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Dall’autobiografia di Teresa di Gesù Bambino
«Ero un carattere gaio ma non sapevo lanciarmi nei giochi dell’età mia; spesso durante la ricreazione mi appoggiavo ad un albero e da là contemplavo il colpo d’occhio, abbandonandomi a riflessioni serie!» (Manoscritto A, 115).
Questo brano è una splendida immagine della dote manifestata da Maria al banchetto di Cana.
Nel racconto evangelico, tutti hanno qualcosa da fare: chi nella cucina, chi al servizio, chi agli strumenti musicali. Soltanto Maria vede l’insieme, ha il colpo d’occhio e capisce che cosa di essenziale sta succedendo e che cosa di essenziale sta mancando: “Non hanno più vino”. Cardinale Carlo Maria Martini
Più di una volta mi sono trovata a leggere:
”La sinossi dei Vangeli è uno sguardo d’insieme o parallelo dei vangeli. Da sùnopsis, “colpo d’occhio” cioè avere la possibilità di guardare la corrispondenza dei passi in uno stesso tempo. Qualora si mettessero i primi tre vangeli in parallelo, con un solo colpo d’occhio, si noterebbe che hanno delle grandi affinità. La sinossi, quindi, è uno sguardo contemporaneo, sincronico, del materiale evangelico.”
Tra i sentieri della sincronicità, allora, da anni ne intuisco uno che mi rimanda ad un atteggiamento di fronte alla vita di “sincronizzazione” con il mondo.
La sincronizzazione ha il suo proprio ritmo. In ciascuna vita c’è un tempo per ogni cosa. Il processo di sincronizzazione non può essere forzato: esso deve essere colto con fluida grazia, un passo alla volta. Questo è l’inizio della saggezza.
Dice Carl Gustav Jung che “La nostra psiche è costituita in armonia con la struttura dell’universo, e ciò che accade nel macrocosmo accade egualmente negli infinitesimi e più soggettivi recessi dell’anima.”
“Una definizione filosofica elementare dice che la saggezza consiste nel “fare il miglior uso possibile della conoscenza che si ha a disposizione”. Una decisione saggia, ad esempio, va presa anche quando le informazioni a disposizione sono incomplete. Pertanto, per poter agire saggiamente, bisogna essere capaci di intra-vedere al meglio.
Molte autorità e governi moderni, nonché religioni ed etiche, affermano che la saggezza richiede una “prospettiva illuminata”.
Le azioni e le intuizioni che sono considerate dai più come sagge tendono a:
• innalzarsi al di sopra di un singolo punto di vista, aspirando ad un modo di essere che sia compatibile con più di un sistema etico;
• aver cura della vita, del bene pubblico e degli altri valori impersonali, senza anteporre loro il proprio ristretto interesse personale;
• avere una solida conoscenza dell’esperienza del passato (senza per questo essere incapaci di svincolarsene), ed essere al contempo in grado di anticipare le probabili conseguenze future di certe azioni;
• non prestare ascolto solo alla voce dell’intelligenza, – ma anche a quella dell’intuizione, del sentimento, dello spirito, etc.
Tradizionalmente, la saggezza è collegata alla virtù. È tautologico affermare che chi è saggio è anche virtuoso. Le virtù più spesso associate alla saggezza sono l’umiltà, la compassione, la temperanza, la carità, la tolleranza e la mancanza di presunzione.
Alcuni sostengono che il più universale (ed il più utile) significato del termine saggezza sia quello di essere in grado di vivere stando bene insieme agli altri. In questa prospettiva, il saggio è colui che è in grado di mostrare agli altri la pochezza delle cose del mondo e l’intrinseca interconnessione di ogni cosa ad ogni altra.
Colloquialmente, si considera la saggezza come una qualità che sopraggiunge con l’avanzare dell’età.” Da: Wikipedia
I sentieri che hanno un cuore, allora, intersecano talvolta, quasi per caso, la via maestra del pensiero razionale, ma quando questo accade, quando la nostra testa e il nostro cuore si muovono all’unisono, sembrano verificarsi condizioni particolari, la cui caratteristica è di infrangere ogni nostra aspettativa e di essere a-logiche, a-temporali, a-scientifiche ma, nondimeno, perfettamente reali.
Allora mi sembra di intuire che anche noi possiamo avere un approccio alla vita di tipo sincronico e/o diacronico, un approccio che “aiuta” la sincronicità.
“Sincronicità è un termine introdotto da Carl Jung nel 1950 per descrivere una connessione fra eventi, psichici o oggettivi, che avvengono in modo sincrono, cioè nello stesso tempo, e tra i quali non vi è una relazione di causa-effetto ma una evidente comunanza di significato. La sincronicità è relativa quindi alle “coincidenze significative” (da Wikipedia)
Una sfaccettatura della sincronicità, allora, potrebbe essere un approccio sincronico che è quel colpo d’occhio che permette di intuire immediatamente la struttura di fondo di tutta una serie d’eventi.
Lo sguardo diacronico, invece, è lo sguardo “solito”, che permette di dare un giudizio soltanto dopo che è stata esaurita la conoscenza dei fatti particolari.
La parola “sincronico” deriva dal greco “sin-kronos”. “Sin” vuol dire “insieme”, “kronos” vuol dire “nel tempo”. “Diacronico” – “dia-kronos” – vuol dire “attraverso il tempo”.
Chi è esperto di musica sa che questa è fatta di tre elementi: il tempo, la melodia e l’armonia.
La melodia è diacronica, lo sviluppo di una nota melodica; l’armonia è sincronica, una nota sull’altra. Il tempo è la struttura di base che permette all’armonia e alla melodia di stare insieme.
Solo uno sguardo sincronico consente di cogliere stadi di coesistenza o di sovrapposizione.
Pensieri correlati
Diacronia / sincronia
Da: Dizionario di storiografia
“Termini derivati dalla linguistica strutturale di F. de Saussure. La sincronia (estensione nello Spazio) è compresenza acronica delle relazioni strutturali che compongono la langue; la diacronia (estensione nel Tempo) è la successione temporale degli stati del sistema linguistico. L’analisi storico-critica (R. Engler, T. De Mauro) ha dimostrato che esistono in Saussure vari significati dei due termini. Si può affermare però che solo la langue (sistema dei mezzi linguistici, superindividuale e trascendente, sincronia fuori dal tempo) è oggetto di scienza, e che nel campo della diacronia non c’è vera conoscenza. Il cambiamento linguistico è infatti per Saussure la sostituzione di uno stato sincronico con un altro stato sincronico. L’opera storiografica di A. Meillet, allievo di Saussure, ha mostrato la relazione tra sincronia linguistica e organizzazione sociale, cercando di formulare una teoria del sistema linguistico che renda conto della diacronia e del mutamentoindividuale. La teoria della lingua s’interseca in Meillet con la sociologia di E. Durkheim, e si ricongiunge ai problemi della conoscenza storica (per esempio in M. Bloch).”
“Il pensiero sincronico può essere definito un “pensiero di campo”, al cui centro si trova un tempo periodico, infinito e immaginario, a forte valenza affettiva. Un tempo d’anima. E’ da questo centro che scaturisce il kairòs, il tempo debito. Il pensiero causale è, per così dire, lineare, e procede secondo una concezione del tempo sequenziale e relativistica. Questi due tempi, sincronico e causale, sono per noi i poli estremi e complementari (di cui il primo, però, dev’essere considerato centrale anche al secondo) di un unico asse temporale su cui si declina il simbolico nel suo farsi ineffabile esperienza di vita, sospesa tra tempo sacro e profano. Tra i due, c’è una serie infinita di stadi intermedi in cui le due modalità si combinano tra di loro.
Sono quindi da considerarsi sincronici, oltre i tre tipi elencati, anche gli imprevisti, gli incidenti, le malattie e le guarigioni, le perdite e i ritrovamenti, gli incontri e gli scontri, le guerre e la pace, gli eventi sociali e naturali, la fortuna e la sfortuna, le nascite e le morti, le mutazioni, le invenzioni, persino le scoperte scientifiche, i sogni e, naturalmente, evento degli eventi, l’amore. Come vedete, la vita stessa, nel suo complesso, può essere concepita come un immenso flusso, continuo e ininterrotto, di eventi sincronici.
La sincronicità si ha allora quando l’anima dell’uno mostra la sua stretta e intima interconnessione, patica (sia nel verso sin che anti), con l’anima dell’altro, ed entrambe con l’anima del mondo.”
Da: Baldo Lami, Le sincronicità: neppure il caso viene a caso!
“La cultura della improvvisazione nell’attimo presente è lo sguardo che occorre”. Paolo Ferrario parlando di Jazz.
“Guardare” significa anzitutto badare, sorvegliare, custodire, e fare attenzione. Avere cura e preoccuparsi. Guardando veglio e (mi) sorveglio: sono in rapporto con il mondo, non con l’oggetto. Ed è così che io “sono”: nel vedere mi vedo.. ; nello sguardo sono messo in gioco. Non posso guardare senza che ciò mi riguardi. […] Così tutto il volto diventa un occhio…
“
In: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo
“Noi non vediamo l’occhio umano come un ricettore. Quando vedi l’occhio vedi qualcosa uscirne. Vedi lo sguardo dell’occhio”. In: L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, Adelphi
“Lo sguardo è la cosa che esce, la cosa dell’uscita – e per essere più precisi: lo sguardo non è niente di fenomenico, al contrario è la cosa in sé di un’uscita da sé, solo con la quale un soggetto diventa soggetto, e la cosa in sé dell’uscita o dell’apertura non è uno sguardo su un oggetto ma l’apertura verso un mondo. In verità, non è più affatto uno sguardo-su, è uno sguardo tout-court, aperto non su ma dall’evidenza del mondo.” In: Jean-Luc Nancy, Il ritratto e il suo sguardo
Filmografia
– Il favoloso mondo di Amélie
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Ha pubblicato racconti, favole e poesie:
“Il linguaggio dei sogni”, (Genova, 1994) con la Nuova Editrice Genovese;
“Stelle d’Igea”, favole ispirate ad un sogno (Genova, 1994);
“Scacco matto alla ragione – La strada di San Diego – due racconti e 11 poesie” (Genova, 1994);
“Ti amo – Dalla dialettica al dialogo” (Genova, 1994);
“Luce bianca nel sentiero” (Genova, 1994) con la Silver Press;
“Senza Traccia” (Genova, 1995),
“Il fiore del gelsomino” (Genova, 2007),
“La strada Bianca” (Genova, 2007),
“Quell’Aprile antico” (Genova, 2007),
“L’infinito e il suo sogno” (Genova, 2007),
“Nell’attimo eterno” (Genova 2008),
“Il Dio di luce” (Genova, 2008),
“Nella città della luce e del sogno” (Genova, 2008),
“Mi chiederai di nascere” (Genova 2008),
“L’incontro” (Genova, febbraio 2009) con la Golden Press..
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“Configurandosi come fagocitazione dell’altro, l’ontologia fino ad Heidegger si delinea, secondo Lèvinas, come una filosofia della potenza che porta al dominio ed alla sopraffazione del prossimo. Alla violenza teorica dell’approccio ontologico, corrisponde, sul piano pratico, l’annientamento della dignità e della libertà dell’uomo e l’intolleranza verso il diverso, tanto che lo stesso Heidegger nel 1933 aderirà al nazismo; scelta quest’ultima che determinerà il radicale distacco di Lèvinas dal filosofo tedesco.
Dolcezza, accoglienza, ospitalità, dimora, passività della ragione in quanto accoglimento dell’idea d’infinito, vulverabilità, verginità ossia l’inviolabilità dell’infinito che resta, e deve restare, desiderato e mai posseduto, alterità, questi tratti femminili per eccellenza, secondo la tradizione, sono aspetti caratterizzanti del pensiero di Lèvinas, il quale nel suo percorso filosofico cerca di ridefinire l’identità del soggetto mettendo in questione il Logos greco, razionalità arida ed avvilente. Il primato dell’ontologia è il paradigma dell’Occidente: Da Parmenide ad Heidegger non c’è mai stata la possibilità della singolarità. In Totalità e infinito Lèvinas scrive:
“Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia. L’ontologia heideggeriana che subordina il rapporto con Altri alla relazione con l’essere in generale […] resta all’interno dell’obbedienza dell’anonimato e porta, fatalmente, ad un’altra potenza, al dominio imperialista, alla tirannia. […] L’essere prima dell’ente. L’ontologia prima della metafisica – cioè la libertà (sia anche quella della teoria) prima della giustizia. E’ un movimento nel medesimo prima dell’obbligo nei confronti dell’altro”.
Secondo Lèvinas, infatti, il pensiero occidentale è egologia, primato e prevaricazione del medesimo nei confronti dell’altro, cioè annullamento di ogni differenza nell’universalità dell’essere.
Fin dal saggio del 1935 L’evasione, Lèvinas si domanda se per dire l’umano sia possibile intraprendere un’altra strada rispetto a quella dell’essere: “Si tratta di uscire dall’essere per una nuova via”.” (Tratto da: Mirko di Bernardo, Emmanuel Lèvinas: La metamorfosi del femminile come via che conduce all'”altrimenti che essere”?)
Per Lèvinas, come per quasi tutti i filosofi contemporanei, l’etica non è fatta solo di regole o direttive, ma anche di attenzione alle realtà umane, specialmente alle azioni e alla responsabilità di ogni essere libero.
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All’origine dell’etica lèvisiana sta l’appello dell’alterità/esteriorità d’altri che significa nel “volto”, in quanto esso mi comanda di aiutarlo nella sua indigenza, nudità, esposizione, fragilità e altezza al tempo stesso. Il volto si esprime come nudità del povero, dell’orfano e della vedova, figure bibliche emblematiche dell’alterità, “che per la loro stessa miseria e indigenza sono per me comando di non lasciarli morire”. “La nudità del volto è indigenza. Riconoscere significa riconoscere una fame. Riconoscere Altri significa donare. Ma significa donare al maestro, al signore, a chi si avvicina in una dimensione di maestosità”. L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto nudo, pone l’io all’accusativo, convocandolo, inquietandolo, mettendolo in questione, è appello etico, “anzi, comando etico incondizionato che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” del Signore e del Maestro, e rovescia la mia libertà di soggetto egoistico nella libertà di soggetto responsabile, che deve rispondere della miseria altrui”.
“La Diaconia” da: E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore.
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“La visitazione del volto non è il disvelamento di un mondo. Nella concretezza del mondo, il volto è astratto o nudo. E’ denudato della propria immagine. E’ solo grazie alla nudità del volto che la nudità in sé diventa possibile nel mondo.
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La nudità del volto è una spoliazione priva di ogni ornamento culturale, un’assoluzione, un distacco in seno stesso alla propria produzione. Il volto entra nel nostro mondo a partire da una sfera assolutamente estranea, e cioè proprio a partire da un assoluto che, del resto, è il nome stesso dell’estraneità innata. Nella sua astrazione, il significato del volto è, in senso laterale, stra-ordinario. Com’è possibile una simile produzione? Com’è possibile che, nella visitazione del volto, la venuta d’Altri a partire dall’assoluto non si trasformi, in nessun modo, in rivelazione, non fosse che come simbolismo o suggestione? Perché il volto non è semplicemente una rappresentazione vera in cui l’Altro rinuncia alla propria alterità? Per poter rispondere a tali domande dovremo studiare la significazione eccezionale della traccia (in E. Lèvinas, “Scoprire l’esistenza” con Husserl e Heidegger”, Raffaello Cortina Editore) e l’ordine personale in cui tale significazione è possibile.
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Insistiamo per ora sul senso implicito nell’astrazione o nella nudità del volto che ci apre tale ordine e sullo sconvolgimento della coscienza che risponde a tale astrazione. Spogliato della sua stessa forma, il volto è irrigidito nella sua stessa nudità. E’ una miseria. La nudità del volto è indigenza e già supplica nella rettitudine che mi concerne. Ma tale supplica è un esigere. In essa l’umiltà si unisce all’alterigia. E con ciò si annuncia la dimensione etica della visitazione. Mentre la rappresentazione vera resta possibilità di apparenza, mentre il mondo che ostacola il pensiero non può nulla contro il libero pensiero che nella propria intimità è capace di non aderire al mondo, di rifugiarsi in sé, di rimanere appunto libero pensiero dinnanzi al vero e di esistere “per primo” come origine di ciò che riceve, di dominare con la memoria ciò che lo precede, mentre il libero pensiero resta “lo Stesso”, il volto mi si impone senza che io possa rimanere sordo al suo appello o obliarlo, e cioè senza che io possa smettere di essere ritenuto responsabile della sua miseria. La coscienza perde il suo primato.
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La presenza del volto significa anche un ordine irrecusabile – un comandamento – che fa venir meno la disponibilità della coscienza. Il volto mette in questione la coscienza. La messa in questione non è nuovamente presa di coscienza di tale messa in questione. L’assolutamente altro non si riflette nella coscienza. Vi resiste a tal punto che la sua resistenza non si trasforma in contenuto di coscienza. La visitazione consiste nello sconvolgere l’egoismo stesso dell’Io, il volto disorienta l’intenzionalità che mira ad esso.
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Si tratta della messa in questione della coscienza e non di una coscienza della messa in questione. L’Io perde la sua sovrana coincidenza con sé, la propria identificazione in cui la coscienza ritorna trionfalmente a se stesa per riposare in sé. Dinnanzi all’esigenza d’Altri, l’Io espelle se stesso da tale riposo e non si identifica con la coscienza, già orgogliosa, di tale esilio. Qualsiasi compiacimento distruggerebbe la rettitudine del movimento etico.
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Ma la messa in questione di questa selvaggia e ingenua libertà, sicura del proprio rifugio in sé, non è soltanto questo movimento negativo. La messa in questione di sé è proprio l’accoglimento dell’assolutamente altro. L’epifania dell’assolutamente altro è il volto in cui l’Altro mi interpella e mi impartisce un ordine attraverso la sua stessa nudità, la sua stessa indigenza. La sua presenza è un’ingiunzione a rispondere. L’Io non prende solo coscienza della necessità di tale risposta, come se si trattasse di un obbligo o di un dovere rispetto a cui ci sarebbe possibilità di scelta. Nella sua stessa posizione, egli è integralmente responsabilità e diaconia, come nel capitolo 53 di Isaia.
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Essere Io significa allora non potersi sottrarre alla responsabilità. Questo più d’essere, questa esagerazione che chiamiamo essere io, questa sporgenza dell’ipseità nell’essere, si compie come una turgescenza della responsabilità. La messa in questione di me stesso da parte dell’Altro mi rende solidale con Altri in modo incomparabile e unico. Solidale, non nel senso in cui la materia è solidale con il blocco di cui fa parte, o come lo è un organo con l’organismo in cui ha la propria funzione; solidarietà, qui, significa responsabilità come se tutta la struttura della creazione poggiasse sulle mie spalle. L’unicità dell’Io consiste nel fatto che nessuno può rispondere al mio posto. La responsabilità che svuota l’io del suo imperialismo e del suo egoismo, persino del sano egoismo, non lo trasforma in un momento dell’ordine universale. Lo conferma nella sua ipseità, nella sua funzione di supporto dell’universo.
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Svelando all’Io un simile orientamento lo si identifica con la moralità. L’Io dinnanzi ad Altri è infinitamente responsabile. L’Altro che suscita questo movimento etico nella coscienza, e che sconvolge la buona coscienza della coincidenza dello Stesso con sé, implica un sovrappiù inadeguato all’intenzionalità. E’ questo il Desiderio: bruciare di un fuoco diverso da quello del bisogno che l’appagamento estingue, pensare al di là di ciò che si pensa. A causa di questo sovrappiù inassimilabile, a causa di questo al di là, abbiamo chiamato la relazione che ricongiunge l’Io all’Altro “Idea di Infinito”.
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L’idea di Infinito è Desiderio. Essa consiste, paradossalmente, nel pensare più di ciò che è pensato, mantenendo comunque questo più nella sua dismisura rispetto al pensiero, consiste nell’entrare in relazione con l’inafferrabile, garantendo tuttavia a quest’ultimo il suo statuto di inafferrabile. L’infinito non è dunque il correlato dell’idea di infinito, come se l’idea fosse un’intenzionalità che ha termine nel proprio oggetto. La meraviglia dell’infinito nel finito è uno sconvolgimento dell’intenzionalità, uno sconvolgimento di questo appetito di luce: contrariamente alla saturazione in cui l’intenzionalità viene appagata, l’infinito disorienta la sua idea. L’Io in relazione con l’Infinito non può arrestare la propria marcia in avanti, non può abbandonare il proprio posto, come afferma Platone nel Fedone; non ha letteralmente il tempo di volgersi indietro. E’ questo l’atteggiamento irriducibile alla categoria. Non potersi sottrarre alla responsabilità, non disporre di un’interiorità come nascondiglio in cui rientrare in sé, andare avanti senza preoccuparsi di sé. Diventare sempre più esigenti rispetto a se stessi: quanto più faccio fronte alle mie responsabilità tanto più sono responsabile. Potere costituito dall’impotenza, è questa la messa in questione della coscienza che la fa entrare in un tessuto di relazioni che rompono con il disvelamento.”.
Pensieri correlati
“… Il libro che più mi ispira è il volto umano, fino al punto che non riesco a parlare, e nemmeno a formulare un pensiero, se non mi sta davanti qualcuno: almeno uno, un essere vivente; allora sono sicuro che il discorso si snoda in tutta abbondanza, come un torrente, a volte in troppa piena. Mi succede così quando predico, ad esempio: pur dopo anni e anni di praticaccia. E’ così: non mi viene la parola se non mi rappresento qualcuno in ascolto o che mi parli. Anzi, è questa la ragione per cui quasi tutto il mio scrivere si svolge in forma di colloquio: è sul filo dell’io e del tu che si snoda il discorso. A osservare bene, tutta la mia poesia è un colloquio.
No, non c’è praticaccia che tenga: se non guardo in faccia la gente, non riesco a parlare.
Sì, il mio primo libro è la faccia dell’uomo. Sono uno dal colloquio a vivo, più che di lettura, anche se il desiderio di leggere mi perseguita con graffiante nostalgia: uno dei tanti desideri che mi lampeggiano dentro, da sempre.” (David Maria Turoldo, La mia vita per gli amici)
–“La mia faccia annuncia la mia presenza, riferisce sulla mia natura e soprattutto, rivolta com’è verso l’esterno, reca un messaggio agli altri. Gli angeli suonano la tromba. Ridestano dal sonno. Altrettanto fa la faccia: pretende una risposta”. (James Hillman)
“La faccia umana in realtà assomiglia a una di quelle divinità orientali: un’intera serie di facce giustapposte su piani diversi; è impossibile vederle tutte contemporaneamente” ebbe a dire Proust.
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Una faccia va osservata nel tempo, sotto luci variate, durante molte scene diverse. Nessuno ha “una” faccia. La faccia invecchiata mostra la sovrapposizione di “un’intera serie di facce”. Le sette età che passano e ripassano, una trama da leggersi tra le righe. Perfino la faccia del neonato lascia intravedere tutta la gamma; fuggevoli espressioni di disposizioni irrealizzate, ma possibili”. In: “La forza del carattere”, James Hillman
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Eccellente scrittore e divulgatore, appassionato quanto rigoroso, Tomatis ha scritto 15 libri e numerosi articoli tradotti in tutto il mondo, ma sfortunatamente non tutti tradotti in italiano.
Questi i suoi principali aforismi:
• Tutto il corpo è un orecchio, un’antenna ricettrice che vibra all’unisono con la fonte del suono.
• Non occorre sentire per ascoltare, infatti alcuni famosi musicisti del passato erano sordi.
• L’aria, una volta invasa dalle vibrazioni acustiche, che siano quelle di un battito di mani o di una sonata per pianoforte, non è più quella di prima.
• All’inizio fu il suono.
• Ogni fenomeno acustico, in fondo, non è che un’eco del «suono primordiale».
• La funzione dell’orecchio non è solo quella passiva del percepire i suoni, ma anche quella attiva in cui emerge il desiderio di ascoltarli.
• La cosa più importante da ricordare è che il cervello non produce energia, la cattura, ed è l’orecchio che gliela fornisce.
• Il suono è quindi un alimento del cervello.
• Il linguaggio è l’elemento fondante l’umanità dell’uomo.
• La lingua nativa è proprio la lingua materna appresa durante l’ascolto intrauterino, la prima funzione sensoriale a essere già consolidata al quinto mese di gestazione, e le altre lingue le si apprendono allo stesso modo, indipendentemente dall’età del parlante.
• Quando l’orecchio non ascolta in modo ottimale si hanno ripercussioni su tutto il sistema organismico.
• Una pedagogia fondata su una corretta educazione all’ascolto non ha per fine l’individuo monologante bensì l’individuo dialogante.
• Questa pedagogia è anche il segreto per accedere allo “effetto Mozart”, una chiave magica per trasformare l’organismo modificando lo stato emotivo, fisico e mentale.
• Mozart è infatti un’ottima madre e provoca il maggior effetto curativo sul corpo e sull’anima.
• La capacità di ascoltare è la madre di tutte le altre capacità: dell’apprendimento, del linguaggio, della relazione, degli affetti, della memoria, dell’intelligenza e perfino dell’identità personale e della salute psicofisica.
• L’orecchio è quindi anche uno dei migliori strumenti di guarigione.
E questi i suoi libri tradotti in italiano:
• Educazione e Dislessia, Edizioni Omega, 1977.
• L’Orecchio e la Vita. Tutto quello che dovreste sapere sull’udito per sopravvivere, Baldini e Castoldi, 1992.
• L’Orecchio e la Voce, Baldini e Castoldi, 1993.
• Dalla comunicazione intrauterina al linguaggio umano. La liberazione di Edipo, Ibis, 1993.
• L’Orecchio e il Linguaggio, Ibis, 1995
• La notte uterina, Red, 1996.
• Perché Mozart, Ibis, 1996.
• Ascoltare l’Universo: dal big bang a Mozart, Baldini e Castoldi, 1998.
• Come nasce e si sviluppa l’ascolto umano, Red, 2001.
• Siamo tutti nati poliglotti, Ibis, 2003.
• Nove mesi in paradiso. Storie della vita prenatale, Ibis, 2007.
• Vertigini, Ibis, 2009.
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Il paragrafo Zero, che intitolai In cammino verso il linguaggio, prosegue così:
Nel corpo del saggio, infine:
L’emblema dell’angelo rinvia per me all’agire sociale, è figura della volontà della mente di sollevarsi al di sopra del dolore e della morte, per affermare la parola possibile, la felicità dell’opera.
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Sarebbe interessante mettere in rapporto l’angelo col daimon, che la psicoanalisi, incorporandoli in un solo concetto, ha di volta in volta identificato con i concetti di “anima”, “animus”, “ombra”, “alter-ego”, “doppio” o “sé”.
Massimo Cacciari in L’angelo necessario distingue però nettamente l’angelo dal daimon: quest’ultimo chiama dall’idea alla forma, per questo è perentorio; l’angelo chiama invece dalla forma all’idea, per questo è leggiadro.
Da buon filosofo, Cacciari vede l’oltre solo nell’angelo, mentre dal punto di vista, diciamo, “psicospirituale” sono entrambe figure-ponte tra il visibile e l’invisibile, due aspetti di una medesima realtà dello spirito in rapporto all’anima, sia pure polarizzati in senso opposto.
Ma non esiste l’uno senza l’altro, fermo restando che è comunque il daimon che spinge all’individuazione (il compimento, secondo Jung, del proprio compito nel mondo).
A questo proposito, sarebbe molto stimolante e educativo per tutti noi poter rileggere la storia di Gesù come la storia archetipica del soggetto umano in grado di trascendere la sua finitudine grazie alla doppia interlocuzione con l’angelo-daimon.
Potrebbe sembrare una cosa riservata solo a pochi “eletti”, ma l’esperienza dell’angelo-daimon è veramente molto più comune di quel che si crede, basti pensare che Eros nel mondo antico (vedi Platone nel Simposio) era considerato più un daimon (intermediario tra l’umano e il divino) che un dio come gli altri.
E dell’amore prima o poi facciamo esperienza tutti, solo che viene poi confinato e riferito soltanto a quello specifico vissuto, oltretutto molto episodico, dell’innamoramento, anziché considerarlo un esempio di trascendenza a variabili infinite nello spazio e nel tempo.
Caro Paolo,
se capisco bene, posso fare qui l’indicazione richiesta e penserai tu a metterla sull’antologia.
Scrivo qualcosa su Severino. Al più presto scriverò anche qualcosa su Cacciari.
Gli autori cui in questi anni sento di dovere molto sono più direttamente E.Severino, soprattutto per Essenza del nichilismo, Adelphi 1995 (prima ed. 1970) e Destino della necessità, Adelphi 1980, e M. Cacciari, per Dell’Inizio, Adelphi 1990 e Della Cosa Ultima, Adelphi 2003.
Due autori che, proprio per il fatto che rappresentano, almeno all’apparenza, due vie opposte, è vantaggioso leggere insieme.
L’uno, Severino, pone il pensiero dell’essere immutabile ed eterno del Tutto e, in esso, di tutto, di ogni cosa o momento e smaschera la follia del pensiero del non essere, del pensiero che quel che è stato o è o verrà non sia, che le cose vengano dal nulla e tornino al nulla: il pensiero del nulla è la follia in cui si dibatte l’Occidente sin dall’origine. La necessità è la verità eterna di ogni cosa ed è questa verità che va contemplata, poiché nulla viene e va, tutto è immutabile e non vi è divenire alcuno. Quel che viene e passa è, piuttosto, l’apparire di quello che a mano a mano appare, l’essere immutable, appunto, che, infinito, attraversa il cono finito dell’apparire… Il fascino di questo pensiero è veramente insuperabile. La durezza inflessibile del procedere razionale di Severino apre scenari di una lontananza abissale.. eppure quella lontananza è questo luogo in cui noi siamo…non vi è alcun oltre, la verità è qui… (tuttavia, si vorrebbe obiettare, è possibile non vederla…).
Lunedì 2 marzo: alla fine del sesto capoverso ho aggiunto
A questo riguardo, Cacciari, ad esempio, parla di arrischio della relazione.
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Mercoledì 4 marzo: in fondo al sesto paragrafo ho inserito il link a MASSIMO CACCIARI, Sul concetto di relazione: ritrovare la prossimità nella distanza.
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Un’idea dell’accesso all’invisibile è contenuta nel saggio di PAVEL FLORENSKIJ, Le porte regali. Saggio sull’icona, che risale al 1922. La prima edizione italiana è del 1977. L’editore è Adelphi. Florenskij ci introduce a una interpretazione delle icone che rimarrebbero del tutto incomprensibile se venissero avvicinate con gli strumenti consueti della critica d’arte. L’icona presuppone una metafisica dell’immagine e della luce. Accompagnati da Florenskij, possiamo varcare le porte regali dell’iconostasi. Esse sono l’adito centrale dell’iconostasi, “confine tra il mondo visibile e il mondo invisibile”. L’iconostasi consente l’accesso al mundus imaginalis.
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L’ANGELO NECESSARIO
Io sono l’Angelo della realtà,
intravisto un istante sulla soglia.
Non ho ala di cenere, né di oro stinto,
né tepore d’aureola mi riscalda.
Non mi seguono stelle in corteo,
in me racchiudo l’essere e il conoscere.
Sono uno come voi, e ciò che sono e so
per me come per voi è la stessa cosa.
Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra,
poiché chi vede me vede di nuovo
la terra, libera dai ceppi della mente, dura,
caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto
monotono levarsi in liquide lentezze e affiorare
in sillabe d’acqua; come un significato
che si cerchi per ripetizioni, approssimando.
O forse io sono soltanto una figura a metà,
intravista un istante, un’invenzione della mente,
un’apparizione tanto lieve all’apparenza
che basta ch’io volga le spalle,
ed eccomi presto, troppo presto, scomparso?WALLACE STEVENS
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Letture:
Sergio Givone, Oltre il cristianesimo secolarizzato, pp.109-121 di Filosofia ’86 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza 1987 – sul rapporto tra cristianesimo e tragedia.
Sergio Givone, Il pensiero tragico (1996)
Sergio Givone, Tragedia e modernità (1999)
Pier Aldo Rovatti, L’esistenza tragica (2000)
Dario Del Corno, La tragedia greca (2000)
Dario Del Corno, Mito e teatro nel rito tragico (1999)
Carlo Galli, Legge e coscienza morale (1999)
Carlo Galli, Il principio di responsabilità (2000)
Fausto Petrella, Capaci di intendere e di volere (2000)
Sergio Givone, Il libero arbitrio (2000)
Sergio Givone, Le forme del male (1998)
Sergio Givone, Che cos’è il male? (1998)
“La responsabilità personale sotto la dittatura” di Hannah Arendt indica chiaramente il più grande “no” che occorre pronunciare. Le nazioni non ne sono capaci. Per questo, abbiamo avuto le tragedie dei totalitarismi di destra e di sinistra. E’ tragedia il consenso dato senza che nemmeno venisse richiesto. Un tempo credevo che solo i popoli sono morali, gli individui mai. Ora penso che c’è salvezza solo se i singoli dicono tanti “no”.
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Il Dialogo Non-Giudicante, che per brevità chiamerò Dialogo, è un metodo davvero utile e per niente complicato per migliorare la comprensione, l’accettazione ed il rispetto tra le persone e per aiutarle a risolverle i conflitti. È valido specialmente nelle relazioni personali più intime quali quelle di coppia, di genitore-figlio, di amicizia.
Il Dialogo ha alcune regole ed alcuni accorgimenti fondamentali che adottati da entrambe i dialoganti, possono servire a chiarificare i sentimenti, le idee e i malintesi; ad accrescere l’intimità, la soddisfazione e a porre fine a modi abitualmente improduttivi di mettersi in relazione. Gli accorgimenti che suggerirò possono essere adottati anche da una sola persona all’interno della relazione, ma ciò è meno efficace e più difficile di quanto avviene se ambedue imparano ad usare insieme questo metodo.
Il mio intento in questo scritto è quello di descrivere gli elementi essenziali del Dialogo e di incoraggiare l’uso da parte di chi da aiuto sia nei gruppi che nelle comunità terapeutiche. Ritengo urgente il bisogno di un metodo che possa occuparsi direttamente e sistematicamente di relazioni così importanti.
Da parte di molti terapisti e di gruppi terapeutici c’è una grande difficoltà a trattare efficacemente i litigi relazionali, anche se le esperienze più drammatiche e problematiche avvengono per eccellenza proprio nelle “relazioni intime”. La crescita personale spesso sembra nascere a spese del fallimento della relazione stessa. Mi pare necessario sapersi servire veramente bene del Dialogo prima di cercare di occuparsi dei problemi dell’altro. non sono ancora stati trovati metodi validi per insegnare questo genere di pratica o sono stati ignorati dai diffusi metodi di cura della malattia del disturbo emozionale.
Dialogare prevede l’uso di una vasta gamma di abilità specifiche per migliorare la comunicazione in una relazione e di un programma sistematico di apprendere. Questo metodo fu strutturato da Bernard Guerney ed i suoi collaboratori, presso l’università della Pennsylvania, e fa parte dei loro programmi di “Intensificazione della relazione” (Guerney, 1977). Il loro programma ha delle radici teoriche nella “Terapia Centrata sul Cliente”, nella terapia della “Gestalt” e nella terapia “Behaviorista” e condivide tecniche di altri approcci pilota, specialmente quelli di Rosenberg (1976), Gordon (1970) e Carkhuff (1969). Il mio interesse personale per questo metodo terapeutico è nato dal lavoro con la “Terapia Centrata sul Cliente”, e con la “Terapia della Famiglia” e dall’esperienza fatta in due “Comunità Terapeutiche” completamente diverse una dall’altra.
Una di queste due, quella chiamata “Cambiamenti”, con sede a Chicago ad in molti altri luoghi, ha iniziato per prima ad insegnare come essere più efficaci terapeuticamente senza una specifica terapia di comunità, proponendo in modo particolare le capacità di ascolto empatico e di focalizzazione esperienziale. L’altra comunità si chiama “Consultazione per una Rivalutazione” ed è una Comunità Internazionale di classi e di co-consiglieri che si dedicano alla pratica di uno specifico, ben sviluppato, metodo di terapia e della teoria della crescita personale.
Ebbi modo di conoscere il programma di “Cambiamenti nella Relazione” in un workshop di tre giorni e trovai che l’ottica di detto programma ed i suoi metodi di aiuto per le “Relazioni Intime” erano altamente corrispondenti ai miei lavori ed alla mia esperienza. Ho chiamato “Dialogo” il mio particolare adattamento del metodo, per renderne più facile il riferimento e per sottolineare che la comprensione e l’accettazione reciproca che ne stanno alla base, aumentano di pari passo.
Dialogare si basa su un modello di comunicazione che presuppone che sia essenziale comunicare in modo adeguato la visione specifica che ogni persona ha della sua relazione con l’altro e di ciò che in essa avviene. Noi abbiamo bisogno della comunicazione per scambiarci informazioni, per inquadrare problemi e per soddisfare bisogni di accettazione, di comprensione, di rispetto. Il modello per dialogare è semplicemente questo: la comunicazione è valida quando diciamo ciò che intendiamo dire ed esso viene ascoltato con accuratezza e con rispetto, cosicché ci sentiamo capiti ed accettati. La vera comunicazione è fallita nella misura in cui questi passaggi non avvengono: non esprimiamo bene ciò che vogliamo comunicare o non abbiamo capito o ascoltato con attenzione. Dialogare comporta quindi l’abilità di esprimere se stessi: “Parlare congruente”; l’abilità di capire e di considerare l’altro: “Ascolto Empatico”. Oltre a ciò comporta abilità nel passare dall’essere l’ascoltatore, all’essere colui che parla e viceversa, (che designo con il nome di “Scambio”, cosicché la comunicazione va sempre in entrambe le direzioni e si verifica il Dialogo.
Colui che parla e che comunica, dovrebbe far si che i suoi sentimenti, i suoi pensieri e i suoi desideri siano espressi chiaramente, in modo tale da ottenere più facilmente una maggiore comprensione ed accettazione da parte di chi lo ascolta. Ci sono cinque accortezze per chi parla: 1) comunicare le emozioni; 2) essere precisi; 3) parlare da un punto di vista personale; 4) esprimere con chiarezza ciò che si desidera; 5) rilevare almeno un aspetto positivo della propria relazione; e le illustrerò qui in seguito.
1. Comunicare le emozioni personali. Dichiarare apertamente le emozioni e le sensazioni corporee che si sentono, ad esempio, “Mi sento frustrato” oppure “Mi sento contento” o “Ho un nodo alla gola”. Alle volte può essere difficile dire quali sono le nostre emozioni e le nostre sensazioni: allora è importante esprimere almeno una minima parte di esse che ci aiuterà a diventare più consapevoli di ciò che esse sono. Se non si dice quali sono i propri sentimenti è facile che l’altra persona interpreti male il significato di ciò che si sta dicendo o che non si riesca ad essere chiari su ciò che si intende dire.
2. Essere precisi. Esprimere in termini concreti la situazione ed il comportamento di cui si sta parlando. Se si dice qualcosa come: “Non mi piace come mi hai trattato l’altra sera”, chi ascolta non potrebbe capire bene ciò a cui si fa riferimento. Sarà molto comprensibile un’affermazione specifica e dettagliata, per esempio: “Ieri ero sconvolto e volevo parlarti, ma tu hai incominciato a dirmi di non preoccuparmi, così ho pensato che non volevi sentire quello che avevo da dirti”.
3. Usare il punto di vista personale = Messaggi personali. Dire come io percepisco qualcosa o come io penso riguardo a qualcosa, è diverso dal dire come quel qualcosa è “Lì, fuori di me”. Formulare la frase in modo personale significa essere consapevoli di parlare delle proprie percezioni o interpretazioni della situazione e non di quelle dell’altra persona e di essere consapevoli che la propria percezione o interpretazione non può essere del tutto oggettiva. Si hanno maggiori probabilità di evitare discussioni se si dice: “A me non sembra che tu stia facendo il tuo dovere in casa”, piuttosto che dire: ”Tu non stai facendo il tuo dovere in casa”. E sarà ancor deleterio se prende la forma dell’accusa “Tu sei pigro” o “Sei disonesto” piuttosto che dire: “A me sembra che di non averti visto fare nessun lavoro in casa” o “Non ti sento onesto nei miei confronti”. Ciascuno per se stesso è l’autorità definitiva per dire come le cose gli sembrano; probabilmente eviteremmo una discussione se etichetteremo chiaramente ciò che diciamo, come nostra personale esperienza e non come “dato di fatto”.
4. Esprimere con chiarezza ciò che si desidera. Significa includere nel nostro messaggio quanto ci piace che l’altro faccia o dica, esprimendolo in modo esplicito. Qui è di nuovo importante essere precisi. Piuttosto che dire: “Voglio che tu sia sollecito”, che lascia che ascolta incerto su ciò che gli si chiede di fare, sarebbe meglio dire: “Desidero che tu mi abbracci quando arrivo a casa”, oppure “Preferirei che tu mi chiedessi cos’ho quando ti sembro turbato”. È specialmente importante includere nelle critiche ciò che si desidera che l’altro faccia. Può far risparmiare un sacco di tempo e di discussioni inutili, dato che l’altra persona può già desiderare di fare ciò che voi desiderate, anche se ancora in disaccordo con la vostra opinione.
5. Rilevare almeno un aspetto positivo della propria relazione. Esprimere qualcosa di positivo sulla relazione o perché essa per noi è importante, o perché vogliamo bene all’altra persona. Ciò eviterà che il valore della relazione sia messo in ombra da una controversia dovuta ad un momento particolare. Spesso si spreca molto tempo per appianare piccole divergenze mentre si lasciano insoddisfatti desideri ed interessi comuni. Una dichiarazione positiva sulla propria relazione aiuta a mettere in posizione prospettica eventuali sentimenti negativi. Ecco alcuni esempi di dichiarazioni positive: “Credo che una ragione per cui mi sento così turbato quando non mi ascolti è che l’esser capito da te, mi sta a cuore molto di che l’essere capito da chiunque altro”, oppure “Sono felice che tu abbia sollevato questo problema perché la nostra relazione ha per me grande significato e desidero perciò che tu stia attenta e critica”, o “Anche se mi sento arrabbiato, so che tu ti sei impegnata seriamente ed io lo apprezzo davvero”. L’importante qui è di andare al di là della controversia del momento per cogliere il valore della persona e della relazione.
Per mia esperienza, l’uso di queste cinque “abilità” renderà probabile, in una relazione, che io sia capito e che vengano colti i miei desideri. Di solito sono necessarie diverse frasi per esprimere tutti e cinque i punti, specialmente se la discussione coinvolge sentimenti profondi.
Inoltre, l’essere ascoltati con empatia, di solito, aiuta ad esprimersi meglio cioè con accuratezza ed in modo completo.
Scopo dell’ascolto empatico è quello di comunicare a chi parla che i suoi sentimenti, i suoi pensieri, i suoi desideri, sono compresi ed accettati. Ascoltare in questo modo non significa essere d’accordo su ciò che l’altro va dicendo; piuttosto significa che i pensieri ed i sentimenti di chi parla hanno lo stesso valore di quelli di chi ascolta. Nei panni di colui che ascolta puoi indicare col tono della voce, con l’espressione del viso, coll’intesa degli occhi e col significato delle parole, che tu stai sentendo e concentrandoti completamente sulla comprensione dell’esperienza di chi ti parla e dal punto di vista di chi ti parla.
Quando ascolti: 1. concentrati sui sentimenti, sui pensieri e sui desideri espressi da chi parla; 2. ripeti a grandi linee ciò che tu hai sentito di quello che l’altro ti sta dicendo e solo quello; 3. correggi la tua dichiarazione se chi parla dice che quello non corrisponde a ciò che intendeva dire o che hai dimenticato qualcosa di importante.
Probabilmente la via migliore per comunicare la comprensione empatica è quella di ripetere ciò che hai sentito con parole molto simili a quelle usate da chi parla, cercando di essere proprio sicuri di includere i sentimenti che sono stati espressi. Usare parole simili a quelle dette dall’altro è particolarmente necessario nel caso in cui l’ascoltatore è alla sua prima esperienza. Molti principianti sono sorpresi dalla difficoltà che provano nel cogliere semplicemente l’esperienza dell’altro senza aggiungere ad essa le loro stesse opinioni e i loro pensieri. Dopo un po’ di pratica saranno in grado di comprendere con accuratezza i sentimenti e i desideri personali di chi parla e saranno capaci di ripetergli la parte veramente essenziale del messaggio. L’importante è essere sempre disposti a correggersi ed a cogliere nuovi significati allorché emergono.
Un requisito essenziale per l’ascoltatore è di sbarazzarsi dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Ciò implica non dare avvertimenti, non esprimere opinioni, non fare domande, non raccontare la propria esperienza personale, né fare ogni altra cosa che di solito facciamo o diciamo nella conversazione di tutti i giorni. Questi interventi di solito spostano l’attenzione di chi parla da ciò che vorrebbe esprimere, prima ancora di essere stato compreso adeguatamente dall’ascoltatore, a ciò che invece quest’ultimo ha in mente di dirgli. Dovremmo solamente stare attenti e riuscire a percepire se l’ascolto che prestiamo a chi sta parlando è adeguato. Ciò può essere particolarmente difficile quando dentro di noi sentiamo varie emozioni. Invece, può esserci d’aiuto tenere a mente che di solito abbiamo la tentazione di dire subito ciò che pensiamo e ciò che sentiamo: in seguito riceveremo la stessa vigile attenzione che adesso ci costa tanta fatica.
Per imparare a dialogare l’ascoltatore dovrebbe usare queste “abilità” specifiche specialmente all’inizio, per aumentare la probabilità per chi parla di venire capito ed accettato.
Scambio dei ruoli significa passare la parola da chi parla a chi ascolta. Questa è una parte essenziale del Dialogo, perché è lo scambio avanti-indietro, dare-avere del processi di relazione che avviene facilmente all’avvio della risoluzione. È importante quindi che ognuno dei due partners capisca che entrambe le posizioni (parlare-ascoltare) sono essenziali. Bisogna che i due si dicano qualcosa come: “Quello che dico è molto importante per me, ma altrettanto lo è il sapere come tu ti senti per quello che dico”, oppure “Anche se ciò che tu mi dici è importante, il mio sentire riguardo a ciò lo è altrettanto”. In questo modo l’interazione sarà bilanciata e condurrà ad uno scambio di comprensione, così ci sarà realmente Dialogo.
Sia chi parla sia chi ascolta possono chiedere di scambiarsi di ruolo. Chi parla può desiderare di sapere come l’ascoltatore si sente per aver ascoltato ciò che egli ha appena detto, o chi ascolta può provare una reazione che esprimere. Esempi di richiesta di scambio: “Mi piacerebbe dire qualcosa adesso se tu sei pronto ad ascoltare” o “Desidero sentire come ti senti dopo ciò che ti ho riferito, cioè vorrei essere io ad ascoltarti”.
Il momento migliore per scambiarsi è quando uno già ha espresso gran parte di ciò che voleva dire e si sente soddisfatto dell’attenzione ricevuta. Comunque l’altro ha sempre la facoltà di chiedere uno scambio, anche se, prima di chiederlo sarebbe bene desse a chi parla una qualche rispondenza di ascolto, così da fargli verificare con soddisfazione di essere stato ascoltato. Se però chi ascolta sentisse la necessità di cambiare il suo ruolo prima che l’altro abbia realmente finito di parlare, allora dovrà, appena possibile, ritornare al suo ruolo originario di ascoltatore cosicché il Dialogo rimanga su un unico binario e non venga sovraccaricato di riscontri. È probabile che Dialogare sia fruttuoso se si affronta un solo problema importante per volta: così sarebbe bene scambiarsi di ruolo solo dopo che chi sta parlando ha ottenuto qualche vantaggio. Chi parla può essere tentato di usare la struttura del Dialogo per scaricare molti sentimenti personali su un ascoltatore “recettivo”, ma ciò rovina lo scopo ultimo della relazione, che è quello di servire ad entrambe i partners per capirsi meglio reciprocamente.
Dialogare è un metodo a cui si può dare affidamento e si può farne buon uso se si compie un serio sforzo per non modificare le sfaccettature della comunicazione dei partners. Le “abilità” di chi parla, di chi ascolta e dello scambio dei ruoli, non sono complicate, ma non sarà sempre facile e semplice farne buon uso.
Abbiamo bisogno di disimparare molte abitudini ormai vecchie e radicate nel nostro modo di comunicare così come abbiamo bisogno di impararne altre nuove. È necessario allora sperimentare con gradualità e sistematicità queste nuove “abilità”, fare molta pratica e lavorarci quotidianamente cosicché il loro uso non ci spaventi. Dapprima le studieremo per motivi che non riguardano direttamente le relazioni personali, ma per farne esperienza in rapporti facili e sereni, e, solo in seguito, lo faremo per trarre vantaggio in relazioni difficili e negative. Per arrivare a ciò è richiesta disciplina da parte di chi impara e fermezza da parte di chi parla, basate sull’aver fornito la spiegazione ampia possibile e sull’accordo totale circa le premesse del tipo di lavoro da fare insieme. Chi desidera aiutare gli altri ha bisogno di fare esperienza e di esercitarsi sia nell’usare le “abilità”, sia nell’insegnarle agli altri. Fare da modello, dare dimostrazione, simulare, dare incoraggiamenti (Rinforzo Positivo), sono alcuni sussidi importanti per insegnare questo metodo.
Fin qui ho cercato di dare un’infarinatura del “Reparto di Dialogo” il programma completo di come si può imparare a condurre un Dialogo non è lo scopo specifico di questo scritto. (Vedi Guerney, 1977).
Può risultare vantaggioso, e alle volte addirittura necessario, che una terza persona (Facilitatore) sieda vicino ai dialoganti per facilitare la loro comunicazione. Il Facilitatore esamina attentamente che la struttura di base di questo metodo sia seguita, facendo rimandi e dando dei suggerimenti specifici e incoraggia e rinforza l’uso corretto delle “abilità”. La presenza di un Facilitatore è importante specialmente quando si incomincia a provare a fare Dialogo, ma anche quando ci sono delle controversie che rendono difficile esercitarsi. Chi parla ha gran bisogno di esercitarsi ad esprimersi secondo il modello enunciato. Una volta che questo modello di base è stato imparato in un rapporto a due o in un gruppo, il Dialogo sarà comunque possibile ogni volta che dovesse sorgere l’interesse di utilizzarlo anche per un diverbio interpersonale. L’occasione può scaturire da una semplice richiesta di Dialogo da parte di una persona all’altra, oppure quando due persone coinvolte in una controversia desiderano aiuto e qualcuno, non direttamente interessato al loro rapporto, si offre come facilitatore.
Credo che i partners che vivono un rapporto problematico abbiano grossa difficoltà a parlarsi di quei comportamenti che costituiscono grosso motivo di attrito. (Es. Lavoro extradomestico della moglie. NdT.). Sono anche incapaci di creare una modalità nuova di stare insieme, un modo nuovo che venga meglio incontro alle loro necessità individuali. Invece si comportano alla vecchia maniera, sbagliano a comprendere l’esperienza dell’altro così come la propria e restano fermi nel loro problema. Perciò io attribuisco grande valore, nel rapporto personale, all’abilità di essere aperti alla comprensione.
La forte tendenza, orami abituale, a valutare la nostra esperienza e quella altrui, come Buona o cattiva, Giusta o Sbagliata, degna di Lode o di Biasimo, ci è di ostacolo quando cerchiamo di comunicare al nostro partner le nostre esperienze personali.
Di solito reagiamo all’esperienza sia nostra che altrui, prima ancora di capirla, specialmente qualora percepiamo disapprovazione e corriamo il rischio di essere etichettati “cattivi” o “sbagliati”. Reagire giudicando è quindi spesso un ostacolo alla soluzione della controversia che scaturisce dai sentimenti e dai bisogni di un preciso momento.
A mio modo di vedere, il Dialogo è non-giudicante, nel senso che si sforza di abolire il giudizio di esattezza o di erroneità dalla nostra esperienza e cerca invece di vedere e di comunicare come essa ci appare, con pienezza ed onestà.
Un’attitudine “non-giudicante” in bocca a chi parla, dice pressappoco: “Desidero fidarmi di me e di te per guardare lo svolgersi delle nostre vite e vedere la mia esperienza insieme a te, per quella che è e non per quello che penso dovrebbe essere. I miei giudizi su di me e su di te, sia buoni che cattivi, probabilmente mi impediscono di vedere e di dire quello che è reale per me e allora mi è difficile scoprire ciò che è meglio per il nostro rapporto. così per il momento desidero solo descrivere solo quello che io vedo, quello che sento e quello che voglio, il chiaramente ed onestamente possibile. Aggiungo che per me sarà molto facile farlo se anche tu desideri capire bene la mia esperienza prima di giudicarla”.
L’attitudine non-giudicante dell’ascoltatore comunica che: “Mentre ti ascolto vorrei sospendere di fare giudizi su di te, non vorrei capire se quello che dici è buono o cattivo, o se mi piace o non mi piace. Vorrei invece capire al meglio delle mie possibilità i tuoi desideri e ciò che per te significa la tua esperienza. È nel fare ciò che voglio capire meglio quanto peso ha, nella nostra relazione, quello che tu pensi e senti. Solo dopo che ti avrò capito in questi termini, potrò guardare onestamente alle mie reazioni riguardo a ciò che tu avevi espressamente detto. In questo modo saremo capaci di lavorare attorno alle nostre reali differenze. Inoltre, quando tu mi racconti i tuoi pensieri o i tuoi sentimenti senza etichettarli come “buoni o cattivi”, ho probabilità di capirti meglio e di essere onesto con me stesso”.
Questo stesso modo di dialogare può portare come risultato, un cambiamento nel nostro modo di rapportarsi agli altri: un atteggiamento fiducioso e meno giudicante. La struttura del Dialogo ci permette di correre il rischio di dire e di ascoltare ciò che prima avevamo paura di dire e di ascoltare. Se non dobbiamo difenderci dal senso di colpa, possiamo capire ed apprezzare l’altro e, quel senso di colpa e di frustrazione si trasformerà in fiducia e calore: percepire in modo concreto un senso di apertura e di rinnovamento interpersonale è un buon indice del fatto che il Dialogo sta procedendo con successo.
Gli elementi essenziali del Dialogo che ho qui sopra illustrato, sono applicabili su vasta scala: possono essere usati in molte situazioni, specialmente in quelle relazioni in cui hanno importanza la comprensione e la fiducia reciproca.
Le persone a cui ho spiegato come si svolge il Dialogo e qual è il metodo di lavoro per imparare a dialogare, hanno risposto con entusiasmo. Danno il benvenuto alla possibilità di capire il senso di quella parte della loro vita che è confusa ed incerta, sono contente di sostituire il loro modo di comunicare, che è statico-e-sbagliato, con un modo che è comprensibile-e-studiabile, che prende in considerazione le loro esigenze personali e quelle della persona con cui comunicano.
Per questo sono fiducioso ed entusiasta del dialogo. Credo che esso ci fornisce un modo diretto e responsabile di trattare i nostri problemi e ci stimola a rapportarci agli altri.
Secondo il mio parere, questo approccio fa parte di un corpo di importanti ricerche, che sono sempre in numero crescente, nel campo dell’insegnamento delle “abilità interpersonali” che possono ben venir chiamate: “Corso sulle abilità specifiche per appropriarsi della comunicazione centrata sul cliente”. Esso include metodi sviluppati da “Cambiamenti2 di Gordon (1970) P.E.T e di Gendlin (1969) di Focalizzazione esperienziale. Il motivo per cui io identifico questo approccio coll’”Approccio centrato sul cliente” (Rogers, 1961) è dovuto al fatto che i suoi metodi enfatizzano le attitudini del trainer per la empatia, l’accettazione, la congruenza e per il rispetto dell’astensione dal giudizio.
Carkhull, R. HELPING AND HUMAN RELATIONS, Volume I e II. New York Holt, Rinchart e Winston, 1969.
Gendlin, E. FOCUSING PSYCHOTHERAPY: THEORY, RESEARCH AND PRACTICE. 1969, 6-4-15
Guerney, B. RELATIONSHIP ENHANCEMENT: SKILL TRAINING PROGRAMS FOR THERAPY, Problem, prevention and enrichment. San Francisco Jossey-Bass, 1977.
Rogers, C. R. ON BECAMING A PERSON. Boston, Houghton, Mifflin, 1961.
Rosenberg, M. FROM NOW ON. St. Louis: Community Psychological Consultants 1976.
Gordon, T. PARENT EFFECTIVENESS TRAINING. New York. Peter Wyden, 1970.
L’idea di una antologia del tempo che resta nasce da un dialogo fra due persone:
Uno dice: “ah, quante cose mi piacerebbe leggere … ma il tempo è così poco …”
Altro risponde: “Ci vorrebbe una antologia, come quella degli adolescenti.
Se a quella età abbiamo imparato la letteratura e la filosofia, forse ora, da adulti, possiamo imparare ancora comunicandoci le pagine che ci sembrano importanti per il cammino …”
Da qui l’idea della antologia e di questo blog a più teste, cuori e mani.
Uno spazio senza coordinatori: una pagina bianca a disposizione di chi sente questo desiderio.
Uno presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.
Altro legge e, a sua volta, presenta uno scritto di un autore e poi gli dà la parola.
Uno legge e …
…
…
…
1. Il testo letto nel video è questo:
“Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell’esistere con l’altro senza bisogni.
Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l’altro ci sia, in quanto è grazie all’esserci dell’altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l’esistere dell’altro mi rivela a me stessa.
In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell’altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell’esistere dell’uomo come soggetto?
…
Devo procedere nell’analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.
Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comportamenti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità.”
in Silvia Montefoschi, L’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75.
2. Lo scritto del 2004, citato nell’audio-video è qui:
Intervista a Montefoschi sul concetto di “intersoggettività” (2004) di Tullio Tommasi
3. La canzone è :
Paolo Conte, Bella di giorno, in Psiche, 2008
Io so chi tu sei
so neanche chi sei
ma so che tu sei
si so che tu sei tanto amata
amata e desiderata
l’istinto ti sa
trattare ti sa
guidare ti sa
con poche parole precise
poche parole decise
e uno sguardo d’intesa
un’elegantissima scusa
come una bella di giorno
tu sei il mondo che hai intorno
sei bella senza ritegno
nell’acqua fresca di un bagno
io so che tu sei
so neanche chi sei
ma so che tu sei
si so che tu sei tanto amata
amata e desiderata
e sola
lo stesso video è anche qui:
Fondazione Corriere della Sera.
Sulla strada del viaggio, 7 ottobre 2008 – 28 ottobre 2008
7 ottobre 2008
“Il viaggio di Ulisse ovvero della conoscenza”
Relatori: Giovanni Reale, Tiziano Scarpa.
Coordina: Pierluigi Panza.
In “Ricordati di vivere”, Pierre Hadot esplora i legami tra il pensiero di Goethe e la tradizione degli esercizi spirituali dell’antichità, con un focus particolare sull’importanza di vivere nel momento presente
Hadot dimostra come Goethe si inserisca in una corrente filosofica che valorizza l’esistenza terrena, in contrasto con la ricerca della felicità in un “aldilà”
Punti chiave del libro:
In sintesi, “Ricordati di vivere” è un invito appassionato a riscoprire la saggezza degli antichi per vivere una vita più piena e consapevole nel presente3. Il libro suggerisce che la felicità non è un obiettivo da raggiungere, ma una pratica quotidiana che richiede impegno e attenzione
La filosofia come modo di vivere di Pierre Hadot esplora la filosofia come esperienza vissuta, in cui i discorsi filosofici degli antichi sono visti come esercizi spirituali mirati a trasformare l’individuo
Hadot narra di come la pratica filosofica abbia guidato e sostenuto ogni sua scelta esistenziale
Punti chiave del libro:

Un cappello pieno di ciliege è un romanzo incompiuto di Oriana Fallaci, pubblicato postumo nel 20081.
Trama:
Il libro racconta la storia della famiglia dell’autrice tra il 1773 e il 1889. La narrazione inizia in un podere a Vitigliano di Sotto, dove vivono il mezzadro Luca Fallaci e sua moglie Apollonia, con i loro quattro figli: Gaetano, Carlo, Violante e Aloisio1. Carlo, il “ribelle” della famiglia, sa leggere e scrivere e sogna di partire per l’America, ma il destino lo riporta a casa, dove si fa carico delle responsabilità familiari. Il romanzo segue le vicende di diverse generazioni, tra cui spiccano figure come Caterina, sposa di Carlo, e Francesco, marinaio e padre disperato. Il racconto si snoda attraverso eventi storici come l’Italia rivoluzionaria di Napoleone, Mazzini e Garibaldi, culminando con il matrimonio dei nonni paterni di Oriana, Antonio e Giacoma. L’opera, intrisa di realtà e immaginazione, trasforma i membri della famiglia Fallaci in personaggi quasi fiabeschi.
Genesi dell’opera:
Oriana Fallaci ha dedicato oltre dieci anni alla scrittura di questo romanzo, interrompendosi solo a seguito degli attentati dell’11 settembre, che la spinsero a scrivere La rabbia e l’orgoglio. Il romanzo si interrompe con il matrimonio dei nonni paterni, Antonio e Giacoma, ma avrebbe dovuto contenere tutta la storia successiva fino al 1944. Il nipote ed erede universale di Oriana, Edoardo Perazzi, ha curato la pubblicazione del libro, seguendo le precise disposizioni della scrittrice riguardanti sia il titolo sia il testo.
Edizioni:
PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO

di PIETRO CITATI
L´estate scorsa, la televisione italiana ci ha offerto un dono inconsueto. Nelle sere di sabato e di domenica, alle 19.35, cominciava la proiezione di un film della serie del Tenente Colombo, che accompagna da molti anni la nostra vita. Confesso di avere una passione infantile per le vicende del piccolo tenente spiegazzato: passione che Federico Fellini condivideva. Qualsiasi cosa accadesse, qualsiasi invito allettante mi venisse rivolto, non abbandonavo la poltrona o la seggiola davanti alla televisione, sebbene avessi visto dieci volte quel film e mi ricordassi quasi a memoria ogni particolare. Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple – con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale – mi affascina fino a questo punto.
Tutti conoscono la trovata fondamentale dell´intera serie. Gli sceneggiatori del Tenente Colombo, tra i quali si nasconde una mente sottilissima, hanno capovolto la struttura del giallo tradizionale. Se in un testo di Conan Doyle o di Agata Christie o su Nero Wolfe la scoperta del colpevole avviene puntualmente alla fine del libro, qui, pochi minuti dopo l´inizio, il mistero è già rivelato: sappiamo chi è la vittima e chi il colpevole, e per quali ragioni e in quali circostanze la vittima è stata uccisa. Suppongo che, nei primi tempi, questo capovolgimento abbia turbato il mondo degli appassionati. Se il mistero era rivelato subito, rischiava di venire abolito. Ma la straordinaria bravura degli sceneggiatori del Tenente Colombo, ha fatto sì che questo pericolo venisse cancellato. Non ho quasi mai seguito un giallo con tanta partecipazione e tensione.
Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile.
Nei gialli di tipo «matematico», ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico. Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volte sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata (c´è sempre una signora elegante che gliene regala una nuova), le scarpe sformate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l´incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l´enorme apparecchio televisivo, l´educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia.
Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l´occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai, finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto… Il suo volto conosce poche espressioni. Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima. Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario.
Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l´assassino. Non sappiamo come né perché, né su quali indizi si basi, ma una cosa si ripete sempre: egli non ha dubbi né esitazioni. Egli sa. Appena ha ricevuto l´illuminazione, non si preoccupa di nulla d´altro. Non guarda le cose, trascura piste apparentemente importantissime, si distrae, sogna, fantastica. Quando ha trovato la vera pista, mette in moto il suo formidabile istinto per tutto ciò che è microscopico. Annusa eventi minimi: un residuo di sigaretta, una minima discordanza temporale, un fiammifero, l´orma di una scarpa, una coincidenza falsa, il filo di un abito, un capello tinto, una sensazione improbabile, un posteggio misteriosamente asciutto. Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore.
Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa sopratutto per obbedire al suo dovere di poliziotto, e alle volte sembra dispiaciuto, come se il suo compito gli pesasse. Qualche assassina, specie se bella e ingegnosa, lo commuove. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d´attenzioni. Forse è un po´ succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell´universo.
Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove egli ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l´unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto, e il suo proclamato sentimento coniugale è una pura istituzione pubblica. Ama appassionatamente soltanto il suo mestiere di poliziotto: non c´è una goccia di sangue, in lui, che non agogni misteri da risolvere, assassinii da rivelare, tenebre da illuminare, ordine da ristabilire.
Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi; e qualche volta ci sentiamo inteneriti da un vago sentimento di pietà verso di loro. Se essi accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema (i sindaci, i governatori, i capi della polizia), allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che egli è una avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l´istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l´antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino.
da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008
da: https://www.segnalo.it/TRACCE/CIT/CIT.htm
filosofia
Gli altri formano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento uno in particolare assai mal fatto, e il quale, se avessi da
modellare nuovamente, farei invero diverso da quel che è. Oramai, è fatto. Ora, le linee del mio ritratto non si
disperdono, benché cambino e si diversifichino. Il mondo non è che un movimento continuo. Ogni cosa vi si muove
senza tregua: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, e del movimento pubblico e del proprio. La stessa
costanza altro non è che un movimento più languido. Non posso assicurare il mio oggetto. Se ne va fosco e
barcollante, di una ebbrezza naturale. Lo colgo in questo punto, come si presenta, nell’istante in cui me ne
interesso. Non dipingo l’essere. Dipingo il passaggio [.]. E’ un controllo di diversi e mutevoli avvenimenti cangianti e
d’immaginazioni irrisolte e, quando capita, contrarie; che io sia un altro me stesso, o che io colga i soggetti da altre
circostanze e considerazioni. Tant’è che mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la
contraddico affatto. Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei; è sempre in formazione e
in prova. Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro, è un tutt’uno. Si può legare altrettanto bene tutta
la filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca; ciascun uomo porta in sé la forma
intera dell’umana condizione.
Michel de Montaigne
Saggi (vol.III)
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Analisi testuale
Titolo:
Il titolo sembra perdersi nell’insieme tanto vasto quanto anonimo del genere del saggio. In realtà, il contenuto di
questo passo mostra fino a che punto esso sia significativo ed appropriato: il libro si intitola “saggio” precisamente e
letteralmente perché lo scopo dell’autore è quello di saggiarsi attraverso la scrittura, e allo stesso tempo quello di
farsi saggiare dal lettore. Infatti, l’oggetto del libro è il racconto di sé in quanto uomo (“io racconto [l’uomo] e ne
rappresento uno in particolare”). Un riferimento chiaro al legame che c’è tra il titolo e il saggiarsi si trova alla fine del
primo paragrafo: “Se la mia anima potesse essere ferma, non mi saggerei, mi risolverei”; qui Montaigne indica
esplicitamente la ragione del suo libro, e quella della scelta del titolo.
Oggetto:
Se è vero che l’oggetto del racconto è un uomo “in particolare”, ciò non significa che esso sia “degno” di essere
“raccontato” per motivi a lui intrinseci: quest’uomo non è né particolarmente importante né in alcun modo esemplare
(“ne rappresento uno assai mal fatto” – par. 1; “Quella che propongo è una vita semplice e senza lustro” – par. 2). In
altre parole, qui non si tratta, come nel caso delle Confessioni di Rousseau (1765-70), di parlare di sé perché si
vuole rivendicare la dignità del soggetto individuale. L’IO narrante parla di sé unicamente perché appartiene al
genere umano, come uno dei tanti possibili rappresentanti dell’Uomo, perché “si può legare altrettanto bene tutta la
filosofia morale a una vita popolare e privata che a una vita di stoffa più ricca” (par. 2).
Forma:
Come abbiamo già detto, l’oggetto del libro è il racconto di sé. Ma questa osservazione necessita di alcune
precisazioni. Gli Essais (Saggi) di Montaigne non sono né un diario né un’autobiografia: infatti, a differenza del
diario, non abbiamo nessuna successione cronologica né divisione in sezioni con datazioni diverse; e a differenza
dell’autobiografia, non ci viene presentata la vita di un uomo che è importante nella sua individualità (storica, sociale,
ecc.), raccontandola secondo uno schema ordinato e volto a dimostrare qualcosa. Gli Essais sono il risultato di una
scrittura aperta, il cui unico scopo è quello di “raccontare” un uomo.
Ritmo:
Dato che non segue nessun ordine, né cronologico né causale, la narrazione, ci avverte Montaigne, si sviluppa
seguendo i pensieri del narratore, attraverso un movimento fluido e altalenante, retto unicamente dalla legge della
libera associazione di idee. Essa perciò sembra essere lasciata andare a briglia sciolta, in maniera disordinata e
incoerente; in realtà, è il frutto di un attento criterio stilistico, di un vero e proprio metodo sperimentale: come ha fatto
notare un famoso critico, Auerbach*, il ritmo narrativo in Montaigne è spiegato e giustificato (dallo stesso autore-
narratore) attraverso un preciso sillogismo: 1. Io racconto un uomo particolare (me stesso) 2. Ogni cosa nel mondo
è in continuo movimento e cambiamento 3. Perciò: io, che faccio parte del mondo, sono in continuo movimento, e la
mia narrazione, che si vuole adattare al suo oggetto, è altrettanto mutevole.
Temi principali:
*
Il divenire: la maggior parte del primo paragrafo è interamente dedicata a questo tema. Attraverso la
constatazione che tutto, nel mondo, è in movimento, per motivi esterni o propri (“del movimento pubblico e del
proprio”), Montaigne arriva a spiegare come il suo oggetto (cioè se stesso) gli sfugga (“se ne va fosco e
barcollante”). L’unico modo per lui di “assicurarlo” (di catturarlo, di coglierlo) è quello di prenderlo “così come si
presenta”, cioè in movimento. Perciò può affermare di non dipingere l’essere (ciò che è stabile), ma il passaggio. Per
lo stesso motivo lui, al contrario degli altri, non può formare l’uomo, ma soltanto raccontarlo, poiché per formarlo
bisognerebbe averne prima fissato l’essenza. Di nuovo, questa è pure la ragione per cui egli, in quanto essere
mutevole, non può risolversi, ma unicamente saggiarsi.
* La semplicità: Montaigne insiste nel ribadire che egli non “racconta” se stesso perché ha particolari qualità che
lo rendono interessante in quanto individuo. Si presenta come “una vita semplice e senza lustro”, non tanto perché
ciò sia vero in pratica (Montaigne era, in effetti, un nobile ed una delle persone più in vista in Francia all’epoca in cui
ha vissuto), quanto perché così è nelle intenzioni: se avesse voluto raccontare di sé come uomo illustre, avrebbe
potuto farlo benissimo, ma ciò che gli preme è il raccontarsi come uomo. Egli richiede a se stesso una sola qualità:
l’umanità, perché tanto basta alla sua filosofia morale.
* La verità: l’unica condizione richiesta dal suo lavoro è la sincerità nel parlare di sé. Questa condizione è seguita
in maniera molto rigorosa da Montaigne, tanto da poter affermare che persino nella sua incoerenza egli è in realtà
perfettamente coerente con la propria natura (“mi contraddico talvolta, ma la verità, come diceva Demadio, non la
contraddico affatto”).
Osservazioni conclusive:
* La differenza tra un libro come Le confessioni di Rousseau e i Saggi di Montaigne riflette la differenza che
esiste tra due secoli tanto distanti come il ‘700 e il ‘500. Quando Rousseau, da vero pre-romantico, decide di
scrivere un libro su se stesso, l’intento principale è quello di rivendicare la dignità della propria persona in quanto
possibile oggetto di un libro (ricordiamo che Rousseau era un borghese, e che si rivolgeva ad un pubblico
principalmente aristocratico). In Montaigne non c’è alcuna rivendicazione personale ed individuale: se scrive di sé, è
il proprio essere uomo che lo interessa, ed in questo rispecchia perfettamente il ‘500, secolo dell’Umanesimo.
* Come abbiamo visto, gli elementi principali di questo passo sono: 1) la volontà di presentare se stessi in maniera
semplice e al contempo rigorosa; 2) la necessità di parlare del proprio oggetto attenendosi alla verità; 3) il desiderio
di cogliere questo oggetto nella sua complessità e totalità; 4) la necessità di adeguare lo stile narrativo all’oggetto
della narrazione. Tutti questi elementi riflettono perfettamente il pensiero rinascimentale, che si contraddistingue, tra
l’altro, per il tentativo di costruire un sistema stabile al cui centro stia una visione armoniosa e completa dell’Uomo.
* Erich Auerbach, Mimesis (Il realismo nella letteratura occidentale), Vol. II, cap. 2.
filosofia coscienza laica
“coscienza laica: quella parte di coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la verità per
se stessa e non peR appartenere a una istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla verità, ma
vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa lo fa perchè ne è
profondamante convinta e non perchè l’abbia detto uno dei numerosi papi o uno degli altrettanto numerosi papi della
cultura laicista”
Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffeallo Cortina, 2007 p. 1
filosofia coscienza laica
“coscienza laica”:
“intendendo con ciò quella parte della coscienza, presente in ogni uomo, credente o non credente, che cerca la
verità per se stessa e non per appartenere a un’istituzione; quella parte della coscienza che vuole aderire alla
verità, ma vuole farlo senza alcuna forzatura ideologica, di nessun tipo, e se accetta una cosa, lo fa perché ne è
profondamente convinta, e non perché l’abbia detto uno dei numerosi papi, o uno degli altrettanto numerosi antipapi
della cultura laicista. La vera laicità significa ritenere conclusivo non il principio di autorità ma la luce della
coscienza.”
Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Raffaello Cortina 2007, pag 1
FILOSOFIA ETICA
La legge morale – dice Kant nella Critica alla ragion pratica, I, 1, 3 – deve essere concepita e accettata come un
dovere “utile e valido” in sé (questo è quanto ribadisce anche Hegel nel paragrafo 503 dell’Enciclopedia delle
scienze filosofiche). Il punto è comunque sempre relativo alla questione dell’autorità. E’ necessaria un’autorità che
parli agli altri o “per conto degli altri” sui temi della morale? E se sì, da dove questa autorità trae e legittima (vorrei
quasi dire “sussume”, visto che l’ambito morale è sempre personale) le proprie argomentazioni fino a reputarle
“legittime”? E ancora, possono queste argomentazioni avere valore universale? Se consideriamo la morale al pari
delle altre forme di conoscenza, dovremmo dire che non esiste in sé una logica che giustifichi un’autorità nel campo
della morale. Kantianamente parlando, ognuno costruisce la propria impalcatura morale inserendola nel più ampio
“spettro” delle morali altrui al fine di coabitarvi. Se invece vogliamo considerare, con Hume e i naturalisti, la morale
svincolata dalle altre forme di conoscenza umana e collocarla in un ambito più “utilitaristico”, legata cioè alle
contingenze temporali e pratiche, allora il discorso cambierebbe ancora. Ma risulta chiaro che essa perderebbe
gran parte di quei “valori” universali a cui potrebbe far riferimento, di volta in volta, una qualsiasi autorità che
volesse proporla o – peggio ancora – “imporla”.
A differenza di altri, sui temi della morale non ho certezze, anche se – ovviamente – è uno dei temi che più indago e
che più mi sta a cuore. Non credo che una vita incentrata su una morale – per così dire – “autonoma”, abbia minori
garanzie di “validità” rispetto a quella che segue principi “dettati” dall’alto. Non credo cioè sia una questione di valori
“orizzontali” o “verticali” ad informare un principio etico, quanto piuttosto la capacità di considerare che le pretese
dell’altro, se non vogliono conculcare il mio “principio particolare”, sono lecite. Diverso è quando, su molto vaghi e
fumosi “principi universali”, si vuole concentrare una vasta idea di morale; qui il rischio di sfociare in un certo
“assolutismo” del pensiero è assai probabile. Come probabile diventa anche il pericolo di una radicalizzazione delle
varie “morali”, fino al mancato riconoscimento dell’altro o – peggio ancora – alla pretesa “immoralità” di chi non
accoglie il principio etico di una autorità autoproclamatasi “morale”, anche in palese contraddizione con la propria
storia e la propria pratica quotidiana.
FILOSOFIA LOGOS
Logos in greco è un termine assai plastico, che significa abitualmente «parola», intesa nelle sue forme più diverse
(«discorso», «racconto», «detto», «resa dei conti»…). Ma vuol dire anche «ragione», «senso», e la sua radice leg-
richiama una raccolta, un nesso, un legame. Appartiene al linguaggio comune, ma da Eraclito nel VI sec. a.C., è
stato introdotto in quello filosofico per indicare il principio universale e coesivo del mondo
FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE
«Non conosco libro più calmo, e che disponga maggiormente alla serenità» scrisse Flaubert dei Saggi, e certo, tra i
grandi libri in cui si è espressa la cultura occidentale, non molti sono quelli che presentano altrettanto immediata
l’impronta di uno spirito sereno, coordinatore sovrano e misurato di un’infinita e fluttuante varietà di contenuti.
Sorretta da una curiosità che non si arresta davanti a nulla, l’indagine serrata (se pure niente affatto sistematica)
che Montaigne conduce nel suo libro vede i suoi risultati ridotti a un’unica costante che è lo studio di sé, delle proprie
humeurs et conditions, e attraverso di esso arriva alla rappresentazione dell’uomo «dipinto per intero, e tutto nudo».
Persuaso che tutto sia stato detto e preoccupato di dimostrare che lo spirito umano rimane sempre simile a se
stesso, egli giunge, paradossalmente, alla conclusione che nulla può dirsi che sia certo, se non che tutto è incerto.
Questo gli apre le porte per un viaggio senza fine all’interno di se stesso, solo oggetto possibile della sua ricerca
perché il solo verificabile mediante l’esperienza diretta e, in fondo, il solo interessante per lui: «Io oso non soltanto
parlare di me, ma parlare soltanto di me…». Le parti sono così rovesciate; l’uomo non deve accettare una linea di
condotta precostituita, anche se resa venerabile da una tradizione solida e ormai acquisita, né districare nella selva
di dottrine contraddittorie quella che gli serva come filo conduttore per la propria vita; egli deve piuttosto esprimere
un modo di vita che si propone appunto di essere peculiare e unico. Questa accanita, quasi puntigliosa reductio di
tutta la cultura precedente è stata indubbiamente la grande scoperta di Montaigne, e quella che ha fatto dei Saggi un
punto fermo nella storia della cultura occidentale. Il libro è sì la grande summa in cui vengono esposte, criticate,
parzialmente accettate o respinte con stupefacente libertà di giudizio le teorie tradizionali più generalmente accolte, il
grande serbatoio attraverso cui fluisce lo spirito classico e in cui si raccolgono, filtrate, tutte le principali correnti del
pensiero antico, ma soprattutto è la prima grande rappresentazione moderna dell’uomo nella sua condizione tutta
umana, sradicata, parrebbe, dal suo rapporto esistenziale con la totalità – ma non da quello con la Natura –,
dell’uomo come unico punto di riferimento per ogni azione e ogni giudizio. L’uomo di Montaigne, questo soggetto
«vano, vario e ondeggiante», non è più l’eroe che cerca di superare la propria condizione in uno sforzo tragico o
mistico, ma l’uomo nuovo, l’honnête homme, che accetta se stesso, le sue potenzialità e i suoi limiti. I Saggi sono
perciò il primo grande sforzo, pienamente consapevole, di fare dell’indagine psicologica e morale la sostanza stessa
dell’attività letteraria, giacché il chiarire a se stessi per mezzo della parola le proprie «fantasie informi» diventa in
realtà un modo di vivere più compiutamente: «Non son tanto io che ho fatto il mio libro, quanto il mio libro che ha fatto
me, libro consustanziale al suo autore, di un’utilità personale, membro della mia vita…».
Da risvolto della edizione Adelphi
FILOSOFIA MICHEL DE MONTAIGNE
QUALCHE RIFLESSIONE SU MICHEL DE MONTAIGNE
Giovanni Greco
Università di Bologna
Il Viaggio in Italia di Montaigne – per molte ragioni già chiarite da voci attendibili e per altre che tenterò qui di esporre
– può considerarsi un classico tout court. Così, preliminarmente, mi chiedo con Roberto Roversi: «Sono ancora i
classici il ponte di liane degli incas, tremolanti su tremendi strapiombi, che con filo di dura corda e pezzetti di legno
uniscono ripe lontane e contrapposte altrimenti inaccessibili? Resistono ancora ad essere lo specifico miracoloso di
lunga durata?». E la risposta, per me come per numerosi altri lettori, è sì: non dobbiamo, per esempio, resistere alla
tentazione di attraversare la passerella tesa fra la società organizzata e la giustizia ingiusta dell’emarginazione, o
fra le più diverse sensibilità contemporanee e le antiche tradizioni culturali. Per di più, i classici antichi e moderni ci
consentono di alimentare – è proprio Montaigne a sostenerlo persuasivamente – «un retrobottega tutto nostro,
assolutamente autonomo, ove conservare la nostra libertà, avere il nostro più importante rifugio, godere della nostra
solitudine».
Montaigne non coltiva pregiudizi di stile, ma ha il culto costante dell’antico classico, a cui consacra riflessioni di
notevole respiro, alla Sainte-Beuve per intenderci. Nel panorama del pensiero moderno poi, come si sa, occupa un
ruolo davvero centrale il nostro Michel Eyquem, signore di Montaigne, latifondista benestante e produttore di vini,
autore sostanzialmente di un’unica, incomparabile opera, i Saggi. Invero, il Viaggio in Italia di cui ora ci occuperemo –
anche leggendolo come uno specchio dell’epoca mirabile e miserabile in cui è stato steso – può considerarsi de
plano un arricchimento ed un potenziamento degli Essais, nonché una chiave con cui penetrare nell’essenza
spirituale del Rinascimento europeo.
Montaigne – questo inesauribile maître à penser cinquecentesco che ci accade così sovente di sentir prossimo alla
nostra inquieta “condizione postmoderna” – soffre sì del mal della pietra, ma trova nelle ragioni terapeutiche pure un
pretesto onde intraprendere un viaggio intensamente desiderato: si reca, pertanto, nelle più rinomate stazioni termali
dell’epoca, dai bagni di Plombières ai Bagni della Villa (l’odierna Bagni di Lucca), presso cui si sottopone alle varie
cure con una diligenza venata di scetticismo, che non sa farsi troppe illusioni su risultati e giovamenti.
Montaigne amava talmente viaggiare, visitare luoghi sconosciuti che, alla stessa stregua del lettore trasportato ed
avvinto dal libro che sfoglia, soffriva nel timore che l’opera stesse per giungere alla conclusione: «aveva tanto
piacere di viaggiare che odiava la vicinanza del luogo in cui si sarebbe dovuto fermare».
Il Viaggio in Italia non era destinato alla pubblicazione, e fu scritto in buona parte (poco meno della metà) da un
famiglio di Montaigne di cui non ci è nota l’identità, ma che – come acutamente chiarito da Fausta Garavini, esegeta
ed interprete straordinaria dell’intera opera montaignana – era tutt’altro che sprovveduto dal punto di vista culturale.
A partire dal soggiorno lucchese, Montaigne prova quindi a cimentarsi con la lingua italiana, che dimostra peraltro di
saper usare con una certa studiata familiarità.
Se il Viaggio in Italia di Stendhal «è uno stupendo romanzo», se quello di Montesquieu – anch’egli, come Montaigne,
grande cittadino di Bordeaux – risulta ictu oculi pieno di vita, colore e gusto, il Viaggio in Italia del nostro homme de
lettres – lo ha sostenuto con dovizia di argomenti Guido Piovene – è certamente assai meno pretenzioso, ma, fra tutti
i libri riconducibili a questo genere oltremodo apprezzato e fortunato, è il più bello e il più moderno in assoluto. Non
casualmente Sergio Solmi riteneva che i lavori di Montaigne rappresentassero un’autobiografia di pensieri più che di
fatti: peraltro, già il grande Sainte-Beuve era convinto che Montaigne, autore superbo per profondità e universalità,
fosse l’ “Orazio dei francesi”: «Il suo libro è un tesoro di osservazioni morali e di esperienza. A qualsiasi pagina lo si
apra e in qualsiasi condizione di spirito, si può star sicuri di trovarci qualche pensiero saggio espresso in modo
vivido e duraturo, che spicca immediatamente e s’imprime, un bel significato in una parola piena e sorprendente, in
una sola lega forte, familiare o grande».
Montaigne ha quella che è forse la dote più rilevante dell’autentico viaggiatore, ossia la consapevolezza di non
essere superiore a nessuno; non accetta che il viaggiatore girovaghi per il mondo lamentandosi di non trovare ciò a
cui è abituato: gli piace per contro adeguarsi alle varie peculiarità territoriali, e mai compirebbe un viaggio per
comprovare un preconcetto. Ciononostante, il confronto fra i paesi tedeschi e gli italiani è a nostro netto svantaggio
per l’ordine, la cucina, il benessere, l’onestà, gli edifici, le finiture, le finestre senza vetri, gli alloggi, le seduzioni
inferiori alle attese, le donne etc.
Il “bastione Montaigne”, per utilizzare certe tipologie di Albert Thibaudet, è il bastione dell’uomo interiore, con gocce
di sangue ebraico (la madre era ebreo-spagnola), tradizionalista, moderno, cosmopolita, cattolico, antisistematico,
tant’è che «stoicismo, epicureismo, scetticismo coesistono in lui». Montaigne è, per dirla con Giovanni Macchia, il
maestro del dubbio, del dubbio inteso come antidoto onde tentare di giungere alla verità per quanto concerne sia il
passato sia il presente, il dubbio, ancora, che pervade le ombre e i contorni del futuro. Montaigne sostiene poi che
«la peste dell’uomo è il credere di sapere», e desidera discorsi che «colpiscano il dubbio là dov’è più forte»,
coltivando perciò il dubbio e le cose nella loro essenza. Non per caso Sainte-Beuve definì ore rotundo Montaigne «le
français le plus sage qui aie jamais existé». Fra le altre cose, il nostro filosofo dirà dei commentatori dei suoi tempi
che «c’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose».
Montaigne, che ha conosciuto il latino come lingua madre e nutre un’autentica adorazione per la poesia, è nemico
giurato della noia e di ogni forma passiva e sterile di ozio, nonché scrittore che afferma persuasivamente di
sforzarsi di comporre la sua opera con la maggior sincerità possibile: egli sottolinea con energia quest’ultima, rara
qualità già nel decisivo ed incisivo incipit dei Saggi («Questo, lettore, è un libro sincero»), indicando così con
efficacia il percorso che intende seguire, un progetto che al centro ha la sua stessa persona («sono io la materia
del mio libro»). Del resto, in uno dei suoi più riusciti autoritratti egli prova a spiegare come vede se stesso e perché
parli di sé in quel suo modo sconcertante e inconfondibile: «Se dico cose diverse di me, è perché mi guardo da
angolature diverse. Tutti gli opposti si ritrovano in me in qualche piega o maniera. Discuto, insolente; casto,
lussurioso; chiacchierone, taciturno; laborioso, svogliato; ingegnoso, ottuso; triste, allegro; imbroglione, sincero;
dotto, ignorante e liberale, e avaro, e prodigo, tutto ciò io lo vedo in me in qualche modo, a seconda di come mi giri; e
chiunque si studi attentamente trova in se stesso, e anzi nel suo stesso giudizio, questa volubilità e discordanza.
Non posso dir nulla di me una volta per tutte, semplicemente e per sempre, senza confusione e mescolanza, né in
una parola».
Montaigne è l’uomo di provincia esemplare, è davvero uno scrittore nato, è una coscienza fine ed irrequieta legata
anche sentimentalmente alle discipline giuridiche, è un letterato che, per così dire, si consegna alla carta, è un
filosofo che ritiene l’aspirazione alla saggezza una sorta di gioia permanente. Ha una visione grosso modo laica di
quel cattolicesimo che stima una pratica virtuosa significativa, il miglior modo (forse) di cogliere elementi di autentica
religiosità.
E’ perfettamente consapevole, comunque, della straordinaria difficoltà, per gli uomini, di riconoscere ed afferrare la
verità, convinto com’è che la verità umana, per dirla con Spagnol, si trova più spesso arrotolata fra i panni sporchi
che non nelle pieghe delle solenni cartapecore. Gli è inoltre ben noto che, non di rado, la conoscenza del vero è
conoscenza del nero (Rigoni). Montaigne sembra persino credere che, se è opportuno tendere sempre e comunque
alla verità, essa tuttavia va probabilmente rivelata solo di quando in quando. In piena sintonia con lui è un altro
grande moraliste, quell’Oscar Wilde persuaso del fatto che «la verità di rado è pura, e non è mai semplice». Ancora,
basta una semplice lettura dell’opera montaignana per comprendere non solo quanto gli stessero a cuore quei temi e
problemi di natura morale e pedagogica che andava costantemente indagando nei suoi diletti libri, così come nel
proprio non meno amato percorso esistenziale, ma anche quanto fosse forte in lui – che reputava fra l’altro,
evangelicamente, l’uomo un umilissimo vaso d’argilla – il gusto per le sentenze bibliche e classiche.
La sua Weltanschauung sfocia nel concetto di salute fisica e morale, come acutamente sostenne in pagine famose
Sergio Solmi, che definì la “salute” di Montaigne una qualità innata, un elementare e supremo equilibrio di vita. Quindi:
tener saldo il fisico e non consentire alcun condizionamento alla moralità, per definire un modello di vita preciso e
costruttivo. E non mi sembra davvero un caso che uomini tutt’altro che ingenui e sprovveduti abbiano deciso di
formarsi in maniera a un tempo virtuosa e serena, severa e tollerante, virile e delicata, leggendo e rileggendo
Montaigne: in verità, gli Essais sanno suscitare come ben pochi libri, nell’animo del lettore non distratto, il desiderio
autentico, la volontà di autoeducarsi in maniera equilibrata.
Nei Saggi – ove l’antropologo (in senso etimologico) prevale sul cronista, che la fa invece da padrone nel Viaggio in
Italia – la preoccupazione maggiore di Montaigne è, come accennato, che le sue pagine siano immediatamente
percepite come un libro sincero. Aspira perciò a presentarsi senza infingimenti ed assicura che, se si fosse trovato
fra popoli primitivi, si sarebbe denudato completamente: «Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere semplice,
naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno i miei difetti
presi sul vivo e la mia immagine naturale».
FILOSOFIA PSICANALISI SENSO
L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno è scaturito, al termine del mio percorso, come ultima risposta
all’interrogativo che mi si era imposto fin dall’infanzia:
– Cosa vuole dire che è ciò che è?
Incalzata da questo interrogativo, durante l’adolescenza ne cercai risposta nel pensiero filosofico. Ma neppure
l’ontologia hegeliana, pur nella sua visione di sintesi, mi si presentava come esaustiva, in quanto la vita, nella sua
concreta oggettualità, ne era irrecuperabilmente esclusa. La vita stessa allora mi costrinse a cercare la risposta
nella scienza biologica, la quale immediatamente mi svelò l’ordine evolutivo delle forme viventi come l’ordine di una
dinamica evolutiva del pensiero. Mi sembrò allora giunto il momento di tornare alla filosofia, per trovare la sintesi tra
spirito e materia nella ritrovata coincidenza tra pensiero e vita. Ma ancora una volta la vita mi indicò che era un’altra
la strada da percorrere, quella della riflessione della vita su se stessa: la strada della psicoanalisi. Fu così che
scoprii anzitutto che il metodo psicoanalitico è l’attuazione concreta della dialettica hegeliana, in quanto in esso è il
soggetto umano, e non più un soggetto astratto, a prendere da sé la distanza riflessiva per conoscere se stesso; e
scoprii ancora che ciò di cui il soggetto umano fa conoscenza è lo stesso metodo del conoscersi del Pensiero che,
a partire dal primo manifestarsi dell’Essere, quale proiezione del Soggetto Pensante Uno fuori di sé, ha dato luogo a
tutto ciò che è. A questo punto un nuovo tentativo di evidenziare la sintesi tra spirito e materia in una rilettura
dialettica del pensiero filosofico fu ancora una volta reindirizzato verso una trattazione scientifica dello strutturarsi
del cosmo, a partire dal primo farsi della materia quale oggettiva-zione del Pensiero nel pensato di sé che è ancora
lui stesso. È qui che in me si fece l’esperienza vivente della originaria dualità dell’Uno e si compì un ulteriore salto
riflessivo, grazie al quale la logica della separazione tra soggetto e oggetto si risolse nella logica unitaria dell’in-
tersoggettività. Da qui in poi, grazie alla progressiva consapevolizzazione di questo più elevato livello di riflessione
come realtà concreta nella quotidiana esperienza dell’intersoggettività, il Pensiero affrontò e infine risolse il problema
della coincidenza tra il noumenico e il fenomenico; coincidenza nella quale esso riconobbe la sua realtà di Unico
Vivente. È a questo punto che la vita mi ha risospinto infine verso la filosofia, per ripercorrere la via da essa
tracciata a partire dalla crisi del Pensiero Uno, già colta da me adolescente, scaturita all’inizio del XX secolo dalla
messa in questione del pensiero hegeliano e risolta all’inizio del nuovo millennio nella visione unitaria dell’Essere
quale punto di arrivo del pensiero psicoanalitico. E da questa visione unitaria dell’Essere è emersa l’ultima risposta
all’interrogativo essenziale della mia esistenza:
– Cosa vuole dire che è ciò che è?
– Vuole dire che ciò che è è l’esserci della presenza al cospetto d’altra presenza quale è infinito della vita.
In : Silvia Montefoschi, L’ultimo tratto di percorso del Pensiero Uno. Escursione nella filosofia del XX secolo, Zephyro
Edizioni, Milano 2006
filosofia religione
Qual è la differenza tra religione e filosofia?
Per la filosofia la trascendenza è l’uomo stesso che, pur essendo un ente finito, è capace di pensare l’infinito. La
religione stabilisce una scissione tra immanenza e trascendenza, proponendo se stessa come tramite tra queste
due entità altrimenti tra di loro incommensurabili
Massimo Cacciari
Il catalogo incomincia dalla Bibbia di Gutenberg del 1455
“Vogliamo riempire i buchi e i vuoti della nostra storia”
di VITTORIO ZUCCONI
MOUNTAINVIEW (California) – Il villaggio della memoria totale con quel buffo nome da cartone animato, Google, è tutto di palazzetti bianchi, sparpagliati tra le ultime marcite della baia dove l’Oceano Pacifico muore. Così candido sullo sfondo della Sierra Nevada, nel suo color calce, ricorda quei paesi medioevali del nostro Mediterraneo che John Steinbeck immaginò trovandosi davanti a San Francisco e non solo nell’aspetto. Un dubbio di Medioevo venturo lo percorre davvero, nel silenzio da chiostro che lo avvolge, nella laboriosa e maniacale operosità dei tecno frati e delle cyber suore che lo popolano, ma soprattutto nell’impresa nella quale si sono buttati.
Niente altro che catalogare, ricomporre, riprodurre e salvare l’intera memoria dell’umanità contenuta in tutti i libri del mondo. I tecno monaci del nuovo ordine di San Google stanno in pratica tentando di ricomporre e ricostruire la Torre di Babele, sotto lo sguardo dello stesso Dio geloso che sbriciolò la prima.
Il villaggio si chiama ufficialmente “Googleplex”, come lo hanno battezzato i nuovi “servi a manu”, i nuovi amanuensi che aborriscono espressioni burocratico aziendali come sede centrale o quartier generale. Ma questo, qualunque sia il nome che si vuol dare alla rosa, è il quartier generale di quella società che uno studente americano e un immigrato russo crearono insieme sette anni orsono per rendere più razionale e facile con le loro formule alchemiche l’esplorazione di quella Babele, appunto, di quel caos primordiale chiamato Internet.
Qualche mese addietro, quando la sortita in Borsa della Google ha rovesciato un’inondazione di dollari, 60 miliardi, nella casse della società e nelle tasche dei fondatori e dei primi azionisti oltre i sogni più rosei, anziché correre a comperarsi Ferrari e Rolls, quadri impressionisti e ville in Sardegna, i nuovi ricchi con la vocazione (anche loro) del Bene hanno semplicemente deciso di investire miliardi, intelligenze, forze e tempo per catalogare e mettere a disposizione di tutti, ovunque, ogni pagina di ogni libro di ogni nazione di ogni lingua pubblicato da ogni editore in ogni tempo e in ogni luogo dal 1455, l’anno in cui Johann Gutenberg si cimentò con la Bibbia.
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Nessun libro mai scritto e stampato, per quanto piccolo, insignificante, stupido, brutto, deve andare più perduto, perché ogni pagina è stata, e quindi è, una molecola del cervello collettivo dell’umanità.
Occorre essere molto giovani, molto ricchi, molto ambiziosi, molto Google, soltanto per concepire, non si dice realizzare, una impresa del genere.
“Effettivamente, neanche noi sappiamo quanto tempo occorrerà, forse anni, forse decenni, forse non lo finiremo mai, forse è addirittura impossibile. Che ne sappiamo, ci proviamo”, civetta agitando le mani e sorridendo con i suoi begli occhi color grigio azzurro baltico Marissa, sangue finlandese-americano, una delle due badesse del progetto “biblioteca del mondo”, due donne.
È probabile che menta, Marissa Mayer, perché anche lei, come tutti i giovanotti e le ragazze che si muovono in silenzio dentro il monastero di San Google, non sanno che cosa significhi fallire, non hanno mai battuto la testa contro il soffitto del cielo né subito la collera di questi dei dispettosi che hanno spazzato via con un gesto altri progetti e forato le infinite bolle della superbia umana, da Babele al Nasdaq.
Giovani certamente sono, con una scandalosa età media di 31 anni per i tremila impiegati. Sono carichi di lauree in “computer sciences”, come Marissa, ottenuti nelle migliori università del pianeta, a cominciare da quella vicinissima Stanford, dove il russo Sergey Brin e l’americano Larry Page studiarono e si conobbero. Sono sfacciatamente e meritatamente ricchi, ora che la loro impresa fecondata inizialmente da una donazione di 10 mila dollari che i due non sapevano neppure dove depositare perché non avevano conti correnti bancari, è andata in Borsa dall’autunno 2004 e ha raggiunto un valore di capitale circolante superiore alla General Motors e la Ford. Messe insieme.
E Google, il nome creato giocando sul lemma “googol”, una parola inesistente che il nipotino di un grande matematico americano, Edward Kasner, inventò quando il nonno gli chiese di battezzare il numero 10 alla 100esima potenza (“Uno” seguito da 100 zeri) ha la faccia e l’anima di tutto del mondo, indiani, pachistani, cinesi, arabi, europei biondi e bruni, russi, africani, bianchi, che vedo curvi a compitare stringhe di caratteri sulle loro tastiere mute davanti agli schermi, in uno stato di volontaria e autosufficiente clausura.
Nel parcheggio, tra le solite Volvo scalcagnate, le Toyota usate (ma anche fresche Bmw e Mercedes e Lexus) che segnano tutti i campus della California, sosta uno studio odontoiatrico ambulante, perché neppure carie e nevralgie distolgano tempo dalla missione, mentre terziari laici provvedono a lavare le macchine e una signora turca, proprio turca “native” specifica il manifesto, offre al personale femminile con qualche prurito “lezioni di danza del ventre”.
Un mondo autosufficiente, appunto come un convento cistercense. Ora et labora. Et gioca, come vedo, salutandolo da lontano attraverso i vetri del suo piccolissimo e quindi snobissimo ufficio, proprio Sergey Brin, il fondatore. Telefona da una scrivania assediata da un numero assurdo di automobiline radiocomandate sparse sul pavimento in vari stadi di montaggio e smontaggio, con le loro budelline elettroniche sventrate. Il riposo dell’ingegnere.
Il grande progetto
Non sono stati i primi, né gli unici, ad avere avuto l’idea di riversare nei server, negli armadi elettronici, i libri nel progetto Google Print, come si chiama ufficialmente. Lo fanno già grandi biblioteche universitarie e lo fa la British Library, che ha messo proprio la Bibbia di Gutenberg, conservata nelle proprie teche, in Internet. Lo fanno siti commerciali come la libreria on line amazon. com, che permette la consultazione via computer di estratti dei libri che vende e lo fanno i napoletani dell’associazione Liber Liber che nel loro Progetto Manuzio, il grande tipografo di Velletri contemporaneo di Gutenberg, hanno in rete già centinaia di capolavori della pagina stampata, a disposizione gratuita di tutti.
Non sta dunque nell’idea di portare in Internet il sogno perduto della biblioteca di Alessandria, della biblioteca Marciana di Venezia, della mitica biblioteca di San Giovanni il Teologo a Patmos, del Beato Renano in Alsazia o delle università arabe dove Ibn Sina e Ibn Rushd, Avicenna e Averroè, studiavano e scrivevano, la mirabile insensatezza dei benedettini googoliani.
È nella scala del progetto, in quella presunzione di assoluto contenuta nella promessa di portare ogni libro mai stampato a portata di qualsiasi computer portatile con un collegamento alla rete. Hybris, superbia da Prometei, mi azzardo a dire e lo sguardo baltico di Marissa si ghiaccia: “Noi preferiamo chiamarlo il nostro progetto Luna, il nostro Moonshot, quello che John Kennedy propose nel 1961, senza avere i mezzi, i soldi, la tecnologia per realizzarlo. Si ricorda?”. Mi ricordo, io ero già grande “Otto anni dopo, il 20 luglio del 1969, Armstrong mise il piede sulla Luna. Era hybris, superbia, anche quella di Kennedy?”.
Ma la luna era un passetto da bebè rispetto a questo balzo. “Soltanto nella Bibioteca del Congresso a Washington ci sono 12 terabytes da registrare”, 12 mila miliardi di caratteri in 28 milioni di libri. E pochi di meno a Manhattan, nella Public Library di New York, nella Harvard di Cambridge, Massachussets, a Oxford, nelle cinque grandi biblioteche già convertite al progetto Babele, un’enormità di pagine stampate che, dagli ideogrammi cinesi a Bejing ai kanji Giapponesi, al cirillico, all’arabo nessuno può neppure cominciare a quantificare.
I rivali, che hanno visto in neppure sette anni, dal 1998 quando la Google Inc fu creata, risucchiare l’80% di tutte le queries, le ricerche, provenienti dal mondo intero, dicono che questa volta Brin, Page, i loro piccoli wizards, i loro Henry Potter, si romperanno il nasino. Che non ce la faranno a completare questo stunt, questo numero e può darsi che gli invidiosi abbiano ragione e il progetto di ricomporre l’albero della conoscenza, sia la loro fine.
Ma la metafora della Luna li sorregge più di quanto le rovine della Torre o la cacciata dall’Eden li inquietino. È toccante scoprire che giovanotti neppure nati quando Eagle allunò nel mare della Tranquillità, ancora sentano il richiamo di quella chiamata alle armi senza guerre. Ma come farete a spremere e infiascare nei vostri server tutti i libri del mondo?
“Prima di tutto dobbiamo risolvere il problema del copyright, dei diritti degli autori e degli editori. Stiamo assumendo più avvocati che specialisti di informatica, per negoziare con le case editrici in tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. Poi dobbiamo affrontare la difficoltà maggiore, quella di sfogliare le pagine, una per una”. Mi racconta che lei e Sergey Brin, uno dei due cofondatori che potrebbe, a 30 anni, incassare il suo primo miliardo di dollari (la domanda pubblica di vendita di azioni è già stata fatta alla Commissione di Borsa, come vuole la legge americana quando sono i grandi azionisti dirigenti a liquidare) e vivere in eterno senza riuscire a spenderli, dopo avere partorito insieme l’idea provarono a riversare un libro qualsiasi, comperato in libreria, di 300 pagine nel computer. “Facendo una pagina a testa, a mano, dalla copertina alla quarta di copertina, impiegammo quasi un’ora”.
Dunque, calcolando a braccio, soltanto per smazzare i 28 milioni di libri raccolti alla Library of Congress di Washington, i due impiegherebbero almeno 28 milioni di ore, un milione e 166 mila giorni, tre millenni, secolo più secolo meno. No, così non poteva funzionare, a meno di impiegare milioni di amanuensi e poi nemmeno, perché errare è umano “e alla fine ci accorgemmo che nella scannerizzazione delle pagine, cioè nella trasposizione delle parole stampate in caratteri alfanumerici, c’era stato il 3% di errore, circa 10 pagine su 300 sbagliate. Inaccettabile”.
Ci hanno provato coi robot. Si sono rivolti all’Università americana più avanzata nella ricerca robotica, la Carnegie-Mellon di Pittsburgh, perché gli progettassero un automa amanuense. Mi fanno vedere una specie di benedettino meccanico, un ragno capace di sfogliare le pagine, di leggerle e di pomparle poi dentro la memoria dei computer. “Non ci siamo ancora”, ride Marissa “i robot usano ventose per girare le pagine, ma qualche volta la strappavano, non le voltavano per bene, lasciavano pieghe che interferivano con la lettura ottica. Non possiamo correre il rischio di strappare una pagina della Bibbia del 1455 e poi dire, ooops, sorry, adesso la incolliamo con lo scotch tape”. No, effettivamente, alla British ci resterebbero male.
“Per i libri nuovi, in commercio, la soluzione è quella di strappare le pagine una per una, e passarle su un lettore piatto, tipo fotocopiatrice o fax, ma con i libri fuori stampa o addirittura antichi, non se ne parla. Anche se potessimo farlo, il costo di rimettere poi insieme le pagine e rilegare di nuovo il libro sarebbe proibitivo”. Esattamente come nel 1961, quando Kennedy si buttò sulla Luna, c’è l’idea, ci sono i soldi, ma la tecnologia per realizzarla è ancora da inventare.
Forse per questo, tutto è ancora rigorosamente segreto. Marissa mi dice soltanto che “alcune nostre squadre stanno già lavorando in questo momento con biblioteche e bibliotecari, mentre gli avvocati trattano con gli editori per i diritti”, una piaga, questa dei legali, che almeno agli architetti della Torre fu risparmiata. Ma non mi vuol dire esattamente dove.
Come tutti i grandi ordini religiosi, i grandi monasteri e Disneyworld, dove tutto sembra dolce e soffice in superficie, ma sotto il saio e sotto il pelouche ci sono segreti e sancta sanctorum, anche Google è un’armata soft, ma un’armata non di meno. Sa di essere impegnata in una guerra buona (“Non fate mai il Male” è il motto ultrabuonista dei fondatori, che precede persino George Bush) ma una guerra, contro avversari che ogni secondo di ogni giorno lavorano per portarle via i segreti del successo.
L’arma di dominio di massa è il numero delle richieste che 200 milioni di utenti di Internet presentano ogni giorno al sito di Google, con queries, domande che coprono l’universo delle curiosità lecite e illecite e, secondo i rating di NetMetrix, rappresentano il 70% del traffico mondiale. Avere nei propri cervelli elettronici l’intera memoria bibliografica del mondo promette nuovi e ancora più grandi maree di contatti, oltre a quelli che vedo scorrere incessantemente sui grandi monitor al plasma accesi ovunque dentro le palazzine bianche.
Depurate delle richieste oscene o delle domande di accesso alla galassia del porno Internet, passano sugli schermi richieste in ogni lingua, in cinese e in hindi, in russo, in spagnolo, in italiano. Dall’Italia, sanno tempestando Google con domande sulla storia, le dimensioni e le immagini del Partenone. C’è qualche scolaro disperato, o qualche genitore premuroso a Varese o a Messina, a Venezia o a Imperia, che sta sudando sangue su una ricerca.
Le domande del mondo
E proprio in quelle domande che corrono a cascata sugli schermi al plasma e divengono raggi luminosi che si sprigionano dal mappamondo virtuale che ruota su un altro monitor per indicare graficamente da dove vengano, e quante siano le queries, c’è la dolcezza di questa superbia. Spogliata di tutta la retorica spesso imbonitoria della New Economy, l’impresa dei trentenni di Google è il tributo finale del futuro al passato, la pace tra la memoria e la fantascienza.
Carta e silicio, rilegatori e programmatori, si riconciliano nella fatica di questa sfida. “Le racconterò come mi è venuta l’idea”, si scioglie alla fine la signora del Baltico trapiantata sulla Baia di San Francisco. Un giorno, frugando nella classica soffitta, trovai un sussidiario di quinta elementare appartenuto a mio nonno, quando era bambino a Helsinki. Cominciai a leggerlo e poi a cercare gli altri volumi, dalla prima alla quarta, e non c’erano più, erano andati persi, o buttati via. Pensai a quanti bambini finlandesi erano cresciuti e si erano formati su quei sillabari e sussidiari, che erano entrati a far parte della loro memoria collettiva e quindi della storia di una nazione, di una cultura, del mondo e che erano andati perduti per sempre. C’era un buco, un vuoto, nella nostra storia. Ne parlai con Sergey Brin, uno degli inventori e fondatori – e anche lui, che era andato via dall’Unione Sovietica con la sua famiglia quando era ancora alle elementari aveva pensato le stesse cose”.
Dunque ricordare tutto, per non ripetere niente, per non farsi ingannare da chi riempie le fosse delle amnesie con le nuove bugie. Già oggi, Google è diventato un verbo, “to google”. Se qualcuno vi racconta qualcosa di sospetto, se un politico proclama qualche verità trombonesca, sulle tasse, sulla guerra, sulla storia, “google it”, andate a verificare. In fondo, dietro le magie dei bit e dei byte, si sente una inespressa e inconfessabile intenzione politica, nel senso più alto della parola. La verità della memoria, che è l’antitesi di ogni ideologia. L’antidoto definitivo a ogni possibile censura, a ogni falò di libri, a ogni indice.
Nel Mein Kampf, Adolf Hitler scrive che “la capacità della masse di comprendere è molto limitata, ma la loro capacità di dimenticare è infinita”. Se la pazzia di questi nuovi scalatori della Luna nel loro convento modernista alla fine dell’Oceano riuscirà, nessuno potrà più dire che “non sapeva”.
Nella raccolta di ogni parola mai scritta, di ogni pensiero mai formulato, c’è la Bibbia dell’uomo, il nuovo peccato imperdonabile della libertà di conoscere. Potrà il Dio geloso di Babele permetterlo?
(23 gennaio 2005)
La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche è un libro di Romano Màdera e Luigi Vero Tarca, pubblicato da Bruno Mondadori nel 2003
Il libro spiega le ragioni per cui la dimensione pratica della filosofia è stata trascurata nel tempo, riproponendo questa sua peculiarità e adattandola al contesto storico odierno
I contenuti del libro
Romano Màdera è stato professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano Bicocca, analista junghiano, fondatore e presidente della Scuola superiore di Pratiche filosofiche Philo di Milano
Caro Professore, fu soltanto dopo la pubblicazione del mio Krisis, nel 1976, che lessi per la prima volta le sue fondamentali opere degli anni Cinquanta e Sessanta. Ma credo che proprio la distanza della mia formazione filosofica e delle mie prime esperienze culturali e politiche dal suo percorso di studioso e dall’ambiente in cui esso maturò, mi abbia permesso di avvicinarmi, forse più di altri, al significato davvero decisivo che il suo pensiero riveste per la filosofia del Novecento. Finché la «storia» della filosofia contemporanea continuerà ad essere «giocata» o all’interno della «linea» nietzschiana-heideggeriana-ermeneutica, o nell’opposizione tra questa e quella analitica, temo non ne risulterà mai comprensibile il vero problema. Esso risulta evidente, a mio avviso, soltanto sulla base di una radicale contradizione, di un autentico dramma a due protagonisti: Heidegger e Severino. Si tratta di una relazione inconciliabile, di un aut aut. Quando finiranno le chiacchiere e confusioni alla moda, quando si potrà studiare la nostra epoca da una «buona» distanza, non dubito che tale decisione apparirà il problema fondamentale della nostra filosofia – e non solo. Heidegger – senza alcuna distinzione tra le varie fasi del suo pensiero – coglie tutta l’ intrinseca debolezza dell’antiplatonismo idealistico e nietzschiano, per svilupparlo (lungi dal negarlo!), coerentemente e radicalmente, in un grandioso anti-Parmenide. L’opera di Severino (mille miglia oltre ogni astratta polemica) rappresenta l’altro polo. Davvero, ogni altra posizione sembra oggi «costretta» nella forma di questa polarità. Non credo, caro Professore, che aver compreso la sua lezione significhi semplicemente esplorare i contorni di tale polarità e saggiarne le conseguenze. Significa affrontarne la sua pretesa definitività, il suo «consummatum est». La strada finisce anche giungendo alla mèta – anch’essa è aporia. E l’ aporia può essere nuovo inizio. Su questo «scommettono» i suoi migliori allievi, io credo. Ne segua benevolmente l’improbus labor, senza mai consolarne debolezze e contraddizioni.
La sua lezione è pari a quella di Heidegger
Repubblica — 22 febbraio 2001
“Se cerco di cogliere sul piano esperienziale il fenomeno intersoggettivo che io assumo come parametro, strumento e finalità del mio interagire col paziente, devo dire che esso si rivela a me come la felice condizione dell’esistere con l’altro senza bisogni.
Se però analizzo questa condizione mi accorgo che essa si fonda sul soddisfacimento di due bisogni che le sono essenziali; quello che l’altro ci sia, in quanto è grazie all’esserci dell’altro che io mi manifesto come esistente e mi riconosco, e quello che io ci sia in libertà, poiché mi riconosco solo se sono libera di dirmi e di darmi così come, di volta in volta, l’esistere dell’altro mi rivela a me stessa.
In questa felice condizione, quindi, non percepisco altri bisogni se non quelli della presenza dell’altro e della mia libertà. Non sono forse questi i requisiti dell’esistere dell’uomo come soggetto?
…
Devo procedere nell’analisi di queste caratteristiche: la relazione e la libertà.
Il primo bisogno del soggetto per essere tale è l’esistenza di un altro da sé. Molte sono le forme sotto le quali questo altro si fa presenza agli occhi dell’uomo: può essere, di volta in volta, il mondo esterno, ovvero il mondo delle cose e dei valori sociali, o il mondo interno, ovvero il mondo dei pensieri e degli affetti; può essere il Tu umano, l’altro dell’incontro, o il Tu interiore, l’altro cui l’uomo si riferisce quando è con se stesso; può essere la corporeità dell’uomo o i suoi comportamenti o i suoi modi di rapportarsi al mondo, nel momento in cui egli se ne distacca per riconoscerli e riferirli a sé; può essere infine l’uomo nella sua globalità, quando l’uomo stesso prende da se medesimo la distanza necessaria per definirsi in una identità.”
in Silvia Montefoschi, L’Uno e l’Altro: interdipendenza e intersoggettività, Feltrinelli, 1977, ora in Silvia Montefoschi, L’evoluzione della coscienza, Opere, Volume Secondo – Tomo 1, Zephyro Edizioni, Milano 2008, p. 74-75.
Qui in formato Mp3:
Sogno della accettazione delle parzialità, 29 dicembre 1992
Dò molta importanza agli eventi casuali che costellano la mia esistenza.
Dico sempre che niente avviene a caso. Nel caso c’è sempre un messaggio da trovare e comprendere.
Bene. Qualche giorno fa Batsceba (blogger di splinder con la quale ho perso i contatti) ha invitato sul suo blog a parlare di qualche proprio sogno. Un invito interessante, perchè talvolta propongono immagini potentissime.
I sogni sono una cosa seria, impegnativa. Sono anche qualcosa di un po’ sacro. Parlo di una sacralità interiore.
Proprio in quelle ore, riordinando la mia biblioteca avevo trovato un pacco di miei sogni, risalenti ad un periodo in cui non solo alla mattina li ricordavo, ma addirittura li ricopiavo per conservarli. Appunto come qualcosa di sacro, in quanto proveniente da quella parte di me non controllata dalla coscienza.
E così ho tirato fuori il sogno della accettazione delle parzialità.
Quella notte mi svegliai di colpo con l’impellente bisogno di scriverlo.
E’ fantastico svegliarsi in piena notte. Spinto da una forza irresistibile di fare i conti con me stesso.
Di questi tempi non mi capita più.
Per forza: sono sempre qui attaccato al blog … anche per la canzone di mezzanotte … si dorme poco … si ricorda poco dei sogni …
17 febbraio 2007
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Notte del 29 dicembre 1992 ore 2 e 20
Ho partecipato ad alcuni gruppi di incontro psicologico con fini terapeutici. Di quelli molto diffusi negli Stati Uniti, nei quali le persone si trovano per più giorni ed effettuano intense esperienze di comunicazione interpersonale e corporea.
In una di queste esperienze mi assumo io il compito di guidare un piccolo gruppo di attività creativa: mi pare di una cosa pittorica.
Il punto fondamentale è questo: non c’ è un momento di comunicazione complessiva al gruppo globale di questa singola esperienza che io conduco. Il piccolo gruppo non comunica a quello grande ciò che è successo.
Questo crea dei conflitti e qualcuno mi chiede il perché di questo.
Io lo liquido abbastanza velocemente ed una ragazza prende le mie difese e mi da ragione, dicendo che il desiderio invadente di sapere è un problema di quella persona, non mio.
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In sé il sogno potrebbe fornire pochi messaggi significativi.
Sennonché quella notte feci una lunga “Reverie”, ossia una riflessione fra il conscio ed il dormiente di cui parla il filosofo francese Gaston Bachelard. Una esperienza davvero piena di anima.
E questo è il commento, registrato quella notte e poi da me trascritto dalla voce notturna e conservato come uno dei più potenti messaggi che il mio inconscio mi abbia suggerito:
Mi sono chiesto se qui ci sia anche un messaggio di valutazione del punto in cui sono nel percorso della mia vita e della stessa analisi. Come se fossi ad un bivio.
In particolare mi viene in mente la mia attuale situazione esistenziale.
Mi trovo nella condizione di poter accettare una serie di mie parzialità psicologiche.
Un esempio di parzialità è quella per cui, pur non avendo capacità grafiche, ultimamente imposto quasi tutto il mio lavoro didattico utilizzando le immagini.
Certe immagini geometriche, che tuttavia hanno un effetto evocativo non basato sulla parola.
Una seconda mia parzialità è quella per cui, pur non avendo una cultura filosofica (neppure elementare), sento di aver bisogno di riferimenti filosofici che ricerco anche in modo confuso ed eclettico nelle mie ricerche bibliografiche. Ed alcuni concetti, magari avvicinati in modo semplificato e superficiale, entrano a far parte della mia attività culturale.
Io credo che questo abbia a che fare con la mescolanza fra discorsi tecnici e spazio creativo. Mi rendo conto di avere due tipi di attività psichica: una collegata alla razionalità e un’altra – più laterale – in cui mi permetto di dare spazio alla creatività.
Dunque vivo esperienze parziali.
E allora forse questo sogno sta dicendomi qualcosa di molto significativo su come e dove orientare il tempo che resta della mia vita.
Ed ecco che , in questo momento , del sogno ricordo ancora qualcosa …. Qualcosa ancora sta affiorando … Era lì sopito … Ma la Reverie lo estrae.
I fatto è che tutti ce ne andiamo da quel luogo terapeutico, ognuno va per conto suo.
Io però poi provo il desiderio di scrivere a ciascuno una lettera, pur rendendomi conto che è una cosa scorretta, in quanto per farlo devo andare ad indagare sugli indirizzi privati delle persone e questo non fa parte della situazione relazionale che avevamo impostato nel gruppo.
A ciascuno dico la mia e più o meno faccio un discorso sull’importanza del “politeismo dei valori”.
Cioè dico che ciascuno prende dalla vita alcune occasioni,ed in queste occasioni l’importante è valorizzare la soggettività di ciascuno. Nel senso che le esperienze consentono di esprimere la soggettività di ciascuno.
E nella lettera dico che sono contento per l’esistenza di ognuno di loro.
Ma l’esperienza si è conclusa lì.
Il cammino insieme si è concluso.
E se io non ho potuto dire a loro che cosa era avvenuto nell’ esperienza di gruppo che avevo gestito, questo non era un errore mio, ma semmai un problema di progettazione dell’’ attività terapeutica complessiva.
E che bisogna accettare che ci sono delle situazioni nelle quali non si riesce a fare tutto.
E che nonostante questo, io conservavo dentro di me un’immagine di ciascuno molto intensa.
E c’ è anche l’esigenza di provare a cambiare la vita.
Di essere più attivo nel mio progetto esistenziale.
Cioè devo attivamente prendere atto che sono ad un punto del percorso in cui posso accettare le parzialità della mia storia personale e che contemporaneamente devo fare uno sforzo attivo su di me.
E percorrere un’altra strada del bivio.
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In quella notte finiva il mio lungo cammino di analisi, iniziato nel settembre 1978 :mi ricordo … L’APPUNTAMENTO, narrazione dal lontano settembre 1977.
Grazie, Claudio

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VITA
Nato il 26 gennaio 1929 a Brescia, Emanuele Severino si laurea a Pavia nel 1950 con Gustavo Bontadini, con una tesi su “Heidegger e la metafisica”. Ottiene la libera docenza in filosofia teoretica nel 1951. Dopo un periodo di insegnamento come incaricato all’Università Cattolica di Milano, nel 1962 diventa ordinario di Filosofia morale presso la stessa Università. Dal 1970 è ordinario di Filosofia teoretica presso l’Università di Venezia dove è stato direttore del Dipartimento di filosofia e teoria delle scienze fino al 1989.OPERE
Note sul problematicismo italiano,Brescia, 1950; La struttura originaria (1957), Milano, 1981;Studi di filosofiadella prassi(1962), Milano, 1984;Essenza del nichilismo, Milano, 1972;Gli abitatori del tempo,Roma , 1978;Legge e caso, Milano, 1979;Techne. Le radici della violenza,Milano, 1979;Destino della necessità, Milano, 1980;A Cesare e a Dio,Milano, 1983La strada,Milano, 1983;La filosofia antica,Milano, 1985;La filosofia moderna,Milano, 1985;Il parricidio mancato,Milano, 1985;La filosofia contemporanea,Milano, 1988;Il giogo, Milano, 1989;La filosofia futura,Milano, 1989;Alle origini della ragione:Eschilo, Milano, 1989;Antologia filosofica, Milano, 1989;Il nulla e la poesia. Alla fine dell’età della tecnica: Leopardi, Milano, 1990;La guerra, Milano, 1992;Oltre il linguaggio,Milano, 1992;Tautotes, Adelphi, Milano, l995.
PENSIERO
A partire da Platone una “cosa” è ciò che si mantiene in un provvisorio equilibrio tra essere e non essere. Questa “fede nel divenire” implica che
l’ “ente” sia un niente, quando non è ancora nato o non è più. E’ questa, per Severino, la “follia” dell’Occidente, il “sentiero della notte”, lo spazio originario in cui sono venuti a muoversi e ad articolarsi non solo le forme della cultura occidentale, ma anche le sue istituzioni sociali e politiche. Di fronte all’angoscia del divenire, l’Occidente, rispondendo a quella che Severino chiama la “logica del rimedio”, ha evocato gli “immutabili” (Dio, le leggi della natura, la dialettica, il libero mercato, le leggi etiche o politiche, ecc.). La civiltà della tecnica sarebbe il modo in cui oggi domina il senso greco della “cosa”. All’inizio della nostra civiltà Dio – il Primo Tecnico – crea il mondo dal nulla e può sospingerlo nel nulla. Oggi, la tecnica – ultimo dio – ricrea il mondo e ha la possibilità di annientarlo. Nella sua opera Severino intende mettere in questione la fede nel divenire entro cui l’Occidente si muove, nella convinzione che l’uomo vada alla ricerca del rimedio contro l’angoscia del divenire innanzitutto perché crede che il divenire esista.
Contributi dell’autore all’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche:
Trasmissioni
Articoli
Aforismi
Interviste
da: Emanuele Severino.
Ovunque si getti lo sguardo, i giornali
son pieni
del nome di Mussolini.
A quelli che non l’hanno mai visto
lo descrivo io, Mussolini.
Punto per punto,
tratto per tratto.
Genitori di Mussolini,
non sforzatevi di criticarmi!
Non gli somiglia?
La copia più esatta
è la sua politica.
Mussolini
ha un orribile
aspetto.
Nude le estremità,
nera la camicia,
sulle braccia
e sulle gambe
migliaia
di peli
a ciuffi.
Le braccia
arrivano ai calcagni
e scopano per terra.
Nell’insieme
Mussolini
ha l’aspetto di scimpanzé
Non ha faccia :
al suo posto
ha un enorme
marchio da brigante.
Quante narici
ha ogni uomo!
È inutile!
Mussolini
in tutto,
ne ha una sola,
e anche questa
gli è stata spaccata
esattamente in due
alla spartizione
del bottino.
….
vai alla intera poesia:
https://incidenze.blogspot.com/2012/10/gente-che-non-ho-mai-visto-mussolini-di.html
Emanuele Severino è stato un influente filosofo italiano, nato a Brescia il 26 febbraio 1929 e scomparso nella stessa città il 17 gennaio 2020. La sua opera ha avuto un impatto significativo sulla filosofia contemporanea, in particolare per la sua critica al nichilismo e la sua proposta di un ritorno alla concezione dell’essere, ispirata ai presocratici, in particolare a Parmenide.
Severino si laureò in Filosofia all’Università di Pavia nel 1948, discutendo una tesi su Heidegger sotto la supervisione di Gustavo Bontadini. Dopo aver ottenuto la libera docenza in Filosofia teoretica nel 1950, iniziò la sua carriera accademica all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel 1954. Qui divenne professore ordinario di Filosofia morale nel 1962 e pubblicò opere significative come Studi di filosofia della prassi (1962) e Ritornare a Parmenide (1964) [1][3][7].
Nel 1970, Severino si trasferì all’Università Ca’ Foscari di Venezia, dove contribuì alla fondazione della facoltà di lettere e filosofia. Rimase attivo in questa istituzione fino al 2001, quando divenne professore emerito. Durante il suo incarico, Severino ha diretto l’Istituto di Filosofia e ha insegnato vari corsi, inclusi logica e storia della filosofia [4][5][7].
Il pensiero di Severino è caratterizzato da una profonda riflessione sul concetto di essere. Egli sostiene che la storia della filosofia occidentale è segnata dal nichilismo, poiché molte correnti filosofiche tendono a ridurre l’essere al nulla. Per superare questa crisi, Severino propone un ritorno alla concezione dell’essere come immutabile e eterno, contrapposta all’idea del divenire [1][2][7].
Severino ha anche esplorato le implicazioni del suo pensiero per la tecnica e la società contemporanea, criticando il modo in cui il pensiero moderno affronta la questione dell’essere. Le sue opere principali includono titoli come Essenza del nichilismo (1972), La struttura originaria (1958) e Il destino della tecnica (2009), che riflettono la sua visione critica della tradizione metafisica [1][2][3].
Severino è stato nominato Accademico dei Lincei nel 1994 e ha ricevuto numerosi riconoscimenti per il suo contributo alla filosofia. Ha collaborato con importanti pubblicazioni italiane come il Corriere della Sera. La sua influenza si estende anche attraverso i suoi allievi e le generazioni successive di filosofi che hanno continuato ad esplorare i temi da lui introdotti [2][5][7].
In sintesi, Emanuele Severino rappresenta una figura centrale nella filosofia italiana del XX secolo, noto per le sue profonde analisi sull’essere e per la critica al nichilismo che permea gran parte della tradizione filosofica occidentale.
Citations:
[1] https://www.treccani.it/enciclopedia/emanuele-severino/
[2] https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2020/02/Emanuele-Severino-e-Gianni-Vattimo-In-cammino-verso-il-nulla–0930282d-897b-4310-8a53-b847c8ac5d24.html
[3] https://www.casadellacultura.it/1022/emanuele-severino-nel-ricordo-di-galimberti
[4] https://www.cinquantamila.it/storyTellerArticolo.php?storyId=4fca90dc08db4
[5] https://www.unive.it/pag/14024/?tx_news_pi1%5Bnews%5D=8425
[6] https://www.vitaepensiero.it/scheda-articolo_digital/emanuele-severino/la-struttura-dellessere-001050_1950_05-6_43067002-378676.html
[7] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[8] http://www.filosofia.it/archivio/images/download/argomenti/SguardosuSeverino_Miligi_Torno_07.pdf
[9] https://www.emanueleseverino.it/biografia/
Emanuele Severino ha scritto numerose opere fondamentali che hanno influenzato profondamente la filosofia contemporanea. Di seguito sono elencate alcune delle sue principali opere:
Le opere di Severino affrontano temi come:
Severino è noto per la sua capacità di affrontare questioni complesse con uno stile rigoroso e una profonda conoscenza della tradizione filosofica, rendendo le sue opere accessibili sia a studiosi che a lettori interessati.
Citations:
[1] https://librerie.unicatt.it/libri-autore/emanuele-severino.html
[2] https://www.larivistadeilibri.it/emanuele-severino/
[3] https://www.adelphi.it/catalogo/autore/941/emanuele-severino
[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[7] https://www.lafeltrinelli.it/libri/autori/emanuele-severino
[8] https://www.mimesisedizioni.it/catalogo/autore/3900/emanuele-severino
Le opere di Emanuele Severino affrontano diversi temi centrali della filosofia, con un focus particolare sull’essere, il nichilismo e la condizione umana. Ecco un riepilogo dei principali temi trattati:
Severino pone al centro del suo pensiero la questione dell’essere, sostenendo che ogni ente è eterno e immutabile. Questa tesi è espressa in opere come La struttura originaria e Ritornare a Parmenide, dove afferma che l’essere non può mai diventare nulla, e quindi ogni essente esiste eternamente, indipendentemente dalla sua apparizione o scomparsa[1][2].
Severino analizza il nichilismo come una delle principali problematiche della filosofia occidentale, ritenendo che molte tradizioni filosofiche abbiano erroneamente accettato l’idea che l’essere possa divenire nulla. La sua critica si estende a diverse correnti di pensiero che, secondo lui, hanno contribuito a questa visione decadente della realtà[1][3].
Contrariamente alla concezione tradizionale del divenire come elemento fondamentale della realtà, Severino sostiene che il cambiamento è illusorio. Ogni ente, anche se appare in forme diverse nel tempo, rimane eternamente ciò che è. Questa idea si riflette nella sua metafora del “cerchio dell’apparire”, dove gli enti entrano ed escono dalla vista ma non dalla loro esistenza[1][2].
Severino esplora anche la condizione dell’uomo nel contesto della verità e dell’errore. Sottolinea come l’uomo sia conteso tra la consapevolezza della propria mortalità e la verità dell’essere eterno. La sua filosofia invita a superare la percezione di caducità per riconoscere l’eternità intrinseca di ogni ente[2][5].
Severino critica sia il capitalismo che il comunismo, vedendoli come espressioni di una “vita inautentica” dominata dalla tecnica. Egli avverte dei pericoli insiti in una società che perde di vista il significato profondo dell’essere a favore di un’esistenza superficiale e tecnocratica[1][3].
In sintesi, le opere di Emanuele Severino si concentrano su una visione filosofica radicale che sfida le convenzioni tradizionali riguardo all’essere, al cambiamento e alla condizione umana, proponendo una riflessione profonda sull’eternità e sull’illusorietà del divenire.
Citations:
[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Emanuele_Severino
[2] https://www.pandorarivista.it/articoli/emanuele-severino-filosofia-e-destino-occidente/
[3] https://www.emanueleseverino.it/il-pensiero-filosofico-di-emanuele-severino/
[4] https://ritirifilosofici.it/note-su-alcuni-termini-del-linguaggio-di-severino-i/
[5] https://www.lelettere.it/blog/41/emanuele-severino-leternita-di-tutte-le-cose
Emanuele Severino interpreta il concetto di “dominio della tecnica” come un fenomeno centrale nella civiltà contemporanea, riflettendo sulla sua profonda influenza sulla condizione umana e sulla filosofia occidentale. Ecco i punti chiave della sua interpretazione:
Severino considera la tecnica non solo come un insieme di strumenti, ma come un’espressione della volontà umana di dominare e trasformare la realtà. In questo contesto, la tecnica diventa il principale mezzo attraverso cui l’umanità cerca di affermare il proprio potere sul mondo, ma al contempo rappresenta una perdita di controllo, poiché l’uomo finisce per diventare schiavo della propria creazione[1][5].
Secondo Severino, il dominio della tecnica è intrinsecamente legato al nichilismo, che egli definisce come la grande contraddizione che muove l’Occidente. Questo nichilismo si manifesta nella convinzione che gli enti oscillino tra l’essere e il non essere, portando a una visione del mondo in cui la tecnica diventa l’unico principio di riferimento per l’agire umano. La tecnica, quindi, è vista come il culmine della fede nel divenire, un’idea che Severino critica profondamente[2][3].
Severino sostiene che la tecnica ha assunto un ruolo così predominante da diventare il vero destino dell’umanità. Essa non è più semplicemente un mezzo per raggiungere fini, ma è diventata un fine in sé, trasformando radicalmente l’essenza dell’agire umano. Questo cambiamento implica che l’umanità non riesca a concepire un’esistenza al di fuori della dimensione tecnica[1][4].
Severino critica la tradizione filosofica occidentale per aver abbandonato l’essere parmenideo a favore del divenire, generando così una crisi esistenziale e una nostalgia per l’essere. In questo contesto, la tecnica rappresenta una risposta alla paura del nulla e all’angoscia del divenire, ma anche una forma di alienazione[5][6].
Infine, Severino avverte che la tecnica avanza senza incontrare limiti invalicabili, liberata dalla filosofia contemporanea che le consente di procedere all’infinito. Questo aspetto solleva interrogativi etici e filosofici riguardo al futuro dell’umanità e alla direzione in cui ci sta portando il dominio della tecnica[3][5].
In sintesi, per Severino, il dominio della tecnica è una manifestazione complessa della condizione umana contemporanea, caratterizzata da una tensione tra desiderio di controllo e perdita di libertà, con profonde implicazioni filosofiche e sociali.
Citations:
[1] https://www.npensieri.it/approfondimenti/filosofia/filosofi/filosofia-contemporanea/domande-e-risposte-su-emanuele-severino/
[2] http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/5860/844768-1180261.pdf?sequence=2
[3] https://www.dpceonline.it/index.php/dpceonline/article/download/1185/1138/2152
[4] https://emanueleseverino.com/2021/02/16/il-pensiero-severino-come-egli-stesso-ricorda-in-unintervista-rammenta-quando-formulo-le-sue-idee-per-la-prima-volta-quelle-idee-destinate-a-suscitare-cosi-tanto-stupore-aveva-ventitre-anni/
[5] https://www.filosofico.net/severino.htm
[6] https://www.docsity.com/it/docs/il-destino-della-tecnica-emanuele-severino-riassunti/5084305/
[7] https://www.ousia.it/content/Sezioni/Temi/Tesi/NichilismoTechnePoesia.doc
Giacomo Leopardi, uno dei più grandi poeti italiani, ha riflettuto profondamente sul tema del tempo e della sua fugacità. Le sue opere esprimono un’intensa consapevolezza della transitorietà della vita e dell’inevitabilità del passare del tempo. Ecco alcune citazioni significative che illustrano il suo pensiero:
“Silvia, rimembri ancora quel tempo della tua vita mortale, quando beltà splendea negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi?”
Questi versi evocano la bellezza e la gioventù, sottolineando come il tempo porti via le speranze e le illusioni giovanili[1].
“Oh come grato occorre nel tempo giovanil, quando ancor lungo la speme e breve ha la memoria il corso.”
Qui si evidenzia la dolcezza della giovinezza, contrapposta alla tristezza che il passare del tempo porta con sé[4].
“Quanto più del tempo si tiene a conto, tanto più si dispera d’averne che basti; quanto più se ne getta, tanto par che n’avanzi.”
Questa riflessione mette in luce la nostra relazione complessa con il tempo: più lo consideriamo prezioso, più ci sembra di non averne mai abbastanza[5].
“Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di disperazione già matura.”
Qui il poeta suggerisce che la consapevolezza del dolore e della fugacità del tempo può portare a una forma di malinconia profonda[2].
Leopardi non solo descrive il passare del tempo, ma esplora anche le emozioni e le esperienze umane ad esso collegate. La sua poesia spesso riflette una tensione tra speranza e disperazione, evidenziando come la bellezza della vita sia sempre accompagnata dalla consapevolezza della sua brevità. La malinconia diventa un tema centrale nella sua opera, rappresentando un modo per affrontare l’inevitabile scorrere del tempo.
In sintesi, Leopardi ci invita a riflettere su come viviamo il nostro tempo, sull’importanza dei ricordi e sulla necessità di abbracciare sia la gioia che il dolore che esso porta con sé.
Citations:
[1] https://libreriamo.it/frasi/frase-giacomo-leopardi-fugacita-vita/
[2] https://www.frasicelebri.it/frasi-di/giacomo-leopardi/
[3] https://www.ilcuoredelmondonellarte.it/giacomo-leopardi-zibaldone-di-pensieri-malinconia/?doing_wp_cron=1732995124.4357669353485107421875
[4] https://www.frasicelebri.it/frase/giacomo-leopardi-oh-come-grato-occorre-nel-tempo-g/
[5] https://sapere.virgilio.it/aforismi/autori/giacomo-leopardi
Marco Aurelio, noto come “l’imperatore filosofo”, è una figura centrale nella storia romana e nella filosofia stoica. Nato il 26 aprile 121 d.C. a Roma, da Marco Annio Vero e Domizia Lucilla, mostrò fin da giovane un forte interesse per la filosofia, in particolare per lo stoicismo, che abbracciò nel 133 d.C.[1][2].
Marco Aurelio ricevette un’educazione completa, studiando lettere latine e greche, giurisprudenza ed eloquenza sotto la guida di Frontone. Fu adottato dall’imperatore Antonino Pio nel 138 d.C., diventando suo successore designato[2][5]. Sposò Faustina, figlia di Antonino Pio, e insieme ebbero tredici figli[3][4]. Divenne imperatore nel 161 d.C., condividendo il potere con il suo fratello adottivo Lucio Vero[1][5].
Il regno di Marco Aurelio (161-180 d.C.) fu segnato da numerose difficoltà. Nonostante la sua inclinazione pacifista, dovette affrontare conflitti militari significativi contro le tribù germaniche, come i Quadi e i Marcomanni, che minacciavano i confini dell’Impero[1][4]. Durante il suo governo, Marco Aurelio condusse ben diciassette campagne militari e si trovò a fronteggiare anche una grave epidemia di peste che decimò le sue truppe[2][6].
Marco Aurelio si distinse per la sua umanità e il suo approccio etico alla leadership. Non perseguitò i cristiani, seguendo una politica di tolleranza simile a quella del suo predecessore Traiano. Inoltre, si preoccupò delle condizioni degli schiavi e rinunciò ai lussi personali per affrontare le crisi economiche dell’epoca[1][3].
Oltre alle sue responsabilità politiche e militari, Marco Aurelio è conosciuto per le sue opere filosofiche, in particolare per i “Pensieri”, una raccolta di riflessioni personali che esprimono la sua visione stoica della vita e della virtù. Questi scritti sono considerati tra i testi fondamentali della filosofia occidentale[4][5].
Morì il 17 marzo 180 d.C., probabilmente a causa di una peste contratta durante una campagna militare. Gli succedette il suo figlio Commodo, segnando la fine del periodo noto come “l’epoca dei cinque buoni imperatori”[1][2]. Marco Aurelio rimane un simbolo di saggezza e leadership morale, influenzando pensatori e leader attraverso i secoli con il suo esempio di governante giusto e riflessivo.
Citations:
[1] https://www.raiscuola.rai.it/storia/articoli/2022/02/Marco-Aurelio-un-intellettuale-al-potere-88954158-6bb8-47d8-a3a5-2b12cf2ceba7.html
[2] https://www.treccani.it/enciclopedia/marco-aurelio/
[3] https://www.domusweb.it/it/arte/2024/04/24/marco-aurelio-un-imperatore-filosofo.html
[4] https://www.skuola.net/storia-antica/imperatore-marco-aurelio.html
[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Marco_Aurelio
[6] https://www.romanoimpero.com/2009/07/marco-aurelio-161-180.html
Lucio Anneo Seneca, noto anche come Seneca il Giovane, nacque intorno al 4 a.C. a Cordova, in Spagna, da una famiglia di rango equestre. Suo padre, Seneca il Vecchio, era un rinomato retore e filosofo. Seneca si trasferì a Roma per completare la sua educazione in retorica e filosofia, dove si distinse per le sue doti oratorie[1][2][6].
Seneca iniziò la sua carriera politica nel 31 d.C., diventando questore e poi senatore. Tuttavia, la sua ascesa fu segnata da conflitti con gli imperatori romani. Nel 39 d.C., sotto Caligola, fu condannato a morte ma scampò grazie all’intervento di un’amante dell’imperatore che lo fece passare per moribondo[3][6]. Nel 41 d.C., fu accusato di adulterio e relegato in Corsica, dove scrisse opere significative come la “Consolatio ad Helvium” e “De Brevitate Vitae” durante il suo esilio[1][5].
Nel 49 d.C., grazie all’influenza di Agrippina, madre di Nerone, Seneca tornò a Roma e divenne tutore del giovane imperatore. Durante i primi anni del regno di Nerone (54-59 d.C.), Seneca esercitò una notevole influenza, contribuendo a quello che è conosciuto come il “quinquennio felice”, un periodo caratterizzato da un governo relativamente saggio[2][5][8].
Tuttavia, con il passare del tempo, il rapporto tra Seneca e Nerone si deteriorò. Nel 62 d.C., sentendosi minacciato dalla crescente ostilità dell’imperatore e dalla perdita della sua influenza, Seneca si ritirò dalla vita pubblica per dedicarsi alla filosofia e alla scrittura[4][6]. Nel 65 d.C., fu coinvolto nella congiura dei Pisoni contro Nerone; l’imperatore ordinò il suo suicidio. Seneca accettò il suo destino con la dignità che caratterizzava il suo pensiero stoico[3][5][7].
Seneca è celebre non solo per la sua carriera politica ma anche per le sue opere filosofiche e drammaturgiche. Tra i suoi scritti più noti vi sono le “Lettere a Lucilio”, che trattano temi etici e morali, esprimendo i principi dello stoicismo. La sua scrittura è caratterizzata da uno stile incisivo e riflessivo, che ha influenzato profondamente la filosofia occidentale[6][8].
In sintesi, Lucio Anneo Seneca rappresenta una figura centrale nella storia della filosofia romana e della letteratura, simbolo di un’epoca complessa segnata da potere, conflitti personali e profonde riflessioni morali.
Citations:
[1] https://library.weschool.com/lezione/seneca-biografia-de-clementia-consolatio-ad-helviam-matrem-consolatio-polybium-stoicismo-22008.html
[2] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-imperiale/seneca-biografia124539x.html
[3] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-imperiale/seneca-vita-pensiero-opere.html
[4] http://www2.classics.unibo.it/Didattica/LatBC/SenOtioIntro.pdf
[5] https://www.teche.rai.it/2021/05/vita-pensiero-seneca/
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Anneo_Seneca
[7] https://www.scuolafilosofica.com/3359/seneca
[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/lucio-anneo-seneca/
Epitteto è stato un importante filosofo greco, esponente dello stoicismo, nato a Ierapoli (oggi Pamukkale, Turchia) intorno al 50 d.C.
La sua vita è segnata da esperienze di schiavitù e successiva emancipazione, che hanno influenzato profondamente il suo pensiero filosofico.
Epitteto nacque in una famiglia di schiavi e fu acquistato da Epafrodito, un liberto di Nerone. Durante la sua giovinezza, Epafrodito gli permise di seguire le lezioni del filosofo stoico Musonio Rufo a Roma[1][2]. Nonostante la sua condizione di schiavo, Epitteto si distinse per la sua intelligenza e integrità morale. Viene descritto come una persona di salute cagionevole e si dice che fosse zoppo[6][7].
Dopo essere stato affrancato, Epitteto iniziò a insegnare filosofia a Roma. Tuttavia, nel 93 d.C., l’imperatore Domiziano emanò un editto che espelleva i filosofi dalla città, costringendolo a trasferirsi a Nicopoli, in Epiro. Qui fondò una scuola che divenne molto popolare e influente[1][3][4]. Tra i suoi allievi più noti vi fu Arriano, che raccolse e pubblicò gli insegnamenti di Epitteto in opere come le Diatribe e il Manuale (o Enchiridion), che sintetizzano il suo pensiero stoico[2][5].
Epitteto non scrisse opere originali; le sue idee ci sono pervenute attraverso gli appunti di Arriano.
La sua filosofia si concentra sull’etica e sulla pratica della virtù piuttosto che sulla speculazione teorica. Sosteneva che la felicità derivasse dalla capacità di distinguere tra ciò che dipende da noi e ciò che non lo fa, enfatizzando l’importanza dell’autocontrollo e della libertà interiore[1][3][4].
La sua visione stoica si caratterizza per un distacco dalle passioni e dall’attaccamento ai beni materiali, promuovendo invece un’esistenza conforme alla natura e alla ragione[2][6].
Epitteto ha avuto un’influenza duratura su pensatori successivi, inclusi Marco Aurelio e il cristianesimo stesso[4][7].
Epitteto morì intorno al 135 d.C., lasciando un’eredità filosofica che continua a essere studiata e apprezzata fino ai giorni nostri[1][3].
La sua vita e le sue opere rappresentano un ponte tra il pensiero stoico antico e le correnti filosofiche successive.
Citations:
[1] https://www.mondadorieducation.it/risorse/media/secondaria_secondo/greco/schede_sonnino/autori/epitteto.html
[2] https://liberliber.it/autori/autori-e/epictetus-epitteto/
[3] https://www.treccani.it/enciclopedia/epitteto/
[4] https://acciobooks.com/authors/epitteto
[5] https://www.scuolafilosofica.com/628/epitteto
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Epitteto
[7] https://www.sololibri.net/Epitteto-vita-opere-analisi-Manuale.html
Orazio, il cui nome completo è Quinto Orazio Flacco, è stato un illustre poeta romano, nato l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, una colonia romana situata nell’attuale Basilicata. Figlio di un liberto che divenne esattore delle tasse, Orazio crebbe in una condizione economica relativamente agiata, che gli permise di ricevere un’ottima educazione[1][3][6].
Dopo aver completato i suoi studi a Roma, Orazio si trasferì ad Atene per approfondire la filosofia e la poesia greca. Durante questo periodo, si arruolò nell’esercito di Bruto per combattere contro le forze di Ottaviano nella battaglia di Filippi nel 42 a.C., dove il suo schieramento subì una pesante sconfitta. Dopo la battaglia, Orazio tornò in Italia grazie a un’amnistia, ma scoprì che il podere paterno era stato confiscato[2][3][4][6].
Costretto a cercare un impiego, Orazio divenne segretario di un questore e iniziò a scrivere poesie. La sua carriera poetica decollò quando nel 38 a.C. fu presentato a Mecenate da Virgilio e Vario. Grazie al supporto di Mecenate, Orazio poté dedicarsi completamente alla scrittura[1][3][4][6].
Le sue opere più significative includono le Satire, gli Epodi e le Odi.
Le Satire riflettono una critica sociale e morale della sua epoca, mentre le Odi esprimono temi di bellezza, amore e natura, con celebri espressioni come “Carpe Diem” e “Hic et nunc” che invitano a vivere il presente[2][3][4].
Orazio è noto per il suo concetto di aurea mediocritas, che promuove un equilibrio tra gli estremi della vita.
Orazio ricevette da Mecenate un piccolo possedimento in Sabina nel 33 a.C., dove trascorse gran parte della sua vita in tranquillità, lontano dalla frenesia di Roma. Morì nel 8 a.C., lasciando un’eredità duratura nella letteratura latina e influenzando generazioni di poeti successivi con il suo stile lirico e i suoi temi universali[1][3][4][6].
La figura di Orazio è quindi emblematica non solo della letteratura romana, ma anche della cultura dell’epoca augustea, rappresentando un ponte tra la tradizione greca e quella latina.
Citations:
[1] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-biografia-opere.html
[2] https://knowunity.it/knows/latino-orazio-6e46154a-ad79-4b6c-9e03-2858c00baf66
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Quinto_Orazio_Flacco
[4] https://sapere.virgilio.it/scuola/superiori/letteratura-storia-filosofia/letteratura-romana/orazio-vita-e-opere-del-poeta-romano
[5] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-vita-opere.html
[6] https://www.sololibri.net/orazio-vita-opere-pensiero.html
[7] https://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/letteratura-latina/augusto/orazio/La-vita.html
[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/quinto-orazio-flacco_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/
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