittore e divulgatore, appassionato quanto rigoroso, Tomatis ha scritto 15 libri e numerosi articoli tradotti in tutto il mondo, ma sfortunatamente non tutti tradotti in italiano.

I suoi libri, oltre a evidenziare una grande capacità comunicativa, testimoniano un atteggiamento scientifico e insieme una grande comprensione dell’animo umano, senza tralasciarne gli aspetti spirituali. Soprattutto negli ultimi scritti, è evidente la volontà dell’Autore di lasciarci in eredità la sua esperienza, in una visione unitaria dell’Uomo e del Mondo che abbraccia saperi apparentemente distanti, come l’acustica, la medicina, la musica sacra e la mitologia.
Una testimonianza d’amore per l’anima, per la vita e per l’uomo in armonia col cosmo di cui è abitatore provvisorio e perenne insieme. Che si unisce a quella dei più grandi terapeuti dell’umanità.

Questi i suoi principali aforismi:

• Tutto il corpo è un orecchio, un’antenna ricettrice che vibra all’unisono con la fonte del suono.
• Non occorre sentire per ascoltare, infatti alcuni famosi musicisti del passato erano sordi.
• L’aria, una volta invasa dalle vibrazioni acustiche, che siano quelle di un battito di mani o di una sonata per pianoforte, non è più quella di prima.
• All’inizio fu il suono.
• Ogni fenomeno acustico, in fondo, non è che un’eco del «suono primordiale».
• La funzione dell’orecchio non è solo quella passiva del percepire i suoni, ma anche quella attiva in cui emerge il desiderio di ascoltarli.
• La cosa più importante da ricordare è che il cervello non produce energia, la cattura, ed è l’orecchio che gliela fornisce.
• Il suono è quindi un alimento del cervello.
• Il linguaggio è l’elemento fondante l’umanità dell’uomo.
• La lingua nativa è proprio la lingua materna appresa durante l’ascolto intrauterino, la prima funzione sensoriale a essere già consolidata al quinto mese di gestazione, e le altre lingue le si apprendono allo stesso modo, indipendentemente dall’età del parlante.
• Quando l’orecchio non ascolta in modo ottimale si hanno ripercussioni su tutto il sistema organismico.
• Una pedagogia fondata su una corretta educazione all’ascolto non ha per fine l’individuo monologante bensì l’individuo dialogante.
• Questa pedagogia è anche il segreto per accedere allo “effetto Mozart”, una chiave magica per trasformare l’organismo modificando lo stato emotivo, fisico e mentale.
• Mozart è infatti un’ottima madre e provoca il maggior effetto curativo sul corpo e sull’anima.
• La capacità di ascoltare è la madre di tutte le altre capacità: dell’apprendimento, del linguaggio, della relazione, degli affetti, della memoria, dell’intelligenza e perfino dell’identità personale e della salute psicofisica.
• L’orecchio è quindi anche uno dei migliori strumenti di guarigione.

E questi i suoi libri tradotti in italiano:

Educazione e Dislessia, Edizioni Omega, 1977.
L’Orecchio e la Vita. Tutto quello che dovreste sapere sull’udito per sopravvivere, Baldini e Castoldi, 1992.
L’Orecchio e la Voce, Baldini e Castoldi, 1993.
Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis, 1993.
L’Orecchio e il Linguaggio, Ibis, 1995
La notte uterina, Red, 1996.
Perché Mozart, Ibis, 1996.
Ascoltare l’Universo: dal big bang a Mozart, Baldini e Castoldi, 1998.
Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red, 2001.
Siamo tutti nati poliglotti, Ibis, 2003.
Nove mesi in paradiso. Storie della vita prenatale, Ibis, 2007.
Vertigini, Ibis, 2009.

Angelo-Daimon




A proposito del rapporto angelo-daimon su cui Baldo Lami invita a riflettere, debbo dire che mi si è presentato tempo fa, precisamente nel 1998, durante la stesura de Il brusio degli angeli. Saggio etico-politico sui fondamenti del lavoro di volontariato [scarica in formato doc]. In quella che chiamavo Seconda di copertina scrivevo:

Il titolo del saggio è ripreso dall’opera di Peter L. BERGER, A Rumor of Angels. Modern Society and the Rediscovery of the Supernatural, Garden City, N.Y., 1969; trad. it., Il brusio degli angeli, Bologna, 1970. Esponente della sociologia fenomenologica e autore di importanti studi di teologia della secolarizzazione (Le piramidi del sacrificio; La realtà come costruzione sociale), Berger è studioso della «Rivoluzione/Progresso come secolarizzazione della onto-teo-logica».
L’idea a cui rimanda il titolo è quella di una realtà sociale in cui la comunicazione tra individui non è posta più al riparo delle grandi certezze metafisiche del passato o garantita dalle ideologie politiche e religiose. Ogni individuo è solo davanti all’altro. Non più sostenuto da un patrimonio di conoscenze utili per l’azione, il singolo è impegnato a costruire la mappa del territorio che ha davanti a sé e nel quale intende procedere.
L’immagine dell’angelo è presa in prestito da Wallace Stevens, che diventa l’angelo necessario in Massimo Cacciari e poi codice dell’anima in James Hillman. Figura intermedia tra terra e cielo, costituisce il passaggio obbligato per chi si ponga il problema dell’accesso all’invisibile e il problema del rapporto tra visibile e invisibile.
Il brusio degli angeli dovrebbe dare l’idea del parlare sommesso, ma soprattutto dell’espressione di sé di fronte alla Realtà: allude alla capacità di comunicare con l’esperienza altrui. E’ l’immagine difficile dell’ethos del volontario. E’ il suo daimon che parla. La necessità di questo Angelo, la necessità di essere angelo a qualcuno coincide con l’esigenza di dare senso a ciò che vi è per noi. Si tratta solo di un ‘brusio’, perché è un parlare, quello del Volontario, che si produce «nell’impresa ricorrente di conversione di un mondo non intrinsecamente nostro in una realtà con altri durevolmente condivisa» (S.VECA).

Il paragrafo Zero, che intitolai In cammino verso il linguaggio, prosegue così:

In questo paragrafo liminare si parla di esseri intermedi, collocati dalla tradizione tra terra e cielo. Simbolo e cerniera tra i due mondi, gli angeli li riassumono in sé, perché sono messaggeri del ‘mondo delle idee’ presso gli uomini; da entità teologiche si sono fatti nell’arte, nella letteratura e nel pensiero moderni intermediari, protettori, custodi delle cose nascoste, dei misteri, di tutto ciò che è invisibile. Ci vengono in aiuto nella nostra riflessione, in quanto assumono la veste dell’attività rappresentativa della mente; sono emblemi delle ‘invenzioni’ della mente.
La necessità dell’angelo deriva dal fatto che l’esperienza umana si è fatta invisibile. Essa non è più immediatamente leggibile, se mai lo è stato. Tra esperienza e comportamento esiste uno scarto, una cesura difficile da colmare. Il raccordo tra l’una e l’altro è il compito di ogni politica dell’esperienza (R.LAING) che voglia restituire un resoconto credibile della condizione umana del nostro tempo e presentarsi come strumento di interpretazione della realtà che sia utile per l’azione. La necessità della ‘traduzione’ e dell’‘interpretazione’ della realtà dell’altro è la migliore riprova dell’invisibilità dell’esperienza.
L’esperienza del Volontario è il costituirsi di una relazione etica in cui egli ha da svolgere un ruolo che riesce a svolgere solo se è consapevole della propria natura, se l’accetta, se sa renderla visibile – se cioè è in grado di fare esperienza con l’altro -, se è in grado di mettere in relazione, di far parlare il suo daimon con quello dell’altro. Il daimon è l’invisibile di cui parlavamo.
Gli angeli a cui allude il titolo del saggio sono il mio daimon e quello dell’altro che è di fronte a me. Chiamare ‘angelo’ il proprio daimon significa assegnargli il compito di rendere possibile la comunicazione con la parte invisibile dell’altro, con la sua esperienza.
(Chiamare angelo il daimon, infatti, non è appropriato, per il fatto che l’Angelo è la capacità della mente di emanciparsi dai vincoli della necessità, incarnati dal daimon personale. Questa operazione, dunque, si qualifica come ‘assunzione’ del daimon a forza etica costruttiva, come veicolo del senso, primum indispensabile nel circolo della comunicazione).
Occorre ‘tradurre’ e ‘interpretare’ – nel comunicare, dentro la relazione. Il contatto tra le esperienze avviene in una sorta di terra di nessuno da creare ogni volta di nuovo. Perché sia possibile la comunicazione occorre uno ‘spazio linguistico’ comune. La costruzione di questo spazio coincide con il progressivo strutturarsi della relazione etica. Alla base di questa ‘costruzione’ c’è la volontà del singolo. Essa è origine e risultato.

«Ogni parlante è filosofo morale. E la verità è un’assemblea di parlanti» (Karl Otto Apel). Nel flusso della comunicazione, tuttavia, non si dà tutta la verità. Per questo, la tensione etica che ci spinge verso l’altro è scontro con i limiti del linguaggio, conato perenne destinato a ‘sfondare’ l’ordine del discorso per attingere il fondo di indicibile che è proprio dell’esperienza. Dentro questo paradosso del linguaggio, che è paradosso dell’esperienza – per cui essa si dà, ma non si mostra se non nell’evidenza sfuggente di una realtà che si ritrae o che ci si manifesta per enigmi – a noi non resta che avventurarci nel territorio accidentato dell’esperienza altrui, tentando con tutti i sensi di cui disponiamo di definire i lati del mondo a noi sconosciuto. Così facendo, noi parliamo, e parlando cerchiamo l’altro. Cerchiamo il suo senso e aspettiamo che dia senso al nostro parlare, che il suo parlare ‘corrisponda’ al nostro parlare.
Se paragonato al canto degli Angeli di fronte all’Altissimo, questo parlare è un sommesso bisbiglio, un impercettibile brusio, quasi un’infrazione alla regola del cielo che vuole l’Angelo ‘perso’ nella contemplazione del suo Creatore. Nella realtà mondana, essere angelo a qualcuno significa essere interessati all’esperienza altrui, all’irriducibilità di quell’esperienza, perché si tratta di farla sussistere nella sua realtà ‘biografica’ e ‘temporale’, ‘animica’, presso di noi.
La contestualità delle due esperienze nella ‘prossimità della distanza’ è comunicare. Ma ciò che viene messo in comunicazione è la parte nascosta di sé, e non siamo di fronte a un Giudice che stia lì a regolare e a garantire il flusso della comunicazione. Siamo soli. Il brusio degli angeli è questa comunicazione tra invisibilia.

La scienza delle cose invisibili è patrimonio di molti uomini ed ognuno la costituisce per sé, intrecciando relazioni significative con coloro che riconosce come propri simili. Essa si costruisce giorno dopo giorno, a brano a brano, con la gioia e col dolore, che sono gli strumenti con i quali si misurano la prossimità e la distanza, il grado di riconoscimento di cui ci è dato godere, l’altezza che abbiamo raggiunto, il diritto di esistere. Un uomo negato, infatti, è un bisogno di corrispondere e di vedersi corrisposti frustrato. Se le cose che abbiamo visto ci aiutano a vedere sempre di nuovo, e il rivedere è adagiarsi nel tepore del consueto, del familiare, dell’accogliente, in sostanza è davanti allo sguardo dell’altro che si compie la nostra esistenza.

Se il coraggio dell’inizio, se il coraggio come virtù dell’inizio ci consente di ‘avviare’ la nostra esistenza, è solo l’altro che permette l’esplicarsi della virtù della perseveranza e dunque la possibilità del ‘compimento’, della realizzazione.
Essere angelo a qualcuno è cosa difficile, perché siamo protesi piuttosto verso l’angelo che deve soccorrere noi. Solo occhi di seconda vista sanno vedere l’altro che è in noi, come l’altro che è fuori di noi. Dentro l’oscillazione tra questo altro e quello si dà visione.
L’essere fissato dalla scienza della natura è qui piuttosto forma, espressione vivente di un darsi e di un ritrarsi costante tra i quali è necessario prevedere ascolto ed interpretazione. Il risultato della conoscenza non è un concetto, ma il dispiegarsi rinnovato di una biografia, il farsi biografia di una vita che si era ridotta ad oggetto delle ‘scienze del corpo’ e a ‘cartella clinica’.
Ma nella vita di un uomo e della vita di un uomo non c’è alcun segreto da carpire. Si tratta, piuttosto, di vivere con. Solo a queste condizioni sarà possibile dare senso, costruire il significato, tracciare il disegno di una biografia. Gli uomini hanno solo vite da vivere, posti da occupare, possessi da rivendicare. Se imparassero a consistere qui e ora dentro i provvisori confini che ad ognuno è dato abitare, forse riuscirebbero a cogliere nel caduco la scintilla di eterno che pretendono dall’altro.
La linea sottile che divide due esistenze è anche quello che le unisce. Tutto dipende dall’uso che facciamo del segno che fisserà i confini e le rispettive identità. Costruire relazioni significative è il compito dell’intera esistenza di ognuno di noi. Fare esperienza poi, cioè rendere evidente la propria relazione con le cose del mondo e con le persone, è volere che file di continuità si stabiliscano; è, ancora, dare senso, l’espressione più propria dell’umano.
Esperienza e storia sono i frutti della presenza dell’uomo. Le sue istituzioni e i modi del suo consistere, la consistenza del suo radicamento e la forza della sua visione conferiscono valore ai prodotti del suo fare.
Il nucleo nascosto del suo vivere è la matrice di ogni cosa buona e cattiva. Dentro ogni individuo si nasconde un daimon, un genius, «angelo», «anima», «paradigma», «immagine», «destino», «gemello interiore», «compagno dell’esistenza», «custode», «vocazione del cuore». A seconda del significato che nelle diverse culture è stato assegnato al daimon, il destino personale è risultato più o meno determinante. Abitante di una «regione mediana» (metaxu), il daimon ci aiuta a spiegare, ad esempio, il carattere nello stesso tempo celestiale e terreno dell’amore.

Affermare che il nostro ethos è il nostro daimon è come affermare che ‘decidiamo’ la nostra natura. Ma decidere significa qui solo scegliere, introdurre elementi di dinamismo etico nel flusso della vita, è il farsi esistenza della vita. Il marchio individuale di una vita, il carattere personale di una vita è esistenza. Esistere è progettare, sollevarsi al sopra dell’orizzonte della pura quotidianità, per cogliere i sensi nascosti della realtà che ci circonda e del nostro paesaggio interiore. Realizzare la propria natura, esplicarsi e manifestarsi al mondo non significa, però, solo protendersi nell’ek-stasis mondana: si tratta di accettare quello che si è, essere se stessi, divenire se stessi. Con questo bagaglio di libertà e necessità andiamo incontro all’altro.

Le voci del mondo si lasciano percepire, tuttavia, solo da chi è disposto a custodirle nel proprio cuore, comprendendole come «il perfettamente distinto», come quell’unico ed irriducibile che costituisce la vita di ogni uomo. Mantenere intatto ogni ‘grumo’ delle esistenze con le quali entriamo in relazione equivale ad accogliere: è questa capacità di percepire e far sussistere dentro di sé i contrasti e l’inaccettabile contraddittorietà del vivere altrui la vera giustizia.
Il tratto distintivo dell’alterità è l’invisibile del daimon personale. La relazione è tra invisibilia. Il contatto che si stabilisce tra le persone coinvolge le dimensioni profonde dell’essere, piaccia o no. La migliore conoscenza di sé che l’Operatore ha da esibire è alla base dell’empatia, cioè della regolazione della distanza. Quest’ultima istituisce le coordinate spaziali e temporali dell’esperienza. L’ordine del discorso fonda e dà senso all’esperienza, amplifica le voci dell’altro, disegna volti e assegna nomi. A sua volta, parla, sommessamente. Quel brusio è il ritmo proprio dell’esistente, del nostro come dell’altro. Essere qui è bello, se si è in ascolto.

Nel corpo del saggio, infine:

VII. ETHOS ANTHROPOI DAIMON

[ La relazione con il ragazzo e la sua famiglia è definita etica. La relazione etica e non psicologica allude ad un legame originario, a un fondo comune che è dato dalla comune appartenenza di genere.
Essere parte del genere umano, richiede un’etica originaria, un quadro di regole, cioè, che trovi il suo fondamento nell’ethos, nel costume collettivo. Ma ethos, come è detto nel titolo del paragrafo, rinvia a daimon: un filologo ha proposto di tradurre quel frammento del filosofo greco Eraclito come se ethos avesse in comune con daimon una radice in quello che di proprio, di soggettivo c’è in ognuno di noi.
Il mio ethos è il mio daimon. La mia moralità trova la sua radice originaria nel mio modo di essere. Incontrerà l’ethos dell’altro nel suo daimon. Il demone è quello che ci spinge ad agire. ]

Il rapporto che si istituisce sul campo con il ragazzo e con la sua famiglia si definirà sempre più nell’ambito di una cultura della RELAZIONE ETICA. L’azione educativa è anche etica, in quanto mira ad instaurare un insieme di comportamenti finalizzati ad un valore. Ciò che si tratterà di fondare è la possibilità di un ethos comune.
L’azione di volontariato incontra il suo fondamento in un’ETICA ORIGINARIA, nel riconoscimento che Ethos anthropoi daimon, che significa: «Demone a ciascuno è il suo modo di essere». Ethos, più che il comportamento collettivo o il costume, come abitualmente si dice, designa il modo di essere. Designa il modo di essere di ciascuno inteso nella sua irripetibile unicità: il modo di essere che è suo, che gli è proprio. L’etimo stesso di ethos contiene una radice che allude al suo, al . L’ethos pertiene all’esistente umano nella sua unicità. Indica ciò che è proprio dell’unico. Per questo esso corrisponde al daimon.

*

L’emblema dell’angelo rinvia per me all’agire sociale, è figura della volontà della mente di sollevarsi al di sopra del dolore e della morte, per affermare la parola possibile, la felicità dell’opera.

La trascendenza personale è tutta qui, in questo scorcio d’opera: ho tagliato l’immagine per dire questo frammento. Non per amore del frammento e del caduco! Piuttosto, per fermare in immagine lo sforzo da compiere: da questo ‘particolare’, che è il quotidiano, si tratta sempre di nuovo di risalire alla sorgente (Die Quelle). Da lì soltanto è possibile contemplare la vita e darle senso.

Questo angelo viene da un cimitero monumentale. Il fiore che stringe tra le mani è rivolto verso il basso. Per me significa un amore perduto, malinconia d’amore, consapevolezza della perdita, miseria e abbandono. Ma angelo e fiore sono! Un transito necessario, questo. Occorre fare ripetutamente l’esperienza del dolore, per temprare l’anima. Solo attraverso l’esperienza del dolore si dà il governo di sé. Il governo dei sentimenti poggia su quella esperienza.

L’angelo il daimon e l’amore

Sarebbe interessante mettere in rapporto l’angelo col daimon, che la psicoanalisi, incorporandoli in un solo concetto, ha di volta in volta identificato con i concetti di “anima”, “animus”, “ombra”, “alter-ego”, “doppio” o “sé”.

Massimo Cacciari in L’angelo necessario distingue però nettamente l’angelo dal daimon: quest’ultimo chiama dall’idea alla forma, per questo è perentorio; l’angelo chiama invece dalla forma all’idea, per questo è leggiadro.

Da buon filosofo, Cacciari vede l’oltre solo nell’angelo, mentre dal punto di vista, diciamo, “psicospirituale” sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l’invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto.

Ma non esiste l’uno senza l’altro, fermo restando che è comunque il daimon che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio compito nel mondo).
A questo proposito, sarebbe molto stimolante e educativo per tutti noi poter rileggere la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine grazie alla doppia interlocuzione con l’angelo-daimon.
Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi “eletti”, ma l’esperienza dell’angelo-daimon è veramente molto più comune di quel che si crede, basti pensare che Eros nel mondo antico (vedi Platone nel Simposio) era considerato più un daimon (intermediario tra l’umano e il divino) che un dio come gli altri.

E dell’amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che viene poi confinato e riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell’innamoramento, anziché considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo.

Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975. Presentazione di Paolo Ferrario

Introduzione
Carlo Tullio Altan (1916-2005) è stato uno dei fondatori della antropologia culturale in Italia.
Nella sua biografia intellettuale dice di sé:
Nel ripren­dere in mano i testi che scrissi e pubblicai a partire dal 1943, e nel leggervi le riflessioni che vi erano riportate, tratte an­che da quaderni di appunti andati perduti, constatai un fat­to che mi sorprese alquanto. Si tratta di scritti che da oltre quarant’anni non avevo più ripreso in esame, e di cui avevo quasi del tutto scordato il preciso contenuto. Riletti a tanta distanza di tempo, questi scritti mi rivelarono che molte del­le idee e degli argomenti che mi avrebbero impegnato, con l’apparenza della novità, alcuni decenni dopo, avevano già assunto una prima consapevolezza di se’ in quegli originari e spontanei tentativi di metterli a fuoco. E questo mi ha fat­to tornare alla mente un passo di Ortega y Gasset, che avevo letto allora e che mi era rimasto nella memoria, in cui il filosofo spagnolo sosteneva che le idee prendono possesso di un uomo fra i venticinque e i trentanni, e non lo lasciano più per il resto della sua vita. E penso proprio che, almeno per quanto mi riguarda, questo sia in buona parte accaduto.
In Carlo Tullio – Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano 1992, p. 15

I suoi studi e riflessioni hanno avuto per oggetto
le religioni ed i simboli ( Lo spirito religioso del mondo primitivo, Il Saggiatore, Milano, 1960, Soggetto, simbolo e valore, Feltrinelli, Milano, 1992, Le grandi religioni a confronto, l’età della globalizzazione, Feltrinelli, 2002, Ethnos e Civiltà, Feltrinelli, Milano, 1995),
i fondamenti dell’approccio antropologico alla analisi sociale ( Antropologia funzionale, Bompiani, Milano, 1968; Manuale di Antropologia Culturale, Bompiani, Milano, 1971; Antropologia, storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1983), Le classi sociali e i valori giovanili (con Alberto Marradi, Valori, classi sociali e scelte politiche, Bompiani, Milano, 1976; con Roberto Cartocci, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, Mondadori-Isedi, 1979),
la cultura civica degli italiani (La nostra Italia, Feltrinelli, Milano, 1986; Populismo e trasformismo, Feltrinelli, Milano, 1989).
Negli ultimi anni si dedicò all’elaborazione di un idealtipo dell’ethnos, analizzato nelle sue cinque componenti: epos, ethos, logos, genos e topos, allo scopo di trovare una soluzione scientifica sul piano dell’antropologia, al conflitto tra i vari etnocentrismi e l’esigenza di un nuovo ordine internazionale.
Dice di lui Umberto Galimberti: “ La grandezza di Carlo Tullio-Altan non sta tanto nel suo pionierismo, quanto nel fatto che le sue ricerche antropologiche erano guidate da profonde conoscenze filosofiche che facevano riferimento allo strumentalismo deweyano, al materialismo storico, alla fenomenologia, all´esistenzialismo, al neopositivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo, perché Tullio-Altan aveva capito che l´uomo è una realtà troppo complessa per essere inquadrata e compresa in una sola idea . Se in occasione della sua morte riprendessimo tra le mani i suoi libri e riflettessimo sulle sue idee, spesso profetiche e anticipatrici, renderemmo a Carlo Tullio-Altan il migliore degli omaggi.”
Nel saggio poco conosciuto, perché diffuso soprattutto fra operatori sociali alla fine degli anni ’60, che presentiamo qui sotto Carlo Tullio – Altan elabora un magistrale modello di analisi dell’ “uomo in situazione” di grande forza analitica, sia per leggere ed interpretare i “segni dei tempi” che attraversiamo, sia per attraversarli come soggetti consapevoli dell’intreccio che contraddistingue la nostra esistenza nel tratto di vita che ci è assegnato.
Paolo Ferrario
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Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975
Il problema di una possibile collaborazione fra psichiatri e studiosi di scienze umane richiede innanzi tutto, per essere risolto, la messa a pun­to di un linguaggio comune, per cogliere certi aspetti della realtà umana che rientrano nella sfera di interesse degli uni e degli altri.
Il fat­to che questo linguaggio non esista ancora, non è casuale. E’ la posizione assai diversa che i due gruppi di studiosi assumono di fronte al feno­meno della malattia mentale che ne è la causa. Gli studiosi di scienze umane, se si esclude una certa parte degli psicologi, non guardano al singolo malato, ma al fenomeno malattia nella sua dimensione sociale e cioè statistica. Ma vi è di più, bisogna ammettere che numerosi stu­diosi di problemi sociali, subiscono, senza avvedersene, un processo di identificazione con il sistema in cui vivono e che studiano, che viene accettato da essi come paradigma, come norma cui assegnano inconsapevolmente un significato assoluto. Una volta assunta questa prospettiva, essi mostrano una sorta di « disattenzione seletti­va » per tutti quei fenomeni di disfunzione del sistema sociale in cui vivono, che in certa mi­sura contraddicono all’ipostasi inconscia che ne hanno fatta. Quando si parla di « società ma­lata », essi obbiettano che non vi è una misura scientifica per definire una distinzione univer­salmente accettabile fra una società sana e una malata. Questo è certamente vero, se questa mi­sura viene ricercata nella forma di una norma costante, di una struttura esemplare, ma allora anche lo psichiatra potrebbe rispondere allo stesso modo, e negare l’esistenza della malattia. E qualcuno di essi lo fa. Se si fa notare che il fenomeno delle malattie mentali ha assunto di­mensioni sociali e che l’influenza di certe varia­bili di classe, di cultura, di genere di vita è sta­tisticamente dimostrabile, in tal caso è il valore dell’analisi statistica ad essere revocato in dub­bio e con argomenti molto convincenti: la dif­formità delle diagnosi, la difficoltà della rac­colta dei dati, le differenze di trattamento dei casi, molti dei quali vengono così a sfuggire al controllo statistico, e via dicendo. Tutto questo, se non altro, dimostra una certa misura di disin­teresse per il fenomeno fastidioso della malattia mentale.
Gli psichiatri si trovano di fronte allo stesso fenomeno in una prospettiva radicalmente di­versa: si trovano di fronte a casi singoli, a individui malati con i quali entrano in un rap­porto diretto, più o meno autentico, in relazio­ne alla loro struttura concettuale, ma comunque sempre individuale, personale, privato. Essi so­no assorbiti dal compito di curare quel certo malato, e tendono in genere a mettere in pa­rentesi la dimensione sociale del caso partico­lare che hanno di fronte, soprattutto quando appartengono ad una rigida scuola organicistica.
Fra gruppi di studiosi così diversamente orien­tati è chiaro che un discorso interdisciplinare si instaura con molta difficoltà, per la mancanza di un comune terreno d’incontro fra la prospet­tiva collettiva scelta dai primi e la prospettiva individuale scelta dai secondi. Il formarsi e dis­solversi di gruppi di studio costituiti su queste basi o meglio su questa carenza di basi comu­ni, è perfettamente spiegabile: in quei gruppi non ci può essere processo di comunicazione, i codici sono troppo diversi. Molti psicoterapeuti tuttavia, trattando, soprat­tutto con il metodo analitico, il caso particolare, si rendono conto che i problemi del malato, quei problemi che, irresoluti, sono spesso la fon­te della malattia, si costituiscono in un contesto sociale e non solo privato, sia esso quello della famiglia, del lavoro o altro. Essi ottengono, at­traverso il discorso del malato, una rappresen­tazione della società ben diversa da quella irenica e paradigmatica che molti sociologi ci of­frono. Certo, l’immagine ottenuta attraverso il discorso del malato è viziata dalla sua stessa malattia, è deformata e non accettabile senza ampie riserve. Nonostante questo il terapeuta si chiede se non vi sia un germe di verità in questo quadro negativo, e per avere maggiori informazioni si rivolge ai suoi colleghi studiosi di scienze sociali. Ma il discorso con quest’ulti­mi è assai difficile, per i motivi che si sono detti: manca ancora una base concettuale adatta alla convergenza delle due tipiche prospettive sotto le quali il fenomeno della malattia viene guar­dato.
« Ciò che è necessario, per costituire lo schema adatto alla collaborazione interdisciplinare, sono due cose che sono estranee alle consuetudini dell’antropologia e della psichiatria… Una è la necessità per lo psichiatra di raccogliere siste­maticamente dati sull’ambiente sociale e cultu­rale e sui sistemi di motivazioni che si disegna­no sempre sullo sfondo dei casi reali. La se­conda è la necessità per l’antropologia di sen­sibilizzarsi non solamente in relazione allo sfon­do culturale dal quale i singoli casi emergono, ma anche alle tipiche modalità del funziona­mento mentale negli esseri umani. Il terreno comune, che possiamo semplicemente chiamare psicodinamica, richiede un’adeguata analisi me­dico-psichiatrica di persone concrete e di casi concreti, stagliati sullo sfondo di una prospet­tiva di comprensione di ordine culturale ». Per realizzare questo proposito, così bene enun­ciato da Opler, l’antropologia offre un modello, o meglio una serie coordinata di modelli con­cettuali operativi.
Il primo di questi modelli è quello ricordato dallo stesso Opler: la cultu­ra. A questo proposito è subito necessario pre­cisare il senso tecnico in cui questo termine vie­ne usato in antropologia, per sgomberare a prio­ri il terreno dalle possibili confusioni. In senso antropologico cultura non significa l’« esser col­to », o quel gruppo di persone che formano l’intellighentzia di un certo paese, i circoli che as­sumono la « cultura » come loro specializzazione professionale, le élites colte di una certa società. Col termine di cultura si intende qualcosa di as­sai più generale. « Mentre il modo di vivere di un popolo può raggiungere una sua coerenza interna e sviluppare in se stesso inconsci ca­noni di scelta, la cultura è sempre uno strumen­to per adattare l’uomo alla natura che gli da modo di metterla sotto controllo, risolvere i pro­blemi dell’attività sociale, dell’economia, della politica, della religione e della filosofia, e di regolare il comportamento » (Opler). In sostanza la cultura è, in senso antropologico, quel com­plesso di nozioni codificate in forma collettiva e sociale che permettono ad un certo gruppo umano di affrontare e risolvere quei problemi di vita che la società stessa, con questi modelli di comportamento ha previsto. Essa quindi com­prende nozioni tecniche elementari, modalità di istituire rapporti interpersonali di ogni ge­nere, oltre al complesso di conoscenze scientifi­che e al patrimonio artistico, filosofico e reli­gioso, cui si riserva in genere la definizione di cultura in senso stretto. Una volta che si assegni alla cultura questa spe­cifica funzione strumentale, che consiste nell’aiutare l’uomo a vivere da uomo, è chiaro che l’interpretazione freudiana ne è una deformazione. La cultura non è fonte di frustrazione, o non dovrebbe esserlo, ma è un sistema per evitare la frustrazione. Se non assolve al suo scopo, in tal caso è necessario ricercarne le cause concrete.
Il secondo modello offerto dall’antropologia cul­turale al discorso interdisciplinare è legato al primo. Esso è il sistema di personalità (o per­sonalità di base, come spesso viene chiamato). Questo si forma nell’uomo attraverso il proces­so dell’inculturazione e cioè dell’acquisizione da parte del singolo di quella porzione della cultu­ra che gli sarà necessaria per affrontare quel ge­nere di vita, che l’appartenenza ad un certo gruppo umano gli offre. Il risultato è quell’ap­parato che la tradizione ha variamente chiama­to coi termini di anima, mente, intelletto, ra­gione o cervello. Esso si costituisce partendo da una base ben istintuale ereditaria assai ridotta e si plasma in relazione alle esperienze gradatamente realizzate dal fanciullo nei rapporti con la madre, con la famiglia, con la scuola e poi, per l’uomo maturo, con la società. Attraverso que­sto processo, le informazioni necessarie alla vita del singolo vengono recepite e registrate in un complesso sistema di cellule che forma il tessu­to corticale del cervello, che è l’organo biolo­gico cui spetta la specifica funzione della me­morizzazione delle informazioni e dell’esecuzio­ne di quelle operazioni interpretative che la situazione di vita del singolo rende via via ne­cessarie. Quest’apparato, se funzionale, riesce a mettere in sintonia il singolo con la sua situa­zione di vita. Esso ha quindi una chiara natu­ra bio-psichica, e cioè una dimensione organica e una socio-culturale. Per intendere bene il modo in cui funziona il sistema di personalità così concepito, è neces­sario tenere sempre presente, come quadro di riferimento, la situazione in cui opera, intesa come un « campo » (Lewin) nel quale molteplici forze interagenti di ordine psichico, sociale, cul­turale e naturale sono anch’esse operanti. Il si­stema di personalità funzionale realizza l’omeostasi psicologica. « Le teorie dell’omeostasi e del­lo squilibrio possono valere pienamente solo se ci si rende conto che l’unico tipo di omeostasi, o della mancanza di essa, che può esistere, è in­cluso nell’ambito dell’intera struttura della per­sonalità, che viene costituita in base a certi con­testi esistenziali ed opera in essi » (Opler).
A questo punto l’antropologia culturale può offrire il suo terzo modello concettuale interdi­sciplinare. Il sistema della società. La cultura, come codice comune ai membri di un gruppo, rende possibile fra di loro la comunicazione, non solo, ma offre loro una comune prospettiva attraverso la quale guardare ai concreti proble­mi di vita, che si fanno così problemi comuni, da risolvere in comune, con comportamenti ade­guati e di conseguenza istituzionalizzati e codi­ficati a questo fine, per economia di sforzi ed efficienza di strutture. Il complesso tessuto socia­le si costituisce su questi presupposti funzionali e forma uno schema nel quale gli individui as­sumono una posizione specifica (uno status) in relazione al compito che essi vi assolvono (il ruolo). Questo tessuto si articola anche in strut­ture particolari, destinate alla formazione dei nuovi modelli culturali e alla loro trasmissione ai singoli. Essa è la matrice del sistema di cultu­ra e di quello di personalità.
Noi disponiamo quindi ora di tre modelli, il primo dei quali, la cultura, ha una dimensione collettiva e sociale, come patrimonio del sape­re di un certo gruppo, e una dimensione psi­cologica e individuale, in quanto si interioriz­za a formare il sistema di personalità di ogni singolo componente di un certo gruppo sociale. Noi abbiamo così modo di far convergere, gra­zie a questo modello concettuale, la prospettiva sociale del sociologo con quella individuale dello psicologo e dello psichiatra. A questo punto però il discorso non è finito. Infatti tutti e tre questi modelli, fra di loro coordinati, sono anche essi da situare in un «campo», onde verificarne la funzionalità, e cioè la rispondenza alle esigenze che essi debbono soddisfare. Questo campo, come quello cui si è accennato a proposito del sistema di persona­lità, è un campo dinamico di forze, o meglio una situazione in cui insorgono problemi, che il sistema di cultura deve prevedere, orientan­do il comportamento dei singoli in modo effi­cace, così da realizzare l’omeostasi degli indivi­dui, e l’armonia sociale che si manifesta nella collaborazione fattiva. Questo accade però solo se la cultura dispone di modelli adatti ad orien­tare il comportamento dei singoli in modo ef­ficace, con le conseguenze che si sono dette. In caso contrario le azioni, guidate da modelli ana­cronistici di comportamento, falliscono, l’equili­brio dei singoli, frustrati dalle esperienze di scacco, è compromesso e la collaborazione so­ciale è sostituita dal marasma e dal caos. In questo caso noi diciamo che il complesso arti­colato dei tre sistemi è disfunzionale in rela­zione alla situazione in cui opera.
Vi sono infatti due ordini di problemi, che ri­guardano i tre sistemi ricordati, quello della loro coerenza interna e quello della loro rispon­denza ai problemi di situazione. I due gruppi di problemi non coincidono in tutto e per tut­to. Se è vero che ogni sistema funzionale dev’es­sere in se stesso coerente così da poter funzio­nare, non ogni sistema in se stesso coerente e quindi funzionale è per ciò stesso funzionale, cioè rispondente alle esigenze del campo situa­zionale. Un esempio chiarissimo è offerto dal sistema di personalità malata, che assume la struttura difensiva del delirio sistematizzato: il sistema di personalità è in tal caso coerentissi­mo in se stesso, ma per nulla rispondente alle esigenze concrete della situazione di vita del malato; le sue operazioni mentali sono compiu­te nel rispetto di una logica ferrea, ma che nul­la ha a che fare con la concretezza dei proble­mi che tale logica dovrebbe affrontare. Gli esem­pi si possono moltiplicare a volontà in ogni campo della vita associata e a tutti i livelli. Questo conferma la necessità di ben distinguere i due gruppi di problemi ricordati, come pro­blemi di funzionamento dei sistemi e come pro­blemi di funzionalità degli stessi, interrelati, ma distinti.
La perdita di funzionalità dei sistemi dipende da due fattori, anche quando il funzionamento degli stessi è intatto. Il primo fattore è dato dalla dinamica del campo situazionale, nel qua­le operano le forze che si sono dette e in base alle quali insorgono sempre nuovi problemi non previsti dalla cultura codificata e tradizionale. Il secondo fattore è dato dalla rigidità dei si­stemi e cioè dalla loro scarsa plasticità, o inef­ficienza in essi delle strutture di autotrasfor­mazione, che ogni sistema deve avere per non perdere contatto con la concretezza della situa­zione in movimento costante. Mettiamo ora a fuoco il sistema di personalità che c’interessa per il nostro discorso interdisciplinare. Ne abbiamo descritto la funzione e il funzionamento. Quando si verifica in esso la condizione di perdita di funzionalità? Questa può andare perduta in relazione ai due gruppi di problemi, di funzionalità e di funzionamen­to, prima distinti. Esaminiamo il primo aspet­to della questione, e cioè il caso in cui la cultu­ra non offra modelli adatti alla situazione mu­tata. In tal caso l’uomo reagisce in due modi opposti: inventa modelli nuovi, in base ai qua­li i nuovi problemi sono individuati e avviati alla soluzione, si decondiziona dai modelli ana­cronistici e si ricondiziona con modelli adegua­ti, oppure rinuncia o si mostra incapace a far­lo. Nel primo caso egli realizza una forma di adattamento attivo, che trasforma lui stesso, la cultura, la società e l’intera situazione in cui vi­ve, nella quale la sua azione innovatrice agisce come potente elemento dinamico. Nel secondo caso egli subisce l’azione frustrante della realtà e si difende sul piano inconscio con la nevrosi. Nel primo caso la funzionalità del sistema di personalità viene costantemente restaurata, nel secondo viene perduta.
Ma la perdita di funzionalità del sistema di personalità può avere origini diverse, e dipen­dere cioè da problemi più ristretti di funziona­mento del sistema stesso di personalità. Questo sistema infatti è una « costruzione » che com­prende una fase di montaggio e necessita di materiale organico da organizzare in un certo modo. La fase di montaggio è realizzata nel de­licatissimo periodo dell’infanzia, e successivo, e può essere caratterizzata da eventi che compro­mettono la formazione del sistema di persona­lità, indipendentemente dal fatto che la cultu­ra disponga o meno di modelli collettivi di comportamento adatti alla situazione sociale. Il risultato, come tutti gli analisti sanno, è un sistema di personalità che funziona male, per­ché i modelli interiorizzati sono stati deformati nella fase di montaggio, e che va risistemato con adatte terapie. Ma il difetto può dipendere anche dal materiale biologico che deve formare la base portante organica del sistema bio-psi­chico della personalità. Questo materiale può recare in sé tare genetiche o venire, in conse­guenza di traumi fisici, processi di intossica­zione o altro, leso in modo irreversibile. Nella tendenza all’autoconservazione, che caratterizza ogni sistema sia esso organico o bio-psichico, o sociale ed economico, il sistema di personalità in crisi per questi motivi si difende con pro­cessi tipici, che sono appunto l’oggetto specifi­co di studio della psichiatria. Sono i sintomi delle diverse forme morbose. Come si vede gli squilibri dovuti al primo grup­po di problemi, quelli che nascono dalla man­canza di modelli sociali di comportamento ade­guato, sono difficilmente curabili dallo psichia­tra. In tali circostanze, quando egli si trova di fronte a fenomeni di vasta disfunzione psichi­ca dovuta a motivi di fondo, socio-culturali, egli deve necessariamente ridursi a fare quello che fa un medico militare, quando accoglie i feriti che gli vengono spediti dalle trincee, e li rimet­te in sesto alla meglio per rimandarli a farsi ac­coppare. E’ triste questo fatto, ma è un fatto. Se vuole intervenire attivamente, infatti, lo psi­chiatra non può più limitarsi a fare lo psichia­tra, ma denunciando la situazione a chiare let­tere, assume la veste del cittadino responsabile, del riformatore sociale e del politico. In questa veste egli può essere un preziosissimo collabora­tore di coloro a cui, nel tessuto sociale, spetta il ruolo specifico di realizzare quei riadattamen­ti culturali e sociali che la situazione dinamica comporta: gli studiosi di scienze umane, per la parte della ricerca, e i politici, per la realizza­zione pratica dei risultati della ricerca stessa. Per quanto riguarda gli squilibri dovuti al se­condo gruppo di problemi, squilibri nel proces­so di inculturazione e di origine organica, ben­ché mai si debba ignorare che si verificano in uomini che hanno necessariamente una dimen­sione socio-culturale, essi sono tuttavia l’ogget­to specifico delle cure psichiatriche in senso stretto. E se si tiene conto del fatto della na­tura bio-psichica del sistema di personalità, è possibile trovare anche un punto d’incontro fra il discorso degli analisti e degli psichiatri di origine organicistica che in realtà non si esclu­dono affatto fra di loro.
Per riassumere questi concetti, che si propon­gono di offrire modelli concettuali per un di­scorso interdisciplinare, mi sia permesso fare ricorso ad uno schema grafico che, con tutte le ovvie limitazioni di questi schemi, può es­sere un utile strumento per visualizzare e me­morizzare il discorso che si è fatto. (Vedi sche­ma 1).
In questo schema è rappresentato l’insieme dei tre sistemi della cultura, personalità e società, innestati nel terreno bio-fisico che ne è la base portante. Il sistema di personalità incorpora una certa porzione di sapere collettivo (cultura) che lo fornisce dei modelli operativi adatti ad inserirsi positivamente nella vita sociale. In condizione di omeostasi, quando i tre sistemi sono coordinati, integrati e funzionali, l’azione in cui si manifesta il comportamento dell’indivi­duo può essere rappresentata dal vettore A + : azione compiuta con successo e attraverso la quale l’individuo assolve al suo ruolo sociale. In questo secondo schema rappresentiamo invece la condizione dei sistemi in contrasto con la situazione dinamica, e cioè integrati, coordinati, ma non funzionali. (Vedi schema 2).
In questo caso l’azione dell’individuo, guidata da modelli anacronistici, va incontro alla con­dizione di scacco X e si riflette negativamente sul sistema di personalità con il vettore A – .
A questo punto la reazione dell’individuo può as­sumere una caratteristica opposta. L’individuo può reagire creando un nuovo modello, proces­so raffigurato dal vettore che muove da 0, si volge verso l’alto e ritorna nella sfera della cul­tura. Questo nuovo modello è in condizione di orientare un nuovo tipo d’azione, guidata da un nuovo tipo di esperienza, che non solo s’in­serisce nel contesto sociale, ma lo trasforma, por­tando più innanzi i confini del sistema (vettore A +).
L’altro genere di reazione, caratterizzata dal rifiuto della sfida posta dalla situazione, si manifesta in un comportamento regredito, di­fensivo a livello inconscio (vettore B). E’ la rea­zione nevrotica, in conseguenza di fattori socio­culturali e di situazione. Lo stesso schema può essere usato per la rappresentazione grafica dei fenomeni di disfunzione del sistema di personalità non dovuti a cause socio-culturali e collet­tive, e cioè alla carenza di modelli adatti alla vita in trasformazione, ma a un difetto di fun­zionamento del sistema di personalità dovuto al processo educativo, o a lesioni o insufficienze organiche. In tal caso non si può avere il vet­tore ascendente da O, che indica l’operazione di invenzione di nuovi modelli, ma solo il vet­tore discendente B, che consegue alla serie di frustrazioni rappresentate dal vettore A -, e che si manifesta nella fenomenologia morbosa. Que­sta fenomenologia ha la stessa apparenza di quella derivante da origini socio-culturali col­lettive. Ed infatti essa è una manifestazione di difesa contro un’unica condizione, che è quella dell’ansietà, che si crea sia in un caso come nel­l’altro. Ma mentre le prime forme non possono trovare soluzione se non attraverso operazioni di rinnovamento culturale (vettore A + ascen­dente), le seconde possono essere curate indivi­dualmente con diverse possibilità di successo. A questo proposito, sia detto per inciso, l’antropologia culturale può fornire talune conoscen­ze circa la funzione di pratiche e rituali propri di gruppi arcaici, che non sono senza valore nell’interpretare certi comportamenti tipici dei ma­lati.
I concetti espressi in forma assai sintetica e sche­matica nelle pagine che precedono ci permet­tono di impostare un discorso più concreto sulla distinzione fra individuo normale e ammalato di mente. L’uomo « sano » di mente è colui il quale si mo­stra capace di adattamento attivo alla situazio­ne in cui vive. Egli è cioè dotato di modelli ade­guati ai suoi problemi, attraverso i quali li rico­nosce, o è in grado di reagire attivamente di fronte all’ignoto creandone di nuovi attraverso i quali dargli un nome, e lo viene così a co­noscere. La sola frustrazione di cui soffre è quel­la normale a tutti, che deriva da due necessarie condizioni della vita umana: la prima è data dal carattere generale e medio dei modelli cul­turali, che non si adattano mai del tutto, come un vestito su misura, a chi li adotta, perché co­stui ha una sua base genetica e una sua storia particolare che lo fa essere un unicum, e l’al­tra è data dalla dinamica della situazione, che crea le sfasature di cui si è detto, fra modelli e problemi, frustrazione questa dalla quale ha vi­ta il pensiero nuovo. Se questa dose normale di frustrazione è una malattia, ebbene allora essa è una malattia veramente connessa con l’esser uomo. Ma è una malattia di cui si guarisce ad ogni istante. E il risultato di questa guarigione è ciò che chiamiamo l’« io », se consideriamo che esso non in altro consiste se non nel felice ri­sultato di un’operazione attraverso la quale con l’ausilio dei modelli cognitivi e operativi di cui è costituito, l’uomo pone sotto controllo la situazione in cui vive, se ne costituisce sog­getto, e ne fa l’oggetto della sua conoscenza e della sua azione efficace. Un sistema di perso­nalità di questo tipo apporta caratteristiche fe­lici all’uomo che ne è il portatore: questi ap­pare sereno, fiducioso, dotato di senso critico in modo costruttivo e di gusto per la vita, è di­sponibile, aperto e facile nello stabilire rappor­ti interpersonali fecondi, accessibile alla critica altrui, dotato di un profondo senso di solida­rietà umana.
II sistema di personalità che rende un uomo incapace di adattamento attivo è ciò che finisce col fare di quell’uomo un malato. In tal caso, e per i più diversi motivi, il sistema si mostra disfunzionale, e finisce, per autodifendersi, col farsi fine a se stesso ed ergersi come uno scher­mo contro la realtà, vietando all’io di manife­starsi nel modo che si è detto sopra. Invece di legare l’uomo al mondo, lo isola, usando tutte le possibili tecniche che sono i sintomi della malattia. L’uomo, anche quando non giunge al vero e proprio stadio morboso, si mo­stra insicuro, indisponibile, egocentrico, auto­ritario, intollerante e incapace di stabilire rap­porti umani fecondi. La vera e propria malat­tia appare con il manifestarsi aperto e chiaro dei sintomi dati dalle difese inconsce.
Si può fare lo stesso discorso per la società? Io non lo ritengo impossibile, ma inutile, perché sarebbe un discorso troppo generale e vago. Si può parlare di società « facili » o « difficili » o « dure » come dicono gli Arsenian in un loro la­voro, società che offrono all’uomo condizioni più o meno favorevoli per un adattamento attivo.
Un’analisi dei motivi di queste diverse condi­zioni è certamente utilissima, purché sia fatta su basi empiriche e su dati concreti, che riveli­no i motivi patogenici che esse contengono. Questo è proprio il compito che spetta agli stu­diosi di scienze sociali e agli antropologi culturali in particolare. Le conclusioni delle loro ricerche potranno anche venire sintetizzate sot­to generiche definizioni come quelle ricordate, ma ciò non porta avanti la ricerca. In genere le società che producono un maggior numero di disadattati sono quelle ad elevato ritmo di tra­sformazione, e ciò accade per lo sforzo* che esse impongono ai singoli per realizzare un adatta­mento attivo alla situazione dinamica. Ma non per questo tali società sono da dire malate, ben­sì rischiose, impegnative, o « dure », per ricor­dare il termine cui si è accennato, ma nelle qua­li vale tuttavia la pena di vivere.
Ha invece più senso forse l’uso del termine di società « malata » per indicare alcune società ri­gide, nelle quali i canali di autotrasformazione si sono bloccati, per la resistenza del sistema ai mutamenti imposti dalla situazione, che si pon­gono come fini a se stesse e sviluppano sul piano collettivo singolari forme di comportamento re­gredito, che riprendono temi propri di società molto arcaiche. I rituali nazisti, ad esempio, e il connesso culto del sangue tedesco, le opera­zioni di aggressività distruttiva proiettata su de­terminati gruppi etnici, sono fenomeni che danno da pensare e sembrano quasi giustificare l’uso del termine malattia. Per quanto riguarda il Terzo Reich, si è trattato di una forma di to­tale disfunzionalità (incoerenza con la situa­zione storica) di un intero sistema socio-cultu­rale, che non per questo ha cessato di essere funzionante, ma lo era in base ad una logica di tipo delirante collettivamente accettata come valida. Questi casi meriterebbero una maggiore attenzione da un punto di vista della ricerca di psicopatologia sociale.
Queste note hanno un taglio particolare, e met­tono in parentesi una gran quantità di elementi di specifico interesse psicologico e psichiatrico. Il quadro delineato del sistema di personalità non accenna ai fattori dell’istinto, tempera­mento, affettività e via dicendo, né alla dina­mica interna di questi elementi. Ma ciò è stato fatto di proposito per offrire ai colleghi stu­diosi uno schema di discussione estremamente semplificato, onde servire come base per possi­bili convergenze, dalle quali il quadro dei pro­blemi possa risultare più chiaro e completo at­traverso un organico lavoro di gruppo. Si è voluto cioè proporre solo un minimo denomi­natore comune concettuale per un discorso interdisciplinare ancora tutto da fare.

Intervento di Giovanni: Emanuele Severino e Massimo Cacciari

Caro Paolo,
se capisco bene, posso fare qui l’indicazione richiesta e penserai tu a metterla sull’antologia.
Scrivo qualcosa su Severino. Al più presto scriverò anche qualcosa su Cacciari.
Gli autori cui in questi anni sento di dovere molto sono più direttamente E.Severino, soprattutto per Essenza del nichilismo, Adelphi 1995 (prima ed. 1970) e Destino della necessità, Adelphi 1980, e M. Cacciari, per Dell’Inizio, Adelphi 1990 e Della Cosa Ultima, Adelphi 2003.
Due autori che, proprio per il fatto che rappresentano, almeno all’apparenza, due vie opposte, è vantaggioso leggere insieme.
L’uno, Severino, pone il pensiero dell’essere immutabile ed eterno del Tutto e, in esso, di tutto, di ogni cosa o momento e smaschera la follia del pensiero del non essere, del pensiero che quel che è stato o è o verrà non sia, che le cose vengano dal nulla e tornino al nulla: il pensiero del nulla è la follia in cui si dibatte l’Occidente sin dall’origine. La necessità è la verità eterna di ogni cosa ed è questa verità che va contemplata, poiché nulla viene e va, tutto è immutabile e non vi è divenire alcuno. Quel che viene e passa è, piuttosto, l’apparire di quello che a mano a mano appare, l’essere immutable, appunto, che, infinito, attraversa il cono finito dell’apparire… Il fascino di questo pensiero è veramente insuperabile. La durezza inflessibile del procedere razionale di Severino apre scenari di una lontananza abissale.. eppure quella lontananza è questo luogo in cui noi siamo…non vi è alcun oltre, la verità è qui… (tuttavia, si vorrebbe obiettare, è possibile non vederla…).

AGGIORNAMENTI SIGNIFICATIVI

Lunedì 2 marzo: alla fine del sesto capoverso ho aggiunto
A questo riguardo, Cacciari, ad esempio, parla di arrischio della relazione.

Martedì 3 marzo: all’interno del capoverso che segue ho aggiunto due link che rinviano a MASSIMO CACCIARI sull’angelo che conduce poi a WALLACE STEVENS, L’angelo necessario, utilizzato da Cacciari per dare il titolo alla sua opera omonima.
Vorrei ‘chiarire’ quanto precede alla luce dell’esperienza, illuminando i più importanti paradossi dell’esperienza – il mistero della bellezza, l’amore come forza che divide, il rapporto originario tra libertà e nulla, tra silenzio e parola, tra visibile e invisibile… – con l’aiuto della teoria.


Mercoledì 4 marzo: in fondo al sesto paragrafo ho inserito il link a MASSIMO CACCIARI, Sul concetto di relazione: ritrovare la prossimità nella distanza.

Il carattere di questo perdersi può essere ‘tradotto’ così: come l’eroe deve deporre le insegne regali per andare incontro al proprio destino, così noi dobbiamo affrontare la nuda vita per scegliere ogni volta di nuovo da che parte stare. A questo riguardo, Cacciari, ad esempio, parla di arrischio della relazione.

Martedì 10 marzo: all’interno dell’ottavo paragrafo ho inserito in link a SALVATORE NATOLI, Costituirsi come soggetti morali.
Comunque, solo imparando tutti a consistere come soggetti morali – non potendo forse più farci partigiani di un’idea per la quale valga la pena di morire -, ritroveremo la forza indispensabile per dare fiato alla timida ala della speranza.

e all’interno dell’undicesimo paragrafo ho inserito il link all’idea di sradicamento dell’ethos.
Vorrei ‘chiarire’ quanto precede alla luce dell’esperienza, illuminando i più importanti paradossi dell’esperienza – lo sradicamento dell’ethos, il mistero della bellezza, l’amore come forza che divide, il rapporto originario tra libertà e nulla, tra silenzio e parola, tra visibile e invisibile… – con l’aiuto della teoria.

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Iconostasi


Un’idea dell’accesso all’invisibile è contenuta nel saggio di PAVEL FLORENSKIJ,
Le porte regali. Saggio sull’icona, che risale al 1922. La prima edizione italiana è del 1977. L’editore è Adelphi. Florenskij ci introduce a una interpretazione delle icone che rimarrebbero del tutto incomprensibile se venissero avvicinate con gli strumenti consueti della critica d’arte. L’icona presuppone una metafisica dell’immagine e della luce. Accompagnati da Florenskij, possiamo varcare le porte regali dell’iconostasi. Esse sono l’adito centrale dell’iconostasi, “confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile”. L’iconostasi consente l’accesso al mundus imaginalis.

WALLACE STEVENS, L’angelo necessario

L’ANGELO NECESSARIO

Io sono l’Angelo della realtà,
intravisto un istante sulla soglia.
Non ho ala di cenere, né di oro stinto,
né tepore d’aureola mi riscalda.
Non mi seguono stelle in corteo,
in me racchiudo l’essere e il conoscere.
Sono uno come voi, e ciò che sono e so
per me come per voi è la stessa cosa.
Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra,
poiché chi vede me vede di nuovo
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d’acqua; come un significato
che si cerchi per ripetizioni, approssimando.
O forse io sono soltanto una figura a metà,
intravista un istante, un’invenzione della mente,
un’apparizione tanto lieve all’apparenza
che basta ch’io volga le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?

WALLACE STEVENS

Filosofia e tragedia – Letture

Letture:

Sergio Givone, Oltre il cristianesimo secolarizzato, pp.109-121 di Filosofia ’86 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza 1987 – sul rapporto tra cristianesimo e tragedia.

Sergio Givone, Il pensiero tragico (1996)

Sergio Givone, Tragedia e modernità (1999)

Pier Aldo Rovatti, L’esistenza tragica (2000)

Dario Del Corno, La tragedia greca (2000)

Dario Del Corno, Mito e teatro nel rito tragico (1999)

Carlo Galli, Legge e coscienza morale (1999)

Carlo Galli, Il principio di responsabilità (2000)

Fausto Petrella, Capaci di intendere e di volere (2000)

Sergio Givone, Il libero arbitrio (2000)

Sergio Givone, Le forme del male (1998)

Sergio Givone, Che cos’è il male? (1998)

 

Hannah Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura (a questo indirizzo trovate alcune  pagine del saggio, pubblicato da MicroMega nel 1991, in formato pdf)

“La responsabilità personale sotto la dittatura” di Hannah Arendt indica chiaramente il più grande “no” che occorre pronunciare. Le nazioni non ne sono capaci. Per questo, abbiamo avuto le tragedie dei totalitarismi di destra e di sinistra. E’ tragedia il consenso dato senza che nemmeno venisse richiesto. Un tempo credevo che solo i popoli sono morali, gli individui mai. Ora penso che c’è salvezza solo se i singoli dicono tanti “no”.

SALVATORE NATOLI, Costituirsi come soggetti morali

«… La condotta di un individuo può essere giudicata morale a seconda della conformità o meno alle regole o ai valori vigenti e proposti. Eppure non basta. L’individuo diviene davvero soggetto morale se si rende responsabile della sua condotta, sia essa conforme alle regole e alle abitudini o difforme da esse. Nessun individuo può divenire da solo soggetto morale, ma non vi è morale se non vi è assunzione di responsabilità. Allo stesso modo non vi è né vi potrebbe mai essere credenza se l’individuo non divenisse interprete – più o meno originale – dell’universo simbolico a cui appartiene ed entro cui opera.
Ha ragione Foucault: “Se è vero che ogni azione morale implica un rapporto con il reale in cui si compie e un rapporto con il codice cui si riferisce, è vero altresì che essa implica un rapporto con se stessi, e questo rapporto non è semplicemente ‘coscienza di sé’, bensì costituzione di sé come soggetto morale”.
Bisogna dunque costituirsi come “soggetti morali”. Questo è più che mai urgente nel mondo contemporaneo. La complessificazione della società ha disarticolato i vecchi riferimenti: in essa si vengono sempre di più differenziando le prestazioni e i codici di condotta. Viviamo in una crescente asimmetria sociale che non è da concepire solo in termini di dispersione, ma anche di arricchimento. La dinamica della complessità ha dilatato gli spazi di libertà, ha implementato le nostre possibilità di scegliere e soprattutto di sceglierci, di modellare noi stessi con più ampia discrezione di un tempo. Ma per trarre giovamento dai mutamenti del presente bisogna esserne all’altezza. Gli uomini vivono sempre sotto il segno dell’ambiguità e la condizione contemporanea, al pari delle altre nella storia, non ne è priva. Ma vi sono difficoltà che sono specificamente nostre. Siamo esposti a rischi fino a ora mai sperimentati.
Ne segnalo due: innanzitutto, corriamo spesso il pericolo d’essere travolti da quella stessa mobilità da cui dovremmo trarre vantaggi; in secondo luogo, per evitare la perdita d’identità indotta dalla celerità stessa delle mutazioni, ripariamo difensivamente nella serie. Abbiamo paura e perciò, lungi dal valorizzare le occasioni di libertà, accettiamo il regime: diveniamo passivi ed eterodiretti. Obbedienti involontari, senza neppure i vantaggi di questa celebre, antica virtù.
Per trovare stabilità in questa deriva dobbiamo costituirci più che mai come soggetti morali. A tale scopo è necessario ripiegare su di sé: bisogna raccogliere e governare la propria potenza. Divenire “soggetto morale” vuoi dire costituirsi come punto di resistenza a fronte della mobilità e delle perturbazioni dell’ambiente; ergersi a momento stabile di selezione/decisione. Se occorre, farsi luogo di neutralizzazione e di indifferenza: di assenza. Per far questo ci vuole abilità. In effetti questo è il significato originario della parola arete: virtù. Virtuoso è in primo luogo colui che è dotato di agilità, che sa trarsi fuori dalle difficoltà. Divenire legge a se stessi significa volgere la propria potenza in forma, il proprio desiderio in carattere. Questa e non altra era la ragione per cui gli antichi dicevano che ciò che è buono è bello e ciò che è bello è buono.
Ma il governo di sé non è operazione solipsistica. L’idea di virtù è sin dall’inizio legata al rapporto con gli altri, al riconoscimento. Questo meglio lo si comprende se si considera il significato del verbo greco cresco. Il termine deriva dalla medesima radice ar – da cui, appunto, areté – e vuoi dire piaccio, compiaccio, riesco gradito; significa perfino faccio ammenda. Virtuoso dunque è colui che se la sa cavare, ma è anche colui che sa compiacere, che sa chiedere scusa. Chi è legge a se stesso non invade lo spazio degli altri. In effetti, gli individui riescono a essere tanto più se stessi, quanto più si pongono in relazione agli altri: altri uomini, ma anche culture altre, tradizioni etiche diverse. È nell’incontro/scontro con le differenze che si guadagna l’identità. Non vi può essere consapevolezza di sé al di fuori dell’esperienza della differenza. …» (SALVATORE NATOLI, Dizionario dei vizi e delle virtù, FELTRINELLI 1996, pp.8-9)

L’idea di una antologia del tempo che resta

“La conversazione è un edificio al quale si lavora in comune.
Gli interlocutori devono sistemare le loro frasi
pensando all’effetto d’insieme,
come fanno i muratori con le pietre”

André Maurois (1885-1967)

L’idea di una antologia del tempo che resta nasce da un dialogo fra due persone:

Uno dice: “ah, quante cose mi piacerebbe leggere … ma il tempo è così poco …”

Altro risponde: “Ci vorrebbe una antologia, come quella degli adolescenti.
Se a quella età abbiamo imparato la letteratura e la filosofia, forse ora, da adulti, possiamo imparare ancora comunicandoci le pagine che ci sembrano importanti per il cammino …

Da qui l’idea della antologia e di questo blog a più teste, cuori e mani.
Uno spazio senza coordinatori: una pagina bianca a disposizione di chi sente questo desiderio.

Uno presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.

Altro legge e, a sua volta, presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.

Uno legge e …


Paolo Conte in “Bella di giorno” (dal Cd Psiche) e il PRINCIPIO DELLA INTERSOGGETTIVITA’ nel pensiero psicanalitico di SILVIA MONTEFOSCHI

 

1. Il testo letto nel video è questo:

“Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la feli­ce condizione dell’esistere con l’altro senza bisogni.

Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l’altro ci sia, in quanto è grazie all’esserci dell’altro che io mi mani­festo come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l’esistere dell’altro mi rivela a me stessa.

In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell’altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell’esistere dell’uomo come soggetto?

Devo procedere nell’analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.

Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comporta­menti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità.”

in Silvia MontefoschiL’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75.

2. Lo scritto del 2004, citato nell’audio-video è qui:

Intervista a Montefoschi sul concetto di “intersoggettività” (2004) di Tullio Tommasi

3. La canzone è :

Paolo Conte, Bella di giorno, in Psiche, 2008

Io so chi tu sei

so neanche chi sei

ma so che tu sei

si so che tu sei tanto amata

amata e desiderata

l’istinto ti sa

trattare ti sa

guidare ti sa

con poche parole precise

poche parole decise

e uno sguardo d’intesa

un’elegantissima scusa

come una bella di giorno

tu sei il mondo che hai intorno

sei bella senza ritegno

nell’acqua fresca di un bagno

io so che tu sei

so neanche chi sei

ma so che tu sei

si so che tu sei tanto amata

amata e desiderata

e sola

da: Paolo Conte in Bella di giorno (da Psiche) e l’intersoggettività in Silvia Montefoschi | Segni di Paolo del 1948.


lo stesso video è anche qui:

IL VIAGGIO DI ULISSE, relatori: Giovanni Reale, Tiziano Scarpa, da Fondazione Corriere della Sera. Sulla strada del viaggio, 7 ottobre 2008 – 28 ottobre 2008

Fondazione Corriere della Sera.
Sulla strada del viaggio, 7 ottobre 2008 – 28 ottobre 2008
7 ottobre 2008
“Il viaggio di Ulisse ovvero della conoscenza”
Relatori: Giovanni Reale, Tiziano Scarpa.
Coordina: Pierluigi Panza.

Pierre Hadot, Ricordati di vivere. Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali, Raffaello Cortina, 2008

In “Ricordati di vivere”, Pierre Hadot esplora i legami tra il pensiero di Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali dell’antichità, con un focus particolare sull’importanza di vivere nel momento presente

Hadot dimostra come Goethe si inserisca in una corrente filosofica che valorizza l’esistenza terrena, in contrasto con la ricerca della felicità in un “aldilà”

Punti chiave del libro:

  • Esercizi spirituali: Hadot definisce la filosofia antica come un insieme di esercizi spirituali mirati alla trasformazione personale piuttosto che alla mera informazione Questi esercizi aiutano a staccarsi dall’ego e ad aprirsi a una visione più ampia
  • Concentrazione sul presente: Il libro sottolinea l’importanza di concentrarsi sull’attimo presente, traendo ispirazione dagli epicurei e dagli stoici1. Hadot evidenzia come Goethe considerasse il presente come unica fonte di felicità, rifiutando la nostalgia per il passato e l’ansia per il futuro
  • Goethe e la tradizione greca: Hadot analizza come Goethe si inserisca nella tradizione della filosofia greca, specialmente per quanto riguarda la necessità di vivere nel presente
  • Consapevolezza della morte: Il libro esplora il ruolo della consapevolezza della finitezza della vita nel pensiero epicureo e stoico La pratica di immaginare ogni giorno come l’ultimo permette di apprezzare il valore infinito del piacere di esistere nel momento
  • Critica all’idealizzazione del mondo antico: Hadot critica Goethe per aver idealizzato eccessivamente l’uomo greco antico, suggerendo che anche gli antichi dovevano esercitarsi per raggiungere la felicità

In sintesi, “Ricordati di vivere” è un invito appassionato a riscoprire la saggezza degli antichi per vivere una vita più piena e consapevole nel presente3. Il libro suggerisce che la felicità non è un obiettivo da raggiungere, ma una pratica quotidiana che richiede impegno e attenzione

  1. https://www.filosofiprecari.it/wordpress/?p=1946
  2. https://www.luccasapiens.it/libri-autore/pierre-hadot.html
  3. https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/pierre-hadot/ricordati-di-vivere-9788860302519-1228.html
  4. https://www.ibs.it/ricordati-di-vivere-goethe-tradizione-libro-pierre-hadot/e/9788860302519
  5. https://www.libreriauniversitaria.it/ricordati-vivere-goethe-tradizione-esercizi/libro/9788860302519
  6. https://www.libreriacortinamilano.it/scheda-libro/pierre-hadot/ricordati-di-vivere-goethe-e-la-tradizione-degli-esercizi-spirituali-9788860302519-300426.html
  7. https://www.lafeltrinelli.it/ricordati-di-vivere-goethe-tradizione-libro-pierre-hadot/e/9788860302519
  8. https://www.raffaellocortina.it/autore-pierre-hadot-984.html

Pierre Hadot, La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeanne Carlier e Arnold Davidson, Einaudi, 2008

La filosofia come modo di vivere di Pierre Hadot esplora la filosofia come esperienza vissuta, in cui i discorsi filosofici degli antichi sono visti come esercizi spirituali mirati a trasformare l’individuo

Hadot narra di come la pratica filosofica abbia guidato e sostenuto ogni sua scelta esistenziale

Punti chiave del libro:

  • Filosofia come esperienza vissuta Per Hadot, filosofare è un’esperienza vissuta Racconta di un’esperienza che ha cambiato la sua vita, un’esperienza che ha avuto da ragazzo che lo ha portato a definirsi un filosofo
  • Esercizi spirituali I discorsi filosofici degli antichi sono esercizi spirituali che mirano a formare e trasformare noi stessi, non solo a informare
  • Questi esercizi coinvolgono non solo il pensiero, ma anche l’intero psichismo dell’individuo
  • Trasformazione di sé La filosofia è una conversione, una trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere, una ricerca della saggezza1. Questo implica liberare gli individui dalle loro superstizioni, paure e pregiudizi per una vita più autentica
  • Impegno comunitario La vita filosofica comporta un impegno comunitario, agendo secondo giustizia e prendendosi cura delle relazioni con gli altri1.
  • Atteggiamenti universali Hadot identifica atteggiamenti universali dell’uomo che emergono in epoche diverse, suggerendo una struttura interiore ben precisa da scoprire e indagare
  • Coraggio di essere La filosofia richiede il coraggio di accettare consapevolmente il fatto di essere parte del mondo, trovando splendore nell’esistenza anche in situazioni difficili

  1. https://www.doppiozero.com/vivere-la-filosofia-pierre-hadot
  2. https://www.ibs.it/filosofia-come-modo-di-vivere-libro-pierre-hadot/e/9788806191382
  3. https://www.asia.it/articoli/hadot-filosofia-modo-di-vivere/
  4. https://www.librerie.coop/autori/pierre-hadot/
  5. https://www.einaudi.it/catalogo-libri/filosofia/filosofia-antica/la-filosofia-come-modo-di-vivere-pierre-hadot-9788806191382/
  6. https://www.luccasapiens.it/scheda-libro/pierre-hadot/la-filosofia-come-modo-di-vivere-conversazioni-con-jeannie-carlier-e-arnold-i-davidson-9788806191382-922613.html
  7. https://www.ninoaragnoeditore.it/opera/la-filosofia-come-modo-di-vivere
  8. https://www.mondadoristore.it/filosofia-come-modo-vivere-Pierre-Hadot/eai978880619138/

Oriana Fallaci, Un cappello pieno di ciliege, Rizzoli/Bur, 2008

Un cappello pieno di ciliege è un romanzo incompiuto di Oriana Fallaci, pubblicato postumo nel 20081.

Trama:
Il libro racconta la storia della famiglia dell’autrice tra il 1773 e il 1889. La narrazione inizia in un podere a Vitigliano di Sotto, dove vivono il mezzadro Luca Fallaci e sua moglie Apollonia, con i loro quattro figli: Gaetano, Carlo, Violante e Aloisio1. Carlo, il “ribelle” della famiglia, sa leggere e scrivere e sogna di partire per l’America, ma il destino lo riporta a casa, dove si fa carico delle responsabilità familiari. Il romanzo segue le vicende di diverse generazioni, tra cui spiccano figure come Caterina, sposa di Carlo, e Francesco, marinaio e padre disperato. Il racconto si snoda attraverso eventi storici come l’Italia rivoluzionaria di Napoleone, Mazzini e Garibaldi, culminando con il matrimonio dei nonni paterni di Oriana, Antonio e Giacoma. L’opera, intrisa di realtà e immaginazione, trasforma i membri della famiglia Fallaci in personaggi quasi fiabeschi.

Genesi dell’opera:
Oriana Fallaci ha dedicato oltre dieci anni alla scrittura di questo romanzo, interrompendosi solo a seguito degli attentati dell’11 settembre, che la spinsero a scrivere La rabbia e l’orgoglio. Il romanzo si interrompe con il matrimonio dei nonni paterni, Antonio e Giacoma, ma avrebbe dovuto contenere tutta la storia successiva fino al 1944. Il nipote ed erede universale di Oriana, Edoardo Perazzi, ha curato la pubblicazione del libro, seguendo le precise disposizioni della scrittrice riguardanti sia il titolo sia il testo.

Edizioni:

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Un_cappello_pieno_di_ciliege
  2. https://cctm.website/oriana-fallaci-un-cappello-di-ciliege/
  3. https://www.ibs.it/cappello-pieno-di-ciliege-libro-oriana-fallaci/e/9788817034968
  4. https://www.lafeltrinelli.it/cappello-pieno-di-ciliege-libro-oriana-fallaci/e/9788817034968
  5. https://www.libroparlato.org/audiolibro/un-cappello-pieno-di-ciliegie/
  6. https://books.google.com/books/about/Un_cappello_pieno_di_ciliege.html?id=kVJneavMArcC
  7. https://www.rizzolilibri.it/libri/un-cappello-pieno-di-ciliege/
  8. https://www.ebay.it/p/69887501

EMANUELE SEVERINO, scheda biografica in Giorgio Dell’Arti, Catalogo dei viventi, Marsilio editore, 2008

PIETRO CITATI, PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO, da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

 
PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO 

 


di PIETRO CITATI 

L´estate scorsa, la televisione italiana ci ha offerto un dono inconsueto. Nelle sere di sabato e di domenica, alle 19.35, cominciava la proiezione di un film della serie del Tenente Colombo, che accompagna da molti anni la nostra vita. Confesso di avere una passione infantile per le vicende del piccolo tenente spiegazzato: passione che Federico Fellini condivideva. Qualsiasi cosa accadesse, qualsiasi invito allettante mi venisse rivolto, non abbandonavo la poltrona o la seggiola davanti alla televisione, sebbene avessi visto dieci volte quel film e mi ricordassi quasi a memoria ogni particolare. Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple – con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale – mi affascina fino a questo punto.
Tutti conoscono la trovata fondamentale dell´intera serie. Gli sceneggiatori del Tenente Colombo, tra i quali si nasconde una mente sottilissima, hanno capovolto la struttura del giallo tradizionale. Se in un testo di Conan Doyle o di Agata Christie o su Nero Wolfe la scoperta del colpevole avviene puntualmente alla fine del libro, qui, pochi minuti dopo l´inizio, il mistero è già rivelato: sappiamo chi è la vittima e chi il colpevole, e per quali ragioni e in quali circostanze la vittima è stata uccisa. Suppongo che, nei primi tempi, questo capovolgimento abbia turbato il mondo degli appassionati. Se il mistero era rivelato subito, rischiava di venire abolito. Ma la straordinaria bravura degli sceneggiatori del Tenente Colombo, ha fatto sì che questo pericolo venisse cancellato. Non ho quasi mai seguito un giallo con tanta partecipazione e tensione.
Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile.
Nei gialli di tipo «matematico», ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico. Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volte sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata (c´è sempre una signora elegante che gliene regala una nuova), le scarpe sformate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l´incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l´enorme apparecchio televisivo, l´educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia.
Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l´occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai, finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto… Il suo volto conosce poche espressioni. Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima. Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario.
Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l´assassino. Non sappiamo come né perché, né su quali indizi si basi, ma una cosa si ripete sempre: egli non ha dubbi né esitazioni. Egli sa. Appena ha ricevuto l´illuminazione, non si preoccupa di nulla d´altro. Non guarda le cose, trascura piste apparentemente importantissime, si distrae, sogna, fantastica. Quando ha trovato la vera pista, mette in moto il suo formidabile istinto per tutto ciò che è microscopico. Annusa eventi minimi: un residuo di sigaretta, una minima discordanza temporale, un fiammifero, l´orma di una scarpa, una coincidenza falsa, il filo di un abito, un capello tinto, una sensazione improbabile, un posteggio misteriosamente asciutto. Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore.
Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa sopratutto per obbedire al suo dovere di poliziotto, e alle volte sembra dispiaciuto, come se il suo compito gli pesasse. Qualche assassina, specie se bella e ingegnosa, lo commuove. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d´attenzioni. Forse è un po´ succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell´universo.
Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove egli ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l´unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto, e il suo proclamato sentimento coniugale è una pura istituzione pubblica. Ama appassionatamente soltanto il suo mestiere di poliziotto: non c´è una goccia di sangue, in lui, che non agogni misteri da risolvere, assassinii da rivelare, tenebre da illuminare, ordine da ristabilire.
Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi; e qualche volta ci sentiamo inteneriti da un vago sentimento di pietà verso di loro. Se essi accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema (i sindaci, i governatori, i capi della polizia), allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che egli è una avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l´istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l´antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino.

da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

Emanuele Severino, LA FESTA E LO SGUARDO DEL MORTALE, con Piero Coda e Massimo Donà, Festival della filosofia “Crema del Pensiero” dal titolo “Ricordati di santificare le feste”, 2007, AUDIO di 90 minuti

Emanuele Severino risponde al questionario liberamente ispirato al gioco di Marcel Proust, di Paolo Di Stefano, in Io Donna, Il Femminile nel Corriere della Sera n. 28, 14 luglio 2007

2015-01-06_003241 2015-01-06_003309 2015-01-06_003321 2015-01-06_003332 2015-01-06_003343 2015-01-06_003355

 

Filosofia, citazioni raccolte nei primi anni 2000 nel sito segnalo.it

da: https://www.segnalo.it/TRACCE/CIT/CIT.htm

filosofia

Gli altri formano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da

modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si

disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove

senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa

costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e

barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell’istante in cui me ne

interesso. Non dipingo l’essere. Dipingo il passaggio [.]. E’ un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e

d’immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre

circostanze e considerazioni. Tant’è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la

contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e

in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt’uno. Si può legare altrettanto bene tutta

la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma

intera dell’umana condizione.

Michel de Montaigne

Saggi (vol.III)

 

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Analisi testuale

 

Titolo:

 

Il titolo sembra perdersi nell’insieme tanto vasto quanto anonimo del genere del saggio. In realtà, il contenuto di

questo passo mostra fino a che punto esso sia significativo ed appropriato: il libro si intitola “saggio” precisamente e

 letteralmente perché lo scopo dell’autore è quello di saggiarsi attraverso la scrittura, e allo stesso tempo quello di

farsi saggiare dal lettore. Infatti, l’oggetto del libro è il racconto di sé in quanto uomo (“io racconto [l’uomo] e ne

rappresento uno in particolare”). Un riferimento chiaro al legame che c’è tra il titolo e il saggiarsi si trova alla fine del

primo paragrafo: “Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei”; qui Montaigne indica

esplicitamente la ragione del suo libro, e quella della scelta del titolo.

 

Oggetto:

 

Se è vero che l’oggetto del racconto è un uomo “in particolare”, ciò non significa che esso sia “degno” di essere

“raccontato” per motivi a lui intrinseci: quest’uomo non è né particolarmente importante né in alcun modo esemplare

(“ne rappresento uno assai mal fatto” – par. 1; “Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro” – par. 2). In

altre parole, qui non si tratta, come nel caso delle Confessioni di Rousseau (1765-70), di parlare di sé perché si

vuole rivendicare la dignità del soggetto individuale. L’IO narrante parla di sé unicamente perché appartiene al

genere umano, come uno dei tanti possibili rappresentanti dell’Uomo, perché “si può legare altrettanto bene tutta la

filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca” (par. 2).

 

Forma:

 

Come abbiamo già detto, l’oggetto del libro è il racconto di sé. Ma questa osservazione necessita di alcune

precisazioni. Gli Essais (Saggi) di Montaigne non sono né un diario né un’autobiografia: infatti, a differenza del

diario, non abbiamo nessuna successione cronologica né divisione in sezioni con datazioni diverse; e a differenza

dell’autobiografia, non ci viene presentata la vita di un uomo che è importante nella sua individualità (storica, sociale,

 ecc.), raccontandola secondo uno schema ordinato e volto a dimostrare qualcosa. Gli Essais sono il risultato di una

 scrittura aperta, il cui unico scopo è quello di “raccontare” un uomo.

 

Ritmo:

 

Dato che non segue nessun ordine, né cronologico né causale, la narrazione, ci avverte Montaigne, si sviluppa

seguendo i pensieri del narratore, attraverso un movimento fluido e altalenante, retto unicamente dalla legge della

libera associazione di idee. Essa perciò sembra essere lasciata andare a briglia sciolta, in maniera disordinata e

incoerente; in realtà, è il frutto di un attento criterio stilistico, di un vero e proprio metodo sperimentale: come ha fatto

 notare un famoso critico, Auerbach*, il ritmo narrativo in Montaigne è spiegato e giustificato (dallo stesso autore-

narratore) attraverso un preciso sillogismo: 1. Io racconto un uomo particolare (me stesso) 2. Ogni cosa nel mondo

è in continuo movimento e cambiamento 3. Perciò: io, che faccio parte del mondo, sono in continuo movimento, e la

mia narrazione, che si vuole adattare al suo oggetto, è altrettanto mutevole.

 

Temi principali:

 

    *

 

      Il divenire: la maggior parte del primo paragrafo è interamente dedicata a questo tema. Attraverso la

constatazione che tutto, nel mondo, è in movimento, per motivi esterni o propri (“del movimento pubblico e del

proprio”), Montaigne arriva a spiegare come il suo oggetto (cioè se stesso) gli sfugga (“se ne va fosco e

barcollante”). L’unico modo per lui di “assicurarlo” (di catturarlo, di coglierlo) è quello di prenderlo “così come si

presenta”, cioè in movimento. Perciò può affermare di non dipingere l’essere (ciò che è stabile), ma il passaggio. Per

 lo stesso motivo lui, al contrario degli altri, non può formare l’uomo, ma soltanto raccontarlo, poiché per formarlo

bisognerebbe averne prima fissato l’essenza. Di nuovo, questa è pure la ragione per cui egli, in quanto essere


 

mutevole, non può risolversi, ma unicamente saggiarsi.

    * La semplicità: Montaigne insiste nel ribadire che egli non “racconta” se stesso perché ha particolari qualità che

lo rendono interessante in quanto individuo. Si presenta come “una vita semplice e senza lustro”, non tanto perché

ciò sia vero in pratica (Montaigne era, in effetti, un nobile ed una delle persone più in vista in Francia all’epoca in cui

ha vissuto), quanto perché così è nelle intenzioni: se avesse voluto raccontare di sé come uomo illustre, avrebbe

potuto farlo benissimo, ma ciò che gli preme è il raccontarsi come uomo. Egli richiede a se stesso una sola qualità:

l’umanità, perché tanto basta alla sua filosofia morale.

    * La verità: l’unica condizione richiesta dal suo lavoro è la sincerità nel parlare di sé. Questa condizione è seguita

in maniera molto rigorosa da Montaigne, tanto da poter affermare che persino nella sua incoerenza egli è in realtà

perfettamente coerente con la propria natura (“mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la

contraddico affatto”).

 

Osservazioni conclusive:

 

    * La differenza tra un libro come Le confessioni di Rousseau e i Saggi di Montaigne riflette la differenza che

esiste tra due secoli tanto distanti come il ‘700 e il ‘500. Quando Rousseau, da vero pre-romantico, decide di

scrivere un libro su se stesso, l’intento principale è quello di rivendicare la dignità della propria persona in quanto

possibile oggetto di un libro (ricordiamo che Rousseau era un borghese, e che si rivolgeva ad un pubblico

principalmente aristocratico). In Montaigne non c’è alcuna rivendicazione personale ed individuale: se scrive di sé, è

 il proprio essere uomo che lo interessa, ed in questo rispecchia perfettamente il ‘500, secolo dell’Umanesimo.

    * Come abbiamo visto, gli elementi principali di questo passo sono: 1) la volontà di presentare se stessi in maniera

 semplice e al contempo rigorosa; 2) la necessità di parlare del proprio oggetto attenendosi alla verità; 3) il desiderio

di cogliere questo oggetto nella sua complessità e totalità; 4) la necessità di adeguare lo stile narrativo all’oggetto

della narrazione. Tutti questi elementi riflettono perfettamente il pensiero rinascimentale, che si contraddistingue, tra

l’altro, per il tentativo di costruire un sistema stabile al cui centro stia una visione armoniosa e completa dell’Uomo.

 

* Erich Auerbach, Mimesis (Il realismo nella letteratura occidentale), Vol. II, cap. 2.

filosofia coscienza laica

“coscienza laica: quella parte di coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per

 se stessa e non peR appartenere a una istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma

vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa lo fa perchè ne è

profondamante convinta e non perchè l’abbia detto uno dei numerosi papi o uno degli altrettanto numerosi papi della

cultura laicista”

Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffeallo Cortina, 2007 p. 1

filosofia coscienza laica

“coscienza laica”:

 

“intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la

verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla

verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è

profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi

della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della

coscienza.”

Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina 2007, pag 1


 

FILOSOFIA ETICA

La legge morale – dice Kant nella Critica alla ragion pratica, I, 1, 3 – deve essere concepita e accettata come un

dovere “utile e valido” in sé (questo è quanto ribadisce anche Hegel nel paragrafo 503 dell’Enciclopedia delle

scienze filosofiche). Il punto è comunque sempre relativo alla questione dell’autorità. E’ necessaria un’autorità che

parli agli altri o “per conto degli altri” sui temi della morale? E se sì, da dove questa autorità trae e legittima (vorrei

quasi dire “sussume”, visto che l’ambito morale è sempre personale) le proprie argomentazioni fino a reputarle

“legittime”? E ancora, possono queste argomentazioni avere valore universale? Se consideriamo la morale al pari

delle altre forme di conoscenza, dovremmo dire che non esiste in sé una logica che giustifichi un’autorità nel campo

della morale. Kantianamente parlando, ognuno costruisce la propria impalcatura morale inserendola nel più ampio

“spettro” delle morali altrui al fine di coabitarvi. Se invece vogliamo considerare, con Hume e i naturalisti, la morale

svincolata dalle altre forme di conoscenza umana e collocarla in un ambito più “utilitaristico”, legata cioè alle

contingenze temporali e pratiche, allora il discorso cambierebbe ancora. Ma risulta chiaro che essa perderebbe

gran parte di quei “valori” universali a cui potrebbe far riferimento, di volta in volta, una qualsiasi autorità che

volesse proporla o – peggio ancora – “imporla”.

A differenza di altri, sui temi della morale non ho certezze, anche se – ovviamente – è uno dei temi che più indago e

che più mi sta a cuore. Non credo che una vita incentrata su una morale – per così dire – “autonoma”, abbia minori

garanzie di “validità” rispetto a quella che segue principi “dettati” dall’alto. Non credo cioè sia una questione di valori

“orizzontali” o “verticali” ad informare un principio etico, quanto piuttosto la capacità di considerare che le pretese

dell’altro, se non vogliono conculcare il mio “principio particolare”, sono lecite. Diverso è quando, su molto vaghi e

fumosi “principi universali”, si vuole concentrare una vasta idea di morale; qui il rischio di sfociare in un certo

“assolutismo” del pensiero è assai probabile. Come probabile diventa anche il pericolo di una radicalizzazione delle

varie “morali”, fino al mancato riconoscimento dell’altro o – peggio ancora – alla pretesa “immoralità” di chi non

accoglie il principio etico di una autorità autoproclamatasi “morale”, anche in palese contraddizione con la propria

storia e la propria pratica quotidiana.

FILOSOFIA LOGOS

Logos in greco è un termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse

(«discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg-

richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è

stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo

FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE

«Non conosco libro più calmo, e che disponga maggiormente alla serenità» scrisse Flaubert dei Saggi, e certo, tra i

grandi libri in cui si è espressa la cultura occidentale, non molti sono quelli che presentano altrettanto immediata

l’impronta di uno spirito sereno, coordinatore sovrano e misurato di un’infinita e fluttuante varietà di contenuti.

Sorretta da una curiosità che non si arresta davanti a nulla, l’indagine serrata (se pure niente affatto sistematica)

che Montaigne conduce nel suo libro vede i suoi risultati ridotti a un’unica costante che è lo studio di sé, delle proprie

 humeurs et conditions, e attraverso di esso arriva alla rappresentazione dell’uomo «dipinto per intero, e tutto nudo».

 Persuaso che tutto sia stato detto e preoccupato di dimostrare che lo spirito umano rimane sempre simile a se

stesso, egli giunge, paradossalmente, alla conclusione che nulla può dirsi che sia certo, se non che tutto è incerto.

Questo gli apre le porte per un viaggio senza fine all’interno di se stesso, solo oggetto possibile della sua ricerca

perché il solo verificabile mediante l’esperienza diretta e, in fondo, il solo interessante per lui: «Io oso non soltanto

parlare di me, ma parlare soltanto di me…». Le parti sono così rovesciate; l’uomo non deve accettare una linea di

condotta precostituita, anche se resa venerabile da una tradizione solida e ormai acquisita, né districare nella selva

di dottrine contraddittorie quella che gli serva come filo conduttore per la propria vita; egli deve piuttosto esprimere

un modo di vita che si propone appunto di essere peculiare e unico. Questa accanita, quasi puntigliosa reductio di

tutta la cultura precedente è stata indubbiamente la grande scoperta di Montaigne, e quella che ha fatto dei Saggi un

 punto fermo nella storia della cultura occidentale. Il libro è sì la grande summa in cui vengono esposte, criticate,

parzialmente accettate o respinte con stupefacente libertà di giudizio le teorie tradizionali più generalmente accolte, il

 grande serbatoio attraverso cui fluisce lo spirito classico e in cui si raccolgono, filtrate, tutte le principali correnti del

 pensiero antico, ma soprattutto è la prima grande rappresentazione moderna dell’uomo nella sua condizione tutta

umana, sradicata, parrebbe, dal suo rapporto esistenziale con la totalità – ma non da quello con la Natura –,

dell’uomo come unico punto di riferimento per ogni azione e ogni giudizio. L’uomo di Montaigne, questo soggetto

«vano, vario e ondeggiante», non è più l’eroe che cerca di superare la propria condizione in uno sforzo tragico o

mistico, ma l’uomo nuovo, l’honnête homme, che accetta se stesso, le sue potenzialità e i suoi limiti. I Saggi sono

perciò il primo grande sforzo, pienamente consapevole, di fare dell’indagine psicologica e morale la sostanza stessa

 dell’attività letteraria, giacché il chiarire a se stessi per mezzo della parola le proprie «fantasie informi» diventa in

realtà un modo di vivere più compiutamente: «Non son tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto

 me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita…».

Da risvolto della edizione Adelphi


 

FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE

QUALCHE RIFLESSIONE SU MICHEL DE MONTAIGNE

Giovanni Greco

Università di Bologna

 

Il  Viaggio in Italia di Montaigne – per molte ragioni già chiarite da voci attendibili e per altre che tenterò qui di esporre

– può considerarsi un classico tout court. Così, preliminarmente, mi chiedo con Roberto Roversi: «Sono ancora i

classici il ponte di liane degli incas, tremolanti su tremendi strapiombi, che con filo di dura corda e pezzetti di legno

uniscono ripe lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di

lunga durata?». E la risposta, per me come per numerosi altri lettori, è sì: non dobbiamo, per esempio, resistere alla

tentazione di attraversare la passerella tesa fra la società organizzata e la giustizia ingiusta dell’emarginazione, o

fra le più diverse sensibilità contemporanee e le antiche tradizioni culturali. Per di più, i classici antichi e moderni ci

consentono di alimentare – è proprio Montaigne a sostenerlo persuasivamente – «un retrobottega tutto nostro,

assolutamente autonomo, ove conservare la nostra libertà, avere il nostro più importante rifugio, godere della nostra

 solitudine».   

 

Montaigne non coltiva pregiudizi di stile, ma ha il culto costante dell’antico classico, a cui consacra riflessioni di

notevole respiro, alla Sainte-Beuve per intenderci. Nel panorama del pensiero moderno poi, come si sa, occupa un

ruolo davvero centrale il nostro Michel Eyquem, signore di Montaigne, latifondista benestante e produttore di vini,

autore sostanzialmente di un’unica, incomparabile opera, i Saggi. Invero, il Viaggio in Italia di cui ora ci occuperemo –

anche leggendolo come uno specchio dell’epoca mirabile e miserabile in cui è stato steso – può considerarsi de

plano un arricchimento ed un potenziamento degli Essais, nonché una chiave con cui penetrare nell’essenza

spirituale del Rinascimento europeo.

 

Montaigne – questo inesauribile maître à penser cinquecentesco che ci accade così sovente di sentir  prossimo alla

nostra inquieta “condizione postmoderna” – soffre sì del mal della pietra, ma trova nelle ragioni terapeutiche pure un

pretesto onde intraprendere un viaggio intensamente desiderato: si reca, pertanto, nelle più rinomate stazioni termali

 dell’epoca, dai bagni di Plombières ai Bagni della Villa (l’odierna Bagni di Lucca), presso cui si sottopone alle varie

cure con una diligenza venata di scetticismo, che non sa farsi troppe illusioni su risultati e giovamenti.

 

Montaigne amava talmente viaggiare, visitare luoghi sconosciuti che, alla stessa stregua del lettore trasportato ed

avvinto dal libro che sfoglia, soffriva nel timore che l’opera stesse per giungere alla conclusione: «aveva tanto

piacere di viaggiare che odiava la vicinanza del luogo in cui si sarebbe dovuto fermare».

 

Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte (poco meno della metà) da un

famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità, ma che – come acutamente chiarito da Fausta Garavini, esegeta

ed interprete straordinaria dell’intera opera montaignana – era tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale.

A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di

saper usare con una certa studiata familiarità.

 

Se il Viaggio in Italia di Stendhal «è uno stupendo romanzo», se quello di Montesquieu – anch’egli, come Montaigne,

grande cittadino di Bordeaux – risulta ictu oculi pieno di vita, colore e gusto, il Viaggio in Italia del nostro homme de

lettres – lo ha sostenuto con dovizia di argomenti Guido Piovene – è certamente assai meno pretenzioso, ma, fra tutti

 i libri riconducibili a questo genere oltremodo apprezzato e fortunato,  è  il più bello e il più moderno in assoluto. Non

casualmente Sergio Solmi riteneva che i lavori di Montaigne rappresentassero un’autobiografia di pensieri più che di

fatti: peraltro, già il grande Sainte-Beuve era convinto che Montaigne, autore superbo per profondità e universalità,

fosse l’ “Orazio dei francesi”: «Il suo libro è un tesoro di osservazioni morali e di esperienza. A qualsiasi pagina lo si

 apra e in qualsiasi condizione di spirito, si può star sicuri di trovarci qualche pensiero saggio espresso in modo

vivido e duraturo, che spicca immediatamente e s’imprime, un bel significato in una parola piena e sorprendente, in

una sola lega forte, familiare o grande».

 

Montaigne ha quella che è forse la dote più rilevante dell’autentico viaggiatore, ossia la consapevolezza di non

essere superiore a nessuno; non accetta che il viaggiatore girovaghi per il mondo lamentandosi di non trovare ciò a

cui è abituato: gli piace per contro adeguarsi alle varie peculiarità territoriali, e mai compirebbe un viaggio per

comprovare un preconcetto. Ciononostante, il confronto fra i paesi tedeschi e gli italiani è a nostro netto svantaggio

per l’ordine, la cucina, il benessere, l’onestà,  gli edifici, le finiture,  le finestre senza vetri,  gli alloggi, le seduzioni

inferiori alle attese, le donne etc.

 

Il “bastione Montaigne”, per utilizzare certe tipologie di Albert Thibaudet, è il bastione dell’uomo interiore, con gocce

di sangue ebraico (la madre era ebreo-spagnola), tradizionalista, moderno, cosmopolita, cattolico, antisistematico,

tant’è che «stoicismo, epicureismo, scetticismo coesistono in lui». Montaigne è, per dirla con Giovanni Macchia, il

maestro del dubbio, del dubbio inteso come antidoto onde tentare di giungere alla verità per quanto concerne sia il

passato sia il presente, il dubbio, ancora, che pervade le ombre e i contorni del futuro. Montaigne sostiene poi che

«la peste dell’uomo è il credere di sapere», e desidera discorsi che «colpiscano il dubbio là dov’è più forte»,

coltivando perciò il dubbio e le cose nella loro essenza. Non per caso Sainte-Beuve definì ore rotundo Montaigne «le

 français le plus sage qui aie jamais existé». Fra le altre cose, il nostro filosofo dirà dei commentatori dei suoi tempi

che «c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose».

 

Montaigne, che ha conosciuto il latino come lingua madre e nutre un’autentica adorazione per la poesia, è nemico

giurato della noia e di ogni forma passiva e sterile di ozio, nonché scrittore che afferma persuasivamente di

sforzarsi di comporre la sua opera con la maggior sincerità possibile: egli sottolinea con energia quest’ultima, rara


 

qualità già nel decisivo ed incisivo incipit dei Saggi  («Questo, lettore, è un libro sincero»),  indicando così con

efficacia il percorso che intende seguire, un progetto che al centro  ha la sua stessa persona («sono io la materia

del mio libro»). Del resto, in uno dei suoi più riusciti autoritratti egli prova a spiegare come vede se stesso e perché

parli di sé in quel suo modo sconcertante e inconfondibile: «Se dico cose diverse di me, è perché mi guardo da

angolature diverse. Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discuto, insolente; casto,

lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato; ingegnoso, ottuso; triste, allegro; imbroglione, sincero;

dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò io lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e

 chiunque si studi attentamente trova in se stesso, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza.

Non posso dir nulla di me una volta per tutte, semplicemente e per sempre, senza confusione e mescolanza, né in

una parola».

 

Montaigne è l’uomo di provincia esemplare, è davvero uno scrittore nato, è una coscienza fine ed irrequieta legata

anche sentimentalmente alle discipline giuridiche, è un letterato che, per così dire, si consegna alla carta, è un

filosofo che ritiene l’aspirazione alla saggezza una sorta di gioia permanente. Ha una visione grosso modo laica di

quel cattolicesimo che stima una pratica virtuosa significativa, il miglior modo (forse) di cogliere elementi di autentica

religiosità.

 

E’ perfettamente consapevole, comunque, della straordinaria difficoltà, per gli uomini, di riconoscere ed afferrare la

verità, convinto com’è che la verità umana, per dirla con Spagnol, si trova più spesso arrotolata fra i panni sporchi

che non nelle pieghe delle solenni cartapecore. Gli è inoltre ben noto che, non di rado, la conoscenza del vero è

conoscenza del nero (Rigoni). Montaigne sembra persino credere che, se è opportuno tendere sempre e comunque

 alla verità, essa tuttavia va probabilmente rivelata solo di quando in quando. In piena sintonia con lui è un altro

grande moraliste, quell’Oscar Wilde persuaso del fatto che «la verità di rado è pura, e non è mai semplice». Ancora,

basta una semplice lettura dell’opera montaignana per comprendere non solo quanto gli stessero a cuore quei temi e

 problemi di natura morale e pedagogica che andava costantemente indagando nei suoi diletti libri, così come nel

proprio non meno amato percorso esistenziale, ma anche quanto fosse forte in lui – che reputava fra l’altro,

evangelicamente, l’uomo un umilissimo vaso d’argilla – il gusto per le sentenze bibliche e classiche.

 

La sua Weltanschauung sfocia nel concetto di salute fisica e morale, come acutamente sostenne in pagine famose

Sergio Solmi, che definì la “salute” di Montaigne una qualità innata, un elementare e supremo equilibrio di vita. Quindi:

 tener saldo il fisico e non consentire alcun condizionamento alla moralità, per definire un modello di vita preciso e

costruttivo. E non mi sembra davvero un caso che uomini tutt’altro che ingenui e sprovveduti abbiano deciso di

formarsi in maniera a un tempo virtuosa e serena, severa e tollerante, virile e delicata, leggendo e rileggendo

Montaigne: in verità, gli Essais sanno suscitare come ben pochi libri, nell’animo del lettore non distratto, il desiderio

autentico, la volontà di autoeducarsi in maniera equilibrata.

 

Nei Saggi – ove l’antropologo (in senso etimologico) prevale sul cronista, che la fa invece da padrone nel Viaggio in

Italia – la preoccupazione maggiore di Montaigne è, come accennato, che le sue pagine siano immediatamente

percepite come un libro sincero. Aspira perciò a presentarsi senza infingimenti ed assicura che, se si fosse trovato

 fra popoli primitivi, si sarebbe denudato completamente: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice,

naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno i miei difetti

presi sul vivo e la mia immagine naturale».


 

FILOSOFIA PSICANALISI SENSO

L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno è scaturito, al termine del mio percorso, come ultima risposta

all’interrogativo che mi si era imposto fin dall’infanzia:

– Cosa vuole dire che è ciò che è?

Incalzata da questo interrogativo, durante l’adolescenza ne cercai risposta nel pensiero filosofico. Ma neppure

l’ontologia hegeliana, pur nella sua visione di sintesi, mi si presentava come esaustiva, in quanto la vita, nella sua

concreta oggettualità, ne era irrecuperabilmente esclusa. La vita stessa allora mi costrinse a cercare la risposta

nella scienza biologica, la quale immediatamente mi svelò l’ordine evolutivo delle forme viventi come l’ordine di una

dinamica evolutiva del pensiero. Mi sembrò allora giunto il momento di tornare alla filosofia, per trovare la sintesi tra

spirito e materia nella ritrovata coincidenza tra pensiero e vita. Ma ancora una volta la vita mi indicò che era un’altra

la strada da percorrere, quella della riflessione della vita su se stessa: la strada della psicoanalisi. Fu così che

scoprii anzitutto che il metodo psicoanalitico è l’attuazione concreta della dialettica hegeliana, in quanto in esso è il

soggetto umano, e non più un soggetto astratto, a prendere da sé la distanza riflessiva per conoscere se stesso; e

scoprii ancora che ciò di cui il soggetto umano fa conoscenza è lo stesso metodo del conoscersi del Pensiero che,

a partire dal primo manifestarsi dell’Essere, quale proiezione del Soggetto Pensante Uno fuori di sé, ha dato luogo a

tutto ciò che è. A questo punto un nuovo tentativo di evidenziare la sintesi tra spirito e materia in una rilettura

dialettica del pensiero filosofico fu ancora una volta reindirizzato verso una trattazione scientifica dello strutturarsi

del cosmo, a partire dal primo farsi della materia quale oggettiva-zione del Pensiero nel pensato di sé che è ancora

lui stesso. È qui che in me si fece l’esperienza vivente della originaria dualità dell’Uno e si compì un ulteriore salto

riflessivo, grazie al quale la logica della separazione tra soggetto e oggetto si risolse nella logica unitaria dell’in-

tersoggettività. Da qui in poi, grazie alla progressiva consapevolizzazione di questo più elevato livello di riflessione

come realtà concreta nella quotidiana esperienza dell’intersoggettività, il Pensiero affrontò e infine risolse il problema

 della coincidenza tra il noumenico e il fenomenico; coincidenza nella quale esso riconobbe la sua realtà di Unico

Vivente. È a questo punto che la vita mi ha risospinto infine verso la filosofia, per ripercorrere la via da essa

tracciata a partire dalla crisi del Pensiero Uno, già colta da me adolescente, scaturita all’inizio del XX secolo dalla

messa in questione del pensiero hegeliano e risolta all’inizio del nuovo millennio nella visione unitaria dell’Essere

quale punto di arrivo del pensiero psicoanalitico. E da questa visione unitaria dell’Essere è emersa l’ultima risposta

all’interrogativo essenziale della mia esistenza:

– Cosa vuole dire che è ciò che è?

– Vuole dire che ciò che è è l’esserci della presenza al cospetto d’altra presenza quale è infinito della vita.

 

In : Silvia Montefoschi, L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno. Escursione nella filosofia del XX secolo, Zephyro

 Edizioni, Milano 2006

filosofia religione

Qual è la differenza tra religione e filosofia?

 

Per la filosofia la trascendenza è l’uomo stesso che, pur essendo un ente finito, è capace di pensare l’infinito. La

religione stabilisce una scissione tra immanenza e trascendenza, proponendo se stessa come tramite tra queste

due entità altrimenti tra di loro incommensurabili

 

Massimo Cacciari

Nel “monastero” di Google nuova biblioteca di Babele

Il catalogo incomincia dalla Bibbia di Gutenberg del 1455

“Vogliamo riempire i buchi e i vuoti della nostra storia”
di VITTORIO ZUCCONI

MOUNTAINVIEW (California) – Il villaggio della memoria totale con quel buffo nome da cartone animato, Google, è tutto di palazzetti bianchi, sparpagliati tra le ultime marcite della baia dove l’Oceano Pacifico muore. Così candido sullo sfondo della Sierra Nevada, nel suo color calce, ricorda quei paesi medioevali del nostro Mediterraneo che John Steinbeck immaginò trovandosi davanti a San Francisco e non solo nell’aspetto. Un dubbio di Medioevo venturo lo percorre davvero, nel silenzio da chiostro che lo avvolge, nella laboriosa e maniacale operosità dei tecno frati e delle cyber suore che lo popolano, ma soprattutto nell’impresa nella quale si sono buttati.

Niente altro che catalogare, ricomporre, riprodurre e salvare l’intera memoria dell’umanità contenuta in tutti i libri del mondo. I tecno monaci del nuovo ordine di San Google stanno in pratica tentando di ricomporre e ricostruire la Torre di Babele, sotto lo sguardo dello stesso Dio geloso che sbriciolò la prima.

Il villaggio si chiama ufficialmente “Googleplex”, come lo hanno battezzato i nuovi “servi a manu”, i nuovi amanuensi che aborriscono espressioni burocratico aziendali come sede centrale o quartier generale. Ma questo, qualunque sia il nome che si vuol dare alla rosa, è il quartier generale di quella società che uno studente americano e un immigrato russo crearono insieme sette anni orsono per rendere più razionale e facile con le loro formule alchemiche l’esplorazione di quella Babele, appunto, di quel caos primordiale chiamato Internet.

Qualche mese addietro, quando la sortita in Borsa della Google ha rovesciato un’inondazione di dollari, 60 miliardi, nella casse della società e nelle tasche dei fondatori e dei primi azionisti oltre i sogni più rosei, anziché correre a comperarsi Ferrari e Rolls, quadri impressionisti e ville in Sardegna, i nuovi ricchi con la vocazione (anche loro) del Bene hanno semplicemente deciso di investire miliardi, intelligenze, forze e tempo per catalogare e mettere a disposizione di tutti, ovunque, ogni pagina di ogni libro di ogni nazione di ogni lingua pubblicato da ogni editore in ogni tempo e in ogni luogo dal 1455, l’anno in cui Johann Gutenberg si cimentò con la Bibbia.

Nessun libro mai scritto e stampato, per quanto piccolo, insignificante, stupido, brutto, deve andare più perduto, perché ogni pagina è stata, e quindi è, una molecola del cervello collettivo dell’umanità.
Occorre essere molto giovani, molto ricchi, molto ambiziosi, molto Google, soltanto per concepire, non si dice realizzare, una impresa del genere.

“Effettivamente, neanche noi sappiamo quanto tempo occorrerà, forse anni, forse decenni, forse non lo finiremo mai, forse è addirittura impossibile. Che ne sappiamo, ci proviamo”, civetta agitando le mani e sorridendo con i suoi begli occhi color grigio azzurro baltico Marissa, sangue finlandese-americano, una delle due badesse del progetto “biblioteca del mondo”, due donne.

È probabile che menta, Marissa Mayer, perché anche lei, come tutti i giovanotti e le ragazze che si muovono in silenzio dentro il monastero di San Google, non sanno che cosa significhi fallire, non hanno mai battuto la testa contro il soffitto del cielo né subito la collera di questi dei dispettosi che hanno spazzato via con un gesto altri progetti e forato le infinite bolle della superbia umana, da Babele al Nasdaq.

Giovani certamente sono, con una scandalosa età media di 31 anni per i tremila impiegati. Sono carichi di lauree in “computer sciences”, come Marissa, ottenuti nelle migliori università del pianeta, a cominciare da quella vicinissima Stanford, dove il russo Sergey Brin e l’americano Larry Page studiarono e si conobbero. Sono sfacciatamente e meritatamente ricchi, ora che la loro impresa fecondata inizialmente da una donazione di 10 mila dollari che i due non sapevano neppure dove depositare perché non avevano conti correnti bancari, è andata in Borsa dall’autunno 2004 e ha raggiunto un valore di capitale circolante superiore alla General Motors e la Ford. Messe insieme.

E Google, il nome creato giocando sul lemma “googol”, una parola inesistente che il nipotino di un grande matematico americano, Edward Kasner, inventò quando il nonno gli chiese di battezzare il numero 10 alla 100esima potenza (“Uno” seguito da 100 zeri) ha la faccia e l’anima di tutto del mondo, indiani, pachistani, cinesi, arabi, europei biondi e bruni, russi, africani, bianchi, che vedo curvi a compitare stringhe di caratteri sulle loro tastiere mute davanti agli schermi, in uno stato di volontaria e autosufficiente clausura.

Nel parcheggio, tra le solite Volvo scalcagnate, le Toyota usate (ma anche fresche Bmw e Mercedes e Lexus) che segnano tutti i campus della California, sosta uno studio odontoiatrico ambulante, perché neppure carie e nevralgie distolgano tempo dalla missione, mentre terziari laici provvedono a lavare le macchine e una signora turca, proprio turca “native” specifica il manifesto, offre al personale femminile con qualche prurito “lezioni di danza del ventre”.

Un mondo autosufficiente, appunto come un convento cistercense. Ora et labora. Et gioca, come vedo, salutandolo da lontano attraverso i vetri del suo piccolissimo e quindi snobissimo ufficio, proprio Sergey Brin, il fondatore. Telefona da una scrivania assediata da un numero assurdo di automobiline radiocomandate sparse sul pavimento in vari stadi di montaggio e smontaggio, con le loro budelline elettroniche sventrate. Il riposo dell’ingegnere.

Il grande progetto
Non sono stati i primi, né gli unici, ad avere avuto l’idea di riversare nei server, negli armadi elettronici, i libri nel progetto Google Print, come si chiama ufficialmente. Lo fanno già grandi biblioteche universitarie e lo fa la British Library, che ha messo proprio la Bibbia di Gutenberg, conservata nelle proprie teche, in Internet. Lo fanno siti commerciali come la libreria on line amazon. com, che permette la consultazione via computer di estratti dei libri che vende e lo fanno i napoletani dell’associazione Liber Liber che nel loro Progetto Manuzio, il grande tipografo di Velletri contemporaneo di Gutenberg, hanno in rete già centinaia di capolavori della pagina stampata, a disposizione gratuita di tutti.

Non sta dunque nell’idea di portare in Internet il sogno perduto della biblioteca di Alessandria, della biblioteca Marciana di Venezia, della mitica biblioteca di San Giovanni il Teologo a Patmos, del Beato Renano in Alsazia o delle università arabe dove Ibn Sina e Ibn Rushd, Avicenna e Averroè, studiavano e scrivevano, la mirabile insensatezza dei benedettini googoliani.

È nella scala del progetto, in quella presunzione di assoluto contenuta nella promessa di portare ogni libro mai stampato a portata di qualsiasi computer portatile con un collegamento alla rete. Hybris, superbia da Prometei, mi azzardo a dire e lo sguardo baltico di Marissa si ghiaccia: “Noi preferiamo chiamarlo il nostro progetto Luna, il nostro Moonshot, quello che John Kennedy propose nel 1961, senza avere i mezzi, i soldi, la tecnologia per realizzarlo. Si ricorda?”. Mi ricordo, io ero già grande “Otto anni dopo, il 20 luglio del 1969, Armstrong mise il piede sulla Luna. Era hybris, superbia, anche quella di Kennedy?”.

Ma la luna era un passetto da bebè rispetto a questo balzo. “Soltanto nella Bibioteca del Congresso a Washington ci sono 12 terabytes da registrare”, 12 mila miliardi di caratteri in 28 milioni di libri. E pochi di meno a Manhattan, nella Public Library di New York, nella Harvard di Cambridge, Massachussets, a Oxford, nelle cinque grandi biblioteche già convertite al progetto Babele, un’enormità di pagine stampate che, dagli ideogrammi cinesi a Bejing ai kanji Giapponesi, al cirillico, all’arabo nessuno può neppure cominciare a quantificare.

I rivali, che hanno visto in neppure sette anni, dal 1998 quando la Google Inc fu creata, risucchiare l’80% di tutte le queries, le ricerche, provenienti dal mondo intero, dicono che questa volta Brin, Page, i loro piccoli wizards, i loro Henry Potter, si romperanno il nasino. Che non ce la faranno a completare questo stunt, questo numero e può darsi che gli invidiosi abbiano ragione e il progetto di ricomporre l’albero della conoscenza, sia la loro fine.

Ma la metafora della Luna li sorregge più di quanto le rovine della Torre o la cacciata dall’Eden li inquietino. È toccante scoprire che giovanotti neppure nati quando Eagle allunò nel mare della Tranquillità, ancora sentano il richiamo di quella chiamata alle armi senza guerre. Ma come farete a spremere e infiascare nei vostri server tutti i libri del mondo?

“Prima di tutto dobbiamo risolvere il problema del copyright, dei diritti degli autori e degli editori. Stiamo assumendo più avvocati che specialisti di informatica, per negoziare con le case editrici in tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. Poi dobbiamo affrontare la difficoltà maggiore, quella di sfogliare le pagine, una per una”. Mi racconta che lei e Sergey Brin, uno dei due cofondatori che potrebbe, a 30 anni, incassare il suo primo miliardo di dollari (la domanda pubblica di vendita di azioni è già stata fatta alla Commissione di Borsa, come vuole la legge americana quando sono i grandi azionisti dirigenti a liquidare) e vivere in eterno senza riuscire a spenderli, dopo avere partorito insieme l’idea provarono a riversare un libro qualsiasi, comperato in libreria, di 300 pagine nel computer. “Facendo una pagina a testa, a mano, dalla copertina alla quarta di copertina, impiegammo quasi un’ora”.

Dunque, calcolando a braccio, soltanto per smazzare i 28 milioni di libri raccolti alla Library of Congress di Washington, i due impiegherebbero almeno 28 milioni di ore, un milione e 166 mila giorni, tre millenni, secolo più secolo meno. No, così non poteva funzionare, a meno di impiegare milioni di amanuensi e poi nemmeno, perché errare è umano “e alla fine ci accorgemmo che nella scannerizzazione delle pagine, cioè nella trasposizione delle parole stampate in caratteri alfanumerici, c’era stato il 3% di errore, circa 10 pagine su 300 sbagliate. Inaccettabile”.

Ci hanno provato coi robot. Si sono rivolti all’Università americana più avanzata nella ricerca robotica, la Carnegie-Mellon di Pittsburgh, perché gli progettassero un automa amanuense. Mi fanno vedere una specie di benedettino meccanico, un ragno capace di sfogliare le pagine, di leggerle e di pomparle poi dentro la memoria dei computer. “Non ci siamo ancora”, ride Marissa “i robot usano ventose per girare le pagine, ma qualche volta la strappavano, non le voltavano per bene, lasciavano pieghe che interferivano con la lettura ottica. Non possiamo correre il rischio di strappare una pagina della Bibbia del 1455 e poi dire, ooops, sorry, adesso la incolliamo con lo scotch tape”. No, effettivamente, alla British ci resterebbero male.

“Per i libri nuovi, in commercio, la soluzione è quella di strappare le pagine una per una, e passarle su un lettore piatto, tipo fotocopiatrice o fax, ma con i libri fuori stampa o addirittura antichi, non se ne parla. Anche se potessimo farlo, il costo di rimettere poi insieme le pagine e rilegare di nuovo il libro sarebbe proibitivo”. Esattamente come nel 1961, quando Kennedy si buttò sulla Luna, c’è l’idea, ci sono i soldi, ma la tecnologia per realizzarla è ancora da inventare.

Forse per questo, tutto è ancora rigorosamente segreto. Marissa mi dice soltanto che “alcune nostre squadre stanno già lavorando in questo momento con biblioteche e bibliotecari, mentre gli avvocati trattano con gli editori per i diritti”, una piaga, questa dei legali, che almeno agli architetti della Torre fu risparmiata. Ma non mi vuol dire esattamente dove.

Come tutti i grandi ordini religiosi, i grandi monasteri e Disneyworld, dove tutto sembra dolce e soffice in superficie, ma sotto il saio e sotto il pelouche ci sono segreti e sancta sanctorum, anche Google è un’armata soft, ma un’armata non di meno. Sa di essere impegnata in una guerra buona (“Non fate mai il Male” è il motto ultrabuonista dei fondatori, che precede persino George Bush) ma una guerra, contro avversari che ogni secondo di ogni giorno lavorano per portarle via i segreti del successo.

L’arma di dominio di massa è il numero delle richieste che 200 milioni di utenti di Internet presentano ogni giorno al sito di Google, con queries, domande che coprono l’universo delle curiosità lecite e illecite e, secondo i rating di NetMetrix, rappresentano il 70% del traffico mondiale. Avere nei propri cervelli elettronici l’intera memoria bibliografica del mondo promette nuovi e ancora più grandi maree di contatti, oltre a quelli che vedo scorrere incessantemente sui grandi monitor al plasma accesi ovunque dentro le palazzine bianche.

Depurate delle richieste oscene o delle domande di accesso alla galassia del porno Internet, passano sugli schermi richieste in ogni lingua, in cinese e in hindi, in russo, in spagnolo, in italiano. Dall’Italia, sanno tempestando Google con domande sulla storia, le dimensioni e le immagini del Partenone. C’è qualche scolaro disperato, o qualche genitore premuroso a Varese o a Messina, a Venezia o a Imperia, che sta sudando sangue su una ricerca.

Le domande del mondo
E proprio in quelle domande che corrono a cascata sugli schermi al plasma e divengono raggi luminosi che si sprigionano dal mappamondo virtuale che ruota su un altro monitor per indicare graficamente da dove vengano, e quante siano le queries, c’è la dolcezza di questa superbia. Spogliata di tutta la retorica spesso imbonitoria della New Economy, l’impresa dei trentenni di Google è il tributo finale del futuro al passato, la pace tra la memoria e la fantascienza.

Carta e silicio, rilegatori e programmatori, si riconciliano nella fatica di questa sfida. “Le racconterò come mi è venuta l’idea”, si scioglie alla fine la signora del Baltico trapiantata sulla Baia di San Francisco. Un giorno, frugando nella classica soffitta, trovai un sussidiario di quinta elementare appartenuto a mio nonno, quando era bambino a Helsinki. Cominciai a leggerlo e poi a cercare gli altri volumi, dalla prima alla quarta, e non c’erano più, erano andati persi, o buttati via. Pensai a quanti bambini finlandesi erano cresciuti e si erano formati su quei sillabari e sussidiari, che erano entrati a far parte della loro memoria collettiva e quindi della storia di una nazione, di una cultura, del mondo e che erano andati perduti per sempre. C’era un buco, un vuoto, nella nostra storia. Ne parlai con Sergey Brin, uno degli inventori e fondatori – e anche lui, che era andato via dall’Unione Sovietica con la sua famiglia quando era ancora alle elementari aveva pensato le stesse cose”.

Dunque ricordare tutto, per non ripetere niente, per non farsi ingannare da chi riempie le fosse delle amnesie con le nuove bugie. Già oggi, Google è diventato un verbo, “to google”. Se qualcuno vi racconta qualcosa di sospetto, se un politico proclama qualche verità trombonesca, sulle tasse, sulla guerra, sulla storia, “google it”, andate a verificare. In fondo, dietro le magie dei bit e dei byte, si sente una inespressa e inconfessabile intenzione politica, nel senso più alto della parola. La verità della memoria, che è l’antitesi di ogni ideologia. L’antidoto definitivo a ogni possibile censura, a ogni falò di libri, a ogni indice.

Nel Mein Kampf, Adolf Hitler scrive che “la capacità della masse di comprendere è molto limitata, ma la loro capacità di dimenticare è infinita”. Se la pazzia di questi nuovi scalatori della Luna nel loro convento modernista alla fine dell’Oceano riuscirà, nessuno potrà più dire che “non sapeva”.

Nella raccolta di ogni parola mai scritta, di ogni pensiero mai formulato, c’è la Bibbia dell’uomo, il nuovo peccato imperdonabile della libertà di conoscere. Potrà il Dio geloso di Babele permetterlo?

(23 gennaio 2005)

Alberto Ronchey su Raymond Aron, Il Foglio 19 febbraio 2005

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Madera Romano, Vero Tarca Luigi, La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, Bruno Mondadori, 2003

La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche è un libro di Romano Màdera e Luigi Vero Tarca, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2003

Il libro spiega le ragioni per cui la dimensione pratica della filosofia è stata trascurata nel tempo, riproponendo questa sua peculiarità e adattandola al contesto storico odierno

I contenuti del libro

  • Filosofia come cura dell’anima Fin dalle origini, la filosofia si è presa cura dell’anima, e per Platone conoscere l’anima significava conoscere il mondo2. Per gli autori, la filosofia deve innovarsi, considerando attentamente la biografia, per ritrovare la sua vocazione di cura dell’anima
  • Filosofia e Biografia Màdera e Tarca conducono un seminario aperto di pratiche filosofiche presso l’Università di Venezia, che rappresenta un ritorno alla filosofia come pratica, ossia come stile di vita
  • L’esperienza è diventata un’attività in cui il peso dei due autori si è progressivamente ridotto, con i partecipanti che hanno assunto un ruolo sempre più centrale
  • Pratiche filosofiche La pratica filosofica non è un’attività che si conclude una volta raggiunto un risultato, ma piuttosto una maniera di vivere In questo senso, possono essere utili gli esercizi spirituali delle scuole filosofiche antiche, sviluppati nel senso di una filosofia biografica
  • Verità filosofica La filosofia contemporanea ha come esigenza primaria quella di proporre una verità filosofica differente da quella incarnata dalla scienza, riproponendo a livello filosofico lo studio delle questioni relative all’esistenza umana2. La verità della teoria filosofica dipende dal modo in cui il discorso filosofico si realizza, avvicinandosi così alla pratica artistica
  • Comunità filosofica Il darsi della verità filosofica presuppone la costituzione di una comunità filosofica guidata dal principio dell’autorealizzazione solidale, in cui gli individui si rapportano tra loro secondo le regole che incarnano i principi propri della filosofia
  • La pratica filosofica compiuta consiste in una piena integrazione dell’esistenza personale con la vita comunitaria

Romano Màdera è stato professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, analista junghiano, fondatore e presidente della Scuola superiore di Pratiche filosofiche Philo di Milano

  1. https://www.lacicalalibri.it/la-filosofia-come-stile-di-vita/
  2. https://centrostudipsicologiaeletteratura.org/2014/02/la-filosofia-come-stile-di-vita-introduzione-alle-pratiche-filosofiche/
  3. https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Romano-M224dera-il-nesso-tra-psicoanalisi-e-filosofia-ff4b552c-de86-4bc9-a52d-992fcf0db96d.html
  4. https://www.ibs.it/filosofia-come-stile-di-vita-libro-romano-madera-luigi-vero-tarca/e/9788842491446
  5. https://books.google.com/books/about/La_filosofia_come_stile_di_vita.html?id=AwSp7OcqoJsC
  6. https://www.mondadoristore.it/filosofia-come-stile-vita-Luigi-Vero-Tarca-Romano-Madera/eai978884249144/
  7. https://www.ebay.it/itm/155988019304
  8. https://www.unilibro.it/libro/madera-romano-tarca-luigi-vero/filosofia-come-stile-vita-introduzione-pratiche-filosofiche/9788842491446

VITO MANCUSO, Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio, prefazione di Edoardo Boncinelli, Mondadori , 2002

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Massimo Cacciari a Emanuele Severino: significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento

Caro Professore, fu soltanto dopo la pubblicazione del mio Krisis, nel 1976, che lessi per la prima volta le sue fondamentali opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma credo che proprio la distanza della mia formazione filosofica e delle mie prime esperienze culturali e politiche dal suo percorso di studioso e dall’ambiente in cui esso maturò, mi abbia permesso di avvicinarmi, forse più di altri, al significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento. Finché la «storia» della filosofia contemporanea continuerà ad essere «giocata» o all’interno della «linea» nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell’opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contradizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut aut. Quando finiranno le chiacchiere e confusioni alla moda, quando si potrà studiare la nostra epoca da una «buona» distanza, non dubito che tale decisione apparirà il problema fondamentale della nostra filosofia – e non solo. Heidegger – senza alcuna distinzione tra le varie fasi del suo pensiero – coglie tutta l’ intrinseca debolezza dell’antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo (lungi dal negarlo!), coerentemente e radicalmente, in un grandioso anti-Parmenide. L’opera di Severino (mille miglia oltre ogni astratta polemica) rappresenta l’altro polo. Davvero, ogni altra posizione sembra oggi «costretta» nella forma di questa polarità. Non credo, caro Professore, che aver compreso la sua lezione significhi semplicemente esplorare i contorni di tale polarità e saggiarne le conseguenze. Significa affrontarne la sua pretesa definitività, il suo «consummatum est». La strada finisce anche giungendo alla mèta – anch’essa è aporia. E l’ aporia può essere nuovo inizio. Su questo «scommettono» i suoi migliori allievi, io credo. Ne segua benevolmente l’improbus labor, senza mai consolarne debolezze e contraddizioni.

La sua lezione è pari a quella di Heidegger
Repubblica — 22 febbraio 2001

INTERSOGGETTIVITA’: LO STARE IN RELAZIONE IN LIBERTA’, di Silvia Montefoschi

“Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la feli­ce condizione dell’esistere con l’altro senza bisogni.

Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l’altro ci sia, in quanto è grazie all’esserci dell’altro che io mi mani­festo come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l’esistere dell’altro mi rivela a me stessa.

In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell’altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell’esistere dell’uomo come soggetto?

Devo procedere nell’analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.

Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comporta­menti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità.”

in Silvia Montefoschi, L’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75.

Paolo Ferrario, ATTIMI DI LUOGO: Amaltea di Coatesa, 1992/1995

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IL SOGNO della ACCETTAZIONE delle PARZIALITA’, fine analisi junghiana con Claudio Risè: 29 dicembre 1992 (1978/1992)

  • AUDIO DEL SOGNO:


Qui in formato Mp3:

 Sogno della accettazione delle parzialità, 29 dicembre 1992 


Dò molta importanza agli eventi casuali che costellano la mia esistenza.
Dico sempre che niente avviene a caso. Nel caso c’è sempre un messaggio da trovare e comprendere.
Bene. Qualche giorno fa  Batsceba (blogger di splinder con la quale ho perso i contatti) ha invitato sul suo blog a parlare di qualche proprio sogno. Un invito interessante, perchè talvolta propongono immagini potentissime.
I sogni sono una cosa seria, impegnativa. Sono anche qualcosa di un po’ sacro. Parlo di una sacralità interiore.
Proprio in quelle ore, riordinando la mia biblioteca avevo trovato un pacco di miei sogni, risalenti ad un periodo in cui non solo alla mattina li ricordavo, ma addirittura li ricopiavo per conservarli. Appunto come qualcosa di sacro, in quanto proveniente da quella parte di me non controllata dalla coscienza.
E così ho tirato fuori il sogno della accettazione delle parzialità.
Quella notte mi svegliai di colpo con l’impellente bisogno di scriverlo.
E’  fantastico svegliarsi in piena notte.  Spinto da una forza  irresistibile  di fare  i conti con me stesso.
Di questi tempi non mi capita più.
Per forza: sono sempre qui attaccato al blog … anche per la canzone di mezzanotte … si dorme poco … si ricorda poco dei sogni …

17 febbraio 2007

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Primo momento: un pezzo del sogno

Notte del 29 dicembre 1992 ore 2 e 20 
Ho partecipato ad alcuni gruppi di incontro psicologico con fini terapeutici. Di quelli molto diffusi negli Stati Uniti, nei quali le persone si trovano per più giorni ed effettuano intense esperienze di comunicazione interpersonale e corporea.
In una di queste esperienze mi assumo io il compito di guidare un piccolo gruppo di attività creativa: mi pare di una cosa pittorica.
Il punto fondamentale è questo: non c’ è un momento di comunicazione complessiva al gruppo globale di questa singola esperienza che io conduco. Il piccolo gruppo non comunica a quello grande ciò che è successo.
Questo crea dei conflitti e qualcuno mi chiede il perché di questo.
Io lo liquido abbastanza velocemente ed una ragazza prende le mie difese e mi da ragione, dicendo che il desiderio invadente di sapere è un problema di quella persona, non mio.

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Secondo momento: rêverie sul sogno

In sé il sogno potrebbe fornire pochi messaggi significativi.
Sennonché quella notte feci  una lunga “Reverie”, ossia una riflessione fra il conscio ed il dormiente di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard. Una esperienza davvero piena di anima.
E questo è il commento, registrato quella notte e poi da me trascritto dalla voce notturna e conservato come uno dei più potenti messaggi che il mio inconscio mi abbia suggerito:

Mi sono chiesto se qui ci sia anche un messaggio di valutazione del punto in cui sono nel percorso della mia vita e della stessa analisi. Come se fossi ad un bivio.
In particolare mi viene in mente la mia attuale situazione esistenziale.
Mi trovo nella condizione di poter accettare una serie di mie parzialità psicologiche.
Un esempio di parzialità è quella per cui, pur non avendo capacità grafiche, ultimamente imposto quasi tutto il mio lavoro didattico utilizzando le immagini.
Certe immagini geometriche, che tuttavia hanno un effetto evocativo non basato sulla parola.
Una seconda mia parzialità è quella per cui, pur non avendo una cultura filosofica (neppure elementare), sento di aver bisogno di riferimenti filosofici che ricerco anche in modo confuso ed eclettico nelle mie ricerche bibliografiche. Ed alcuni concetti, magari avvicinati in modo semplificato e superficiale, entrano a far parte della mia attività culturale.
Io credo che questo abbia a che fare con la mescolanza fra discorsi tecnici e spazio creativo. Mi rendo conto di avere due tipi di attività psichica: una collegata alla razionalità e un’altra – più laterale – in cui mi permetto di dare spazio alla creatività.
Dunque vivo esperienze parziali.
E allora forse questo sogno sta dicendomi qualcosa di molto significativo su come e dove orientare il tempo che resta della mia vita.

Terzo momento: ripresa del sogno

Ed ecco che , in questo momento , del sogno ricordo ancora qualcosa …. Qualcosa ancora sta affiorando … Era lì sopito …  Ma la Reverie lo estrae.

I fatto è che tutti ce ne andiamo da quel luogo terapeutico, ognuno va per conto suo.
Io però poi provo il desiderio di scrivere a ciascuno una lettera, pur rendendomi conto che è una cosa scorretta, in quanto per farlo devo andare ad indagare sugli indirizzi privati delle persone e questo non fa parte della situazione relazionale che avevamo impostato nel gruppo.
A ciascuno dico la mia e più o meno faccio un discorso sull’importanza del “politeismo dei valori”.
Cioè dico  che ciascuno prende dalla vita alcune occasioni,ed in queste occasioni l’importante è valorizzare la soggettività di ciascuno. Nel senso che le esperienze consentono di esprimere la soggettività di ciascuno.
E nella lettera dico che sono contento per l’esistenza di ognuno di loro.
Ma l’esperienza si è conclusa lì.
Il cammino insieme si è concluso.
E se io non ho potuto dire a loro che cosa era avvenuto nell’ esperienza di gruppo che avevo gestito, questo non era un errore mio, ma semmai un problema di progettazione dell’’ attività terapeutica complessiva.
E che bisogna accettare che ci sono delle situazioni nelle quali non si riesce a fare tutto.
E che nonostante questo, io conservavo dentro di me un’immagine di ciascuno molto intensa.
E c’ è anche l’esigenza di provare a cambiare la vita.
Di essere più attivo nel mio progetto esistenziale.
Cioè devo attivamente prendere atto che sono ad un punto del percorso in cui posso accettare le parzialità della mia storia personale e che contemporaneamente devo fare uno sforzo attivo su di me.
E percorrere un’altra strada del bivio.

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In quella notte finiva il mio lungo cammino di analisi, iniziato nel settembre 1978 :mi ricordo … L’APPUNTAMENTO, narrazione dal lontano settembre 1977.

Grazie, Claudio

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mi ricordo che iniziava l’analisi, 14 settembre 1978

 

Massimo Cacciari, sull’angelo

PAUL KLEE, Angelo smemorato
«L’angelo è metafora della capacità della mente di uscire dal cerchio chiuso del nostro orizzonte tridimensionale. L’angelo è rappresentazione. La sua funzione non è tanto quella di rivelare all’uomo ciò che è nascosto, di manifestare l’inattingibile, ma piuttosto di indicare l’inattingibile, di custodirlo.
In Rilke gli angeli appaiono inizialmente sotto una luce di trionfo, ma solo per mettere in risalto la distanza dalla creatura umana. Ma è proprio questa distanza a costringere l’angelo a entrare in rapporto con l’uomo. E’ così che l’angelo si fa sempre più triste. La sua tristezza deriva dal peso che schiaccia l’uomo: il ricordo (die Erinnerung). L’angelo di Rilke è memore della caduta e perciò è oppresso da una tristezza inesorabile. Ed è questa stessa tristezza che lo avvicina all’uomo….
Se si vogliono tenere insieme polarità distinte come parola e silenzio, manifestazione e invisibile, l’angelo è la figura “necessaria” di questa rappresentazione».

MASSIMO CACCIARI, Intervista a Panorama, 9 febbraio 1986

Sulla personalità di LUCIEN GOLDMANN; Alcune note su LUCIEN GOLDMANN; Bibliografia essenziale di LUCIEN GOLDMANN, in Utopia n. 9/10, settembre / ottobre 1971

Paolo Ferrario, La Scarpinata, il mondo visto dalla poesia, in ul Tivan, 10 giugno 1967. Recensione del libro di Marisa Zoni

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alcune domande a MARISA ZONI, intervista di Paolo Ferrario, in La Vasca periodico studentesco n. 1, Como, 1967

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Giuseppe Berto, Il male oscuro, Rizzoli, 1964

Emanuele Severino

Emanuele Severino

Brescia, 1929

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VITA
Nato il 26 gennaio 1929 a Brescia, Emanuele Severino si laurea a Pavia nel 1950 con Gustavo Bontadini, con una tesi su “Heidegger e la metafisica”. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università. Dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989.OPERE
Note sul problematicismo italiano,Brescia, 1950; La struttura originaria (1957), Milano, 1981;Studi di filosofiadella prassi(1962), Milano, 1984;Essenza del nichilismo, Milano, 1972;Gli abitatori del tempo,Roma , 1978;Legge e caso, Milano, 1979;Techne. Le radici della violenza,Milano, 1979;Destino della necessità, Milano, 1980;A Cesare e a Dio,Milano, 1983La strada,Milano, 1983;La filosofia antica,Milano, 1985;La filosofia moderna,Milano, 1985;Il parricidio mancato,Milano, 1985;La filosofia contemporanea,Milano, 1988;Il giogo, Milano, 1989;La filosofia futura,Milano, 1989;Alle origini della ragione:Eschilo, Milano, 1989;Antologia filosofica, Milano, 1989;Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 1990;La guerra, Milano, 1992;Oltre il linguaggio,Milano, 1992;Tautotes, Adelphi, Milano, l995.

PENSIERO
A partire da Platone una “cosa” è ciò che si mantiene in un provvisorio equilibrio tra essere e non essere. Questa “fede nel divenire” implica che
l’ “ente” sia un niente, quando non è ancora nato o non è più. E’ questa, per Severino, la “follia” dell’Occidente, il “sentiero della notte”, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’angoscia del divenire, l’Occidente, rispondendo a quella che Severino chiama la “logica del rimedio”, ha evocato gli “immutabili” (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica sarebbe il modo in cui oggi domina il senso greco della “cosa”. All’inizio della nostra civiltà Dio – il Primo Tecnico – crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica – ultimo dio – ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia del divenire innanzitutto perché crede che il divenire esista.


Contributi dell’autore all’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche:

Trasmissioni

Articoli

Aforismi

Interviste

da: Emanuele Severino.

Vladimir Majakovskij, Gente che non ho mai visto: Mussolini, 1923 (trovata nel libro: Metrica dei giorni, poesie per un anno, Palomar edizioni, 1999, pagina 531)

Ovunque si getti lo sguardo, i giornali
son pieni
              del nome di Mussolini.
A quelli che non l’hanno mai visto
                                                   lo descrivo io, Mussolini.
Punto per punto,
                         tratto per tratto.
Genitori di Mussolini,
                                 non sforzatevi di criticarmi!
Non gli somiglia?
                           La copia più esatta
                                                       è la sua politica.
Mussolini
               ha un orribile
                                    aspetto.
Nude le estremità,
                            nera la camicia,
sulle braccia
                   e sulle gambe
                                        migliaia
di peli
         a ciuffi.
Le braccia
                arrivano ai calcagni
                                              e scopano per terra.
Nell’insieme
                   Mussolini
                                  ha l’aspetto di scimpanzé
Non ha faccia :
                       al suo posto
ha un enorme
                     marchio da brigante.
Quante narici
                     ha ogni uomo!
                                           È inutile!
Mussolini
               in tutto,
                           ne ha una sola,
e anche questa
                      gli è stata spaccata
                                                   esattamente in due
alla spartizione
                        del bottino.

….

vai alla intera poesia:

https://incidenze.blogspot.com/2012/10/gente-che-non-ho-mai-visto-mussolini-di.html

Biografia di Emanuele Severino (1929-2020)

Emanuele Severino è stato un influente filosofo italiano, nato a Brescia il 26 febbraio 1929 e scomparso nella stessa città il 17 gennaio 2020. La sua opera ha avuto un impatto significativo sulla filosofia contemporanea, in particolare per la sua critica al nichilismo e la sua proposta di un ritorno alla concezione dell’essere, ispirata ai presocratici, in particolare a Parmenide.

Formazione e carriera accademica

Severino si laureò in Filosofia all’Università di Pavia nel 1948, discutendo una tesi su Heidegger sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Filosofia teoretica nel 1950, iniziò la sua carriera accademica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1954. Qui divenne professore ordinario di Filosofia morale nel 1962 e pubblicò opere significative come Studi di filosofia della prassi (1962) e Ritornare a Parmenide (1964) [1][3][7].

Nel 1970, Severino si trasferì all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove contribuì alla fondazione della facoltà di lettere e filosofia. Rimase attivo in questa istituzione fino al 2001, quando divenne professore emerito. Durante il suo incarico, Severino ha diretto l’Istituto di Filosofia e ha insegnato vari corsi, inclusi logica e storia della filosofia [4][5][7].

Pensiero filosofico

Il pensiero di Severino è caratterizzato da una profonda riflessione sul concetto di essere. Egli sostiene che la storia della filosofia occidentale è segnata dal nichilismo, poiché molte correnti filosofiche tendono a ridurre l’essere al nulla. Per superare questa crisi, Severino propone un ritorno alla concezione dell’essere come immutabile e eterno, contrapposta all’idea del divenire [1][2][7].

Severino ha anche esplorato le implicazioni del suo pensiero per la tecnica e la società contemporanea, criticando il modo in cui il pensiero moderno affronta la questione dell’essere. Le sue opere principali includono titoli come Essenza del nichilismo (1972), La struttura originaria (1958) e Il destino della tecnica (2009), che riflettono la sua visione critica della tradizione metafisica [1][2][3].

Riconoscimenti e eredità

Severino è stato nominato Accademico dei Lincei nel 1994 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo contributo alla filosofia. Ha collaborato con importanti pubblicazioni italiane come il Corriere della Sera. La sua influenza si estende anche attraverso i suoi allievi e le generazioni successive di filosofi che hanno continuato ad esplorare i temi da lui introdotti [2][5][7].

In sintesi, Emanuele Severino rappresenta una figura centrale nella filosofia italiana del XX secolo, noto per le sue profonde analisi sull’essere e per la critica al nichilismo che permea gran parte della tradizione filosofica occidentale.

Citations:
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-severino/
[2] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2020/02/Emanuele-Severino-e-Gianni-Vattimo-In-cammino-verso-il-nulla–0930282d-897b-4310-8a53-b847c8ac5d24.html
[3] https://www.casadellacultura.it/1022/emanuele-severino-nel-ricordo-di-galimberti
[4] https://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4fca90dc08db4
[5] https://www.unive.it/pag/14024/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=8425
[6] https://www.vitaepensiero.it/scheda-articolo_digital/emanuele-severino/la-struttura-dellessere-001050_1950_05-6_43067002-378676.html
[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[8] http://www.filosofia.it/archivio/images/download/argomenti/SguardosuSeverino_Miligi_Torno_07.pdf
[9] https://www.emanueleseverino.it/biografia/

Emanuele Severino ha scritto numerose opere fondamentali che hanno influenzato profondamente la filosofia contemporanea. Di seguito sono elencate alcune delle sue principali opere:

Opere principali

  • La struttura originaria (1958): Un testo fondamentale che esplora il concetto di essere e la sua relazione con il pensiero.
  • Essenza del nichilismo (1972): In questo libro, Severino analizza il nichilismo e la sua influenza sulla cultura occidentale.
  • Il destino della tecnica (1988): Un’opera che discute le implicazioni filosofiche e sociali della tecnica nella vita contemporanea.
  • Il nulla e la poesia (1990): Un saggio che riflette sul tema del nulla in relazione all’arte poetica.
  • La filosofia dai Greci al nostro tempo (diverse edizioni): Un’opera che esamina l’evoluzione del pensiero filosofico dall’antichità fino ai giorni nostri.
  • Fondamento della contraddizione (2004): Un’analisi approfondita del principio di non contraddizione nella filosofia.
  • Antologia filosofica. Dai greci al nostro tempo (2006): Una raccolta delle opere più significative dei filosofi occidentali.
  • La gloria (2001): Un’opera che esplora il concetto di gloria attraverso una lente filosofica.

Tematiche trattate

Le opere di Severino affrontano temi come:

  • L’essere e il divenire
  • Il nichilismo
  • La tecnica e la sua influenza sulla società
  • La verità e la sua natura storica
  • La relazione tra poesia e nulla

Severino è noto per la sua capacità di affrontare questioni complesse con uno stile rigoroso e una profonda conoscenza della tradizione filosofica, rendendo le sue opere accessibili sia a studiosi che a lettori interessati.

Citations:
[1] https://librerie.unicatt.it/libri-autore/emanuele-severino.html
[2] https://www.larivistadeilibri.it/emanuele-severino/
[3] https://www.adelphi.it/catalogo/autore/941/emanuele-severino
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[7] https://www.lafeltrinelli.it/libri/autori/emanuele-severino
[8] https://www.mimesisedizioni.it/catalogo/autore/3900/emanuele-severino

Le opere di Emanuele Severino affrontano diversi temi centrali della filosofia, con un focus particolare sull’essere, il nichilismo e la condizione umana. Ecco un riepilogo dei principali temi trattati:

Temi principali

1. L’essere e la sua eternità

Severino pone al centro del suo pensiero la questione dell’essere, sostenendo che ogni ente è eterno e immutabile. Questa tesi è espressa in opere come La struttura originaria e Ritornare a Parmenide, dove afferma che l’essere non può mai diventare nulla, e quindi ogni essente esiste eternamente, indipendentemente dalla sua apparizione o scomparsa[1][2].

2. Critica al nichilismo

Severino analizza il nichilismo come una delle principali problematiche della filosofia occidentale, ritenendo che molte tradizioni filosofiche abbiano erroneamente accettato l’idea che l’essere possa divenire nulla. La sua critica si estende a diverse correnti di pensiero che, secondo lui, hanno contribuito a questa visione decadente della realtà[1][3].

3. Il divenire e l’illusorietà del cambiamento

Contrariamente alla concezione tradizionale del divenire come elemento fondamentale della realtà, Severino sostiene che il cambiamento è illusorio. Ogni ente, anche se appare in forme diverse nel tempo, rimane eternamente ciò che è. Questa idea si riflette nella sua metafora del “cerchio dell’apparire”, dove gli enti entrano ed escono dalla vista ma non dalla loro esistenza[1][2].

4. La condizione umana

Severino esplora anche la condizione dell’uomo nel contesto della verità e dell’errore. Sottolinea come l’uomo sia conteso tra la consapevolezza della propria mortalità e la verità dell’essere eterno. La sua filosofia invita a superare la percezione di caducità per riconoscere l’eternità intrinseca di ogni ente[2][5].

5. Riflessioni sulla tecnica e sulla società

Severino critica sia il capitalismo che il comunismo, vedendoli come espressioni di una “vita inautentica” dominata dalla tecnica. Egli avverte dei pericoli insiti in una società che perde di vista il significato profondo dell’essere a favore di un’esistenza superficiale e tecnocratica[1][3].

In sintesi, le opere di Emanuele Severino si concentrano su una visione filosofica radicale che sfida le convenzioni tradizionali riguardo all’essere, al cambiamento e alla condizione umana, proponendo una riflessione profonda sull’eternità e sull’illusorietà del divenire.

Citations:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[2] https://www.pandorarivista.it/articoli/emanuele-severino-filosofia-e-destino-occidente/
[3] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[4] https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-i/
[5] https://www.lelettere.it/blog/41/emanuele-severino-leternita-di-tutte-le-cose

Emanuele Severino interpreta il concetto di “dominio della tecnica” come un fenomeno centrale nella civiltà contemporanea, riflettendo sulla sua profonda influenza sulla condizione umana e sulla filosofia occidentale. Ecco i punti chiave della sua interpretazione:

1. La tecnica come espressione della volontà di potenza

Severino considera la tecnica non solo come un insieme di strumenti, ma come un’espressione della volontà umana di dominare e trasformare la realtà. In questo contesto, la tecnica diventa il principale mezzo attraverso cui l’umanità cerca di affermare il proprio potere sul mondo, ma al contempo rappresenta una perdita di controllo, poiché l’uomo finisce per diventare schiavo della propria creazione[1][5].

2. La tecnica e il nichilismo

Secondo Severino, il dominio della tecnica è intrinsecamente legato al nichilismo, che egli definisce come la grande contraddizione che muove l’Occidente. Questo nichilismo si manifesta nella convinzione che gli enti oscillino tra l’essere e il non essere, portando a una visione del mondo in cui la tecnica diventa l’unico principio di riferimento per l’agire umano. La tecnica, quindi, è vista come il culmine della fede nel divenire, un’idea che Severino critica profondamente[2][3].

3. La tecnica come destino dell’umanità

Severino sostiene che la tecnica ha assunto un ruolo così predominante da diventare il vero destino dell’umanità. Essa non è più semplicemente un mezzo per raggiungere fini, ma è diventata un fine in sé, trasformando radicalmente l’essenza dell’agire umano. Questo cambiamento implica che l’umanità non riesca a concepire un’esistenza al di fuori della dimensione tecnica[1][4].

4. Critica alla tradizione filosofica

Severino critica la tradizione filosofica occidentale per aver abbandonato l’essere parmenideo a favore del divenire, generando così una crisi esistenziale e una nostalgia per l’essere. In questo contesto, la tecnica rappresenta una risposta alla paura del nulla e all’angoscia del divenire, ma anche una forma di alienazione[5][6].

5. Impossibilità di limitazioni

Infine, Severino avverte che la tecnica avanza senza incontrare limiti invalicabili, liberata dalla filosofia contemporanea che le consente di procedere all’infinito. Questo aspetto solleva interrogativi etici e filosofici riguardo al futuro dell’umanità e alla direzione in cui ci sta portando il dominio della tecnica[3][5].

In sintesi, per Severino, il dominio della tecnica è una manifestazione complessa della condizione umana contemporanea, caratterizzata da una tensione tra desiderio di controllo e perdita di libertà, con profonde implicazioni filosofiche e sociali.

Citations:
[1] https://www.npensieri.it/approfondimenti/filosofia/filosofi/filosofia-contemporanea/domande-e-risposte-su-emanuele-severino/
[2] http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/5860/844768-1180261.pdf?sequence=2
[3] https://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/1185/1138/2152
[4] https://emanueleseverino.com/2021/02/16/il-pensiero-severino-come-egli-stesso-ricorda-in-unintervista-rammenta-quando-formulo-le-sue-idee-per-la-prima-volta-quelle-idee-destinate-a-suscitare-cosi-tanto-stupore-aveva-ventitre-anni/
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.docsity.com/it/docs/il-destino-della-tecnica-emanuele-severino-riassunti/5084305/
[7] https://www.ousia.it/content/Sezioni/Temi/Tesi/NichilismoTechnePoesia.doc

Citazioni sul tempo in Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti italiani, ha riflettuto profondamente sul tema del tempo e della sua fugacità. Le sue opere esprimono un’intensa consapevolezza della transitorietà della vita e dell’inevitabilità del passare del tempo. Ecco alcune citazioni significative che illustrano il suo pensiero:

Citazioni sul Tempo

  • Fugacità della vita: In “A Silvia”, Leopardi scrive:

“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi?”
Questi versi evocano la bellezza e la gioventù, sottolineando come il tempo porti via le speranze e le illusioni giovanili[1].

  • Riflessione sulla giovinezza: Nella poesia “Alla luna”, Leopardi afferma:

“Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso.”
Qui si evidenzia la dolcezza della giovinezza, contrapposta alla tristezza che il passare del tempo porta con sé[4].

  • La percezione del tempo: Leopardi osserva:

“Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d’averne che basti; quanto più se ne getta, tanto par che n’avanzi.”
Questa riflessione mette in luce la nostra relazione complessa con il tempo: più lo consideriamo prezioso, più ci sembra di non averne mai abbastanza[5].

  • Malinconia e speranza: In uno dei suoi pensieri, Leopardi scrive:

“Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura.”
Qui il poeta suggerisce che la consapevolezza del dolore e della fugacità del tempo può portare a una forma di malinconia profonda[2].

Riflessioni sul Tempo

Leopardi non solo descrive il passare del tempo, ma esplora anche le emozioni e le esperienze umane ad esso collegate. La sua poesia spesso riflette una tensione tra speranza e disperazione, evidenziando come la bellezza della vita sia sempre accompagnata dalla consapevolezza della sua brevità. La malinconia diventa un tema centrale nella sua opera, rappresentando un modo per affrontare l’inevitabile scorrere del tempo.

In sintesi, Leopardi ci invita a riflettere su come viviamo il nostro tempo, sull’importanza dei ricordi e sulla necessità di abbracciare sia la gioia che il dolore che esso porta con sé.

Citations:
[1] https://libreriamo.it/frasi/frase-giacomo-leopardi-fugacita-vita/
[2] https://www.frasicelebri.it/frasi-di/giacomo-leopardi/
[3] https://www.ilcuoredelmondonellarte.it/giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-malinconia/?doing_wp_cron=1732995124.4357669353485107421875
[4] https://www.frasicelebri.it/frase/giacomo-leopardi-oh-come-grato-occorre-nel-tempo-g/
[5] https://sapere.virgilio.it/aforismi/autori/giacomo-leopardi

Marco Aurelio, nato il 26 aprile 121 d.C. a Roma

Marco Aurelio, noto come “l’imperatore filosofo”, è una figura centrale nella storia romana e nella filosofia stoica. Nato il 26 aprile 121 d.C. a Roma, da Marco Annio Vero e Domizia Lucilla, mostrò fin da giovane un forte interesse per la filosofia, in particolare per lo stoicismo, che abbracciò nel 133 d.C.[1][2].

Formazione e ascesa al potere

Marco Aurelio ricevette un’educazione completa, studiando lettere latine e greche, giurisprudenza ed eloquenza sotto la guida di Frontone. Fu adottato dall’imperatore Antonino Pio nel 138 d.C., diventando suo successore designato[2][5]. Sposò Faustina, figlia di Antonino Pio, e insieme ebbero tredici figli[3][4]. Divenne imperatore nel 161 d.C., condividendo il potere con il suo fratello adottivo Lucio Vero[1][5].

Regno e sfide

Il regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.) fu segnato da numerose difficoltà. Nonostante la sua inclinazione pacifista, dovette affrontare conflitti militari significativi contro le tribù germaniche, come i Quadi e i Marcomanni, che minacciavano i confini dell’Impero[1][4]. Durante il suo governo, Marco Aurelio condusse ben diciassette campagne militari e si trovò a fronteggiare anche una grave epidemia di peste che decimò le sue truppe[2][6].

Marco Aurelio si distinse per la sua umanità e il suo approccio etico alla leadership. Non perseguitò i cristiani, seguendo una politica di tolleranza simile a quella del suo predecessore Traiano. Inoltre, si preoccupò delle condizioni degli schiavi e rinunciò ai lussi personali per affrontare le crisi economiche dell’epoca[1][3].

Opere filosofiche

Oltre alle sue responsabilità politiche e militari, Marco Aurelio è conosciuto per le sue opere filosofiche, in particolare per i “Pensieri”, una raccolta di riflessioni personali che esprimono la sua visione stoica della vita e della virtù. Questi scritti sono considerati tra i testi fondamentali della filosofia occidentale[4][5].

Morte e eredità

Morì il 17 marzo 180 d.C., probabilmente a causa di una peste contratta durante una campagna militare. Gli succedette il suo figlio Commodo, segnando la fine del periodo noto come “l’epoca dei cinque buoni imperatori”[1][2]. Marco Aurelio rimane un simbolo di saggezza e leadership morale, influenzando pensatori e leader attraverso i secoli con il suo esempio di governante giusto e riflessivo.

Citations:
[1] https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2022/02/Marco-Aurelio-un-intellettuale-al-potere-88954158-6bb8-47d8-a3a5-2b12cf2ceba7.html
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-aurelio/
[3] https://www.domusweb.it/it/arte/2024/04/24/marco-aurelio-un-imperatore-filosofo.html
[4] https://www.skuola.net/storia-antica/imperatore-marco-aurelio.html
[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Aurelio
[6] https://www.romanoimpero.com/2009/07/marco-aurelio-161-180.html

Lucio Anneo Seneca, noto anche come Seneca il Giovane, nacque intorno al 4 a.C.

Lucio Anneo Seneca, noto anche come Seneca il Giovane, nacque intorno al 4 a.C. a Cordova, in Spagna, da una famiglia di rango equestre. Suo padre, Seneca il Vecchio, era un rinomato retore e filosofo. Seneca si trasferì a Roma per completare la sua educazione in retorica e filosofia, dove si distinse per le sue doti oratorie[1][2][6].

Carriera Politica e Esilio

Seneca iniziò la sua carriera politica nel 31 d.C., diventando questore e poi senatore. Tuttavia, la sua ascesa fu segnata da conflitti con gli imperatori romani. Nel 39 d.C., sotto Caligola, fu condannato a morte ma scampò grazie all’intervento di un’amante dell’imperatore che lo fece passare per moribondo[3][6]. Nel 41 d.C., fu accusato di adulterio e relegato in Corsica, dove scrisse opere significative come la “Consolatio ad Helvium” e “De Brevitate Vitae” durante il suo esilio[1][5].

Nel 49 d.C., grazie all’influenza di Agrippina, madre di Nerone, Seneca tornò a Roma e divenne tutore del giovane imperatore. Durante i primi anni del regno di Nerone (54-59 d.C.), Seneca esercitò una notevole influenza, contribuendo a quello che è conosciuto come il “quinquennio felice”, un periodo caratterizzato da un governo relativamente saggio[2][5][8].

Ritiro e Morte

Tuttavia, con il passare del tempo, il rapporto tra Seneca e Nerone si deteriorò. Nel 62 d.C., sentendosi minacciato dalla crescente ostilità dell’imperatore e dalla perdita della sua influenza, Seneca si ritirò dalla vita pubblica per dedicarsi alla filosofia e alla scrittura[4][6]. Nel 65 d.C., fu coinvolto nella congiura dei Pisoni contro Nerone; l’imperatore ordinò il suo suicidio. Seneca accettò il suo destino con la dignità che caratterizzava il suo pensiero stoico[3][5][7].

Opere e Pensiero

Seneca è celebre non solo per la sua carriera politica ma anche per le sue opere filosofiche e drammaturgiche. Tra i suoi scritti più noti vi sono le “Lettere a Lucilio”, che trattano temi etici e morali, esprimendo i principi dello stoicismo. La sua scrittura è caratterizzata da uno stile incisivo e riflessivo, che ha influenzato profondamente la filosofia occidentale[6][8].

In sintesi, Lucio Anneo Seneca rappresenta una figura centrale nella storia della filosofia romana e della letteratura, simbolo di un’epoca complessa segnata da potere, conflitti personali e profonde riflessioni morali.

Citations:
[1] https://library.weschool.com/lezione/seneca-biografia-de-clementia-consolatio-ad-helviam-matrem-consolatio-polybium-stoicismo-22008.html
[2] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-imperiale/seneca-biografia124539x.html
[3] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-imperiale/seneca-vita-pensiero-opere.html
[4] http://www2.classics.unibo.it/Didattica/LatBC/SenOtioIntro.pdf
[5] https://www.teche.rai.it/2021/05/vita-pensiero-seneca/
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca
[7] https://www.scuolafilosofica.com/3359/seneca
[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/lucio-anneo-seneca/

Epitteto, filosofo greco, nato a Ierapoli (oggi Pamukkale, Turchia) intorno al 50 d.C

Epitteto è stato un importante filosofo greco, esponente dello stoicismo, nato a Ierapoli (oggi Pamukkale, Turchia) intorno al 50 d.C.

La sua vita è segnata da esperienze di schiavitù e successiva emancipazione, che hanno influenzato profondamente il suo pensiero filosofico.

Gioventù e schiavitù

Epitteto nacque in una famiglia di schiavi e fu acquistato da Epafrodito, un liberto di Nerone. Durante la sua giovinezza, Epafrodito gli permise di seguire le lezioni del filosofo stoico Musonio Rufo a Roma[1][2]. Nonostante la sua condizione di schiavo, Epitteto si distinse per la sua intelligenza e integrità morale. Viene descritto come una persona di salute cagionevole e si dice che fosse zoppo[6][7].

Carriera filosofica

Dopo essere stato affrancato, Epitteto iniziò a insegnare filosofia a Roma. Tuttavia, nel 93 d.C., l’imperatore Domiziano emanò un editto che espelleva i filosofi dalla città, costringendolo a trasferirsi a Nicopoli, in Epiro. Qui fondò una scuola che divenne molto popolare e influente[1][3][4]. Tra i suoi allievi più noti vi fu Arriano, che raccolse e pubblicò gli insegnamenti di Epitteto in opere come le Diatribe e il Manuale (o Enchiridion), che sintetizzano il suo pensiero stoico[2][5].

Pensiero e opere

Epitteto non scrisse opere originali; le sue idee ci sono pervenute attraverso gli appunti di Arriano.

La sua filosofia si concentra sull’etica e sulla pratica della virtù piuttosto che sulla speculazione teorica. Sosteneva che la felicità derivasse dalla capacità di distinguere tra ciò che dipende da noi e ciò che non lo fa, enfatizzando l’importanza dell’autocontrollo e della libertà interiore[1][3][4].

La sua visione stoica si caratterizza per un distacco dalle passioni e dall’attaccamento ai beni materiali, promuovendo invece un’esistenza conforme alla natura e alla ragione[2][6].

Epitteto ha avuto un’influenza duratura su pensatori successivi, inclusi Marco Aurelio e il cristianesimo stesso[4][7].

Morte

Epitteto morì intorno al 135 d.C., lasciando un’eredità filosofica che continua a essere studiata e apprezzata fino ai giorni nostri[1][3].

La sua vita e le sue opere rappresentano un ponte tra il pensiero stoico antico e le correnti filosofiche successive.

Citations:
[1] https://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_secondo/greco/schede_sonnino/autori/epitteto.html
[2] https://liberliber.it/autori/autori-e/epictetus-epitteto/
[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/epitteto/
[4] https://acciobooks.com/authors/epitteto
[5] https://www.scuolafilosofica.com/628/epitteto
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Epitteto
[7] https://www.sololibri.net/Epitteto-vita-opere-analisi-Manuale.html

Orazio, poeta romano, nato l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa

Orazio, il cui nome completo è Quinto Orazio Flacco, è stato un illustre poeta romano, nato l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, una colonia romana situata nell’attuale Basilicata. Figlio di un liberto che divenne esattore delle tasse, Orazio crebbe in una condizione economica relativamente agiata, che gli permise di ricevere un’ottima educazione[1][3][6].

Formazione e Carriera Militare

Dopo aver completato i suoi studi a Roma, Orazio si trasferì ad Atene per approfondire la filosofia e la poesia greca. Durante questo periodo, si arruolò nell’esercito di Bruto per combattere contro le forze di Ottaviano nella battaglia di Filippi nel 42 a.C., dove il suo schieramento subì una pesante sconfitta. Dopo la battaglia, Orazio tornò in Italia grazie a un’amnistia, ma scoprì che il podere paterno era stato confiscato[2][3][4][6].

Inizio della Carriera Poetica

Costretto a cercare un impiego, Orazio divenne segretario di un questore e iniziò a scrivere poesie. La sua carriera poetica decollò quando nel 38 a.C. fu presentato a Mecenate da Virgilio e Vario. Grazie al supporto di Mecenate, Orazio poté dedicarsi completamente alla scrittura[1][3][4][6].

Opere e Temi

Le sue opere più significative includono le Satire, gli Epodi e le Odi.

Le Satire riflettono una critica sociale e morale della sua epoca, mentre le Odi esprimono temi di bellezza, amore e natura, con celebri espressioni come “Carpe Diem” e “Hic et nunc” che invitano a vivere il presente[2][3][4].

Orazio è noto per il suo concetto di aurea mediocritas, che promuove un equilibrio tra gli estremi della vita.

Ultimi Anni e Eredità

Orazio ricevette da Mecenate un piccolo possedimento in Sabina nel 33 a.C., dove trascorse gran parte della sua vita in tranquillità, lontano dalla frenesia di Roma. Morì nel 8 a.C., lasciando un’eredità duratura nella letteratura latina e influenzando generazioni di poeti successivi con il suo stile lirico e i suoi temi universali[1][3][4][6].

La figura di Orazio è quindi emblematica non solo della letteratura romana, ma anche della cultura dell’epoca augustea, rappresentando un ponte tra la tradizione greca e quella latina.

Citations:
[1] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-biografia-opere.html
[2] https://knowunity.it/knows/latino-orazio-6e46154a-ad79-4b6c-9e03-2858c00baf66
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Quinto_Orazio_Flacco
[4] https://sapere.virgilio.it/scuola/superiori/letteratura-storia-filosofia/letteratura-romana/orazio-vita-e-opere-del-poeta-romano
[5] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-vita-opere.html
[6] https://www.sololibri.net/orazio-vita-opere-pensiero.html
[7] https://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/letteratura-latina/augusto/orazio/La-vita.html
[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/quinto-orazio-flacco_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/