Lo Scaffale Segreto – libreria Hoepli, Milano

da pochi mesi può trovare nel sito della Libreria Hoepli di Milano uno spazio di suggerimenti, Lo Scaffale Segreto: un luogo virtuale in cui richiamiamo all’attenzione dei lettori libri di valore, libri “belli”, molto apprezzati da chi ve li presenta (e sicuramente da tanti altri), ma spesso non facilmente visibili nelle librerie fisiche e online a causa del tumultuoso turnover sugli scaffali. Questi libri hanno infatti una caratteristica: non sono novità.

Talvolta invece proponiamo titoli recenti che, anche se hanno già trovato qualche apprezzamento sulle pagine dei quotidiani e dei settimanali, a nostro parere vanno considerati con un occhio di particolare riguardo.

Insomma, ne Lo Scaffale Segreto, in seconda fila rispetto ai bestseller, vi ricordiamo alcuni evergreen o vi segnaliamo quelli che potrebbero diventarlo. Libri di cui talvolta non ricordiamo i titoli o dei quali addirittura non abbiamo mai sentito parlare. Ne proponiamo circa sei al mese, pochi per tutti quelli che meriterebbero di essere portati alla vostra attenzione, tanti per trovare il tempo di leggerli per la prima volta o di riscoprirli.

da Lo Scaffale Segreto – Blog Libri.

A scuola con Radio3

 A SCUOLA DA RADIO3 

Una nuova significativa proposta del nostro sito. Potete trovare, riorganizzate e reimpaginate, tutte le diverse trasmissioni che insegnano qualcosa: si tratti della storia della musica classica o dell’arte, del jazz o delle tecnologie o ovviamente tutta intera la nostra enciclopedica Wikiradio. Con un po’ di ironia, vi proponiamo di usare l’estate per i corsi di riparazione, speriamo non intimidatori né noiosi. In fondo si tratta di farsi trovare più preparati quando comincerà la nuova stagione, scolastica e radiofonica…

www.radio3.rai.it

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Radio3 Suite // LEZIONI DI MUSICA

Radio3 Scienza // IO NON HO PAURA

Radio3 Suite // LEZIONI DI ARTE CONTEMPORANEA

Wikiradio // LA LIBERA ENCICLOPEDIA DI RADIO3

Body & Soul // LEZIONI DI JAZZ

 

Fahrenheit // LETTERATURA, POESIA, GEOGRAFIA E FILOSOFIA

A scuola con Radio3

Lilla Brignone e Warner Bentivegna in UNA TRAGEDIA AMERICANA di Theodor Dreiser, 1962

La 7° puntata

Vai al colloquio nel carcere, prima della esecuzione a morte:

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da warner bentivegna – lilla brignone – una tragedia americana – an american tragedy – di t. dreiser | Flickr – Condivisione di foto!.

6 dicembre 2008

E’ morto a Roma all’eta’ di 77 anni Warner Bentivegna. Era nato a Crotone nel 1931. Fu un grande attore di teatro e un divo della Rai, quando le fiction si chiamavano sceneggiati televisivi. Diplomato all’Accademia d’arte drammatica, debutta in teatro con Renzo Ricci, con cui interpreta i “Sei personaggi in cerca d’autore”. Lavoro’ con Enrico Maria Salerno, Andreina Pagnani, Sergio Tofano, Sarah Ferrati, Anna Maria Guarnieri. Strehler lo chiamo’ al Piccolo Teatro di Milano, dove recito’ con Sarah Ferrati, Tino Carraro, Valentina Cortese, Tino Buazzelli. In televisione debutto’ con “I Giacobini” interpretando Saint-Just a fianco di Serge Reggiani, poi fu protagonista di “Una tragedia americana” con Virna Lisi e Lilla Brignone, un grandissimo successo.

chi è fecondo nell’anima e non solo nel corpo cerca di generare cose dell’anima, dal SIMPOSIO di Platone

Dal SIMPOSIO di Platone
Ogni essere mortale cerca di sopravvivere a se stesso attraverso la generazione:
questo è amore che cerca di non morire
di essere immortale.
C’è chi insegue l’immortalità
attraverso la procreazione dei fìgli
ma chi è fecondo nell’anima e non solo nel corpo cerca di generare cose dell’anima:
per questo desidera esseri belli nell’anima
e non solo nel corpo
e con loro genera crea
pensiero arte scienza poesia
e l’arte più grande l’arte del vivere comune
dell’umanità: la politica.
Questi sono i figli più belli e immortali!
Guardate i figli che ci hanno lasciato i poeti,
le creature di Omero di Esiodo!
e poetare non è solo fare poesia:
poetare è produrre creare
mettere al mondo creazioni di bellezza immortale. Gli esseri umani fanno tutto questo per non morire, cercano fama e gloria,
fanno pazzie per restare nell’eternità del tempo,
sono disposti anche a morire, gli uomini,
per non morire.
Tutto questo amici è Eros,
energia creatrice nel corpo e nell’anima.
E nessuno può essere erotico in qualcosa
se non è erotico tutto il suo essere.

Pierluigi Savini e la vera vita d’artista Intervista di Alessandra Cicalini | in Muoversi Insieme di Stannah

Pierluigi Savini e la vera vita d’artista

Intervista di Alessandra Cicalini pubblicata in Muoversi Insieme di Stannah

vai a: Pierluigi Savini e la vera vita d’artista | Muoversi Insieme.

Giorgio Caproni, Quando non sarò più …

Quando non sarò più in nessun dove

e in nessun quando, dove

sarò, e in che quando?

 

Giorgio Caproni

Lentamente muore, di Martha Medeiros, Lettura di Nando Gazzolo

Nando Gazzolo legge “Lentamente muore” (titolo originale “A Morte Devagar”) scritta nel 2000 da Martha Medeiros, giornalista e scrittrice brasiliana. Questa poesia viene erroneamente attribuita dal web a Pablo Neruda.

“Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e chi non cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero sul bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno.

Lentamente muore chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.

TOMAS TRANSTROMER: letture di Domenico Pelini

http://www.youtube.com/watch?v=CpFJVziNdto&feature=uploademail

Biografia e libri della poetessa Marisa Zoni (1935-2011)

Marisa Zoni (1935-2011) è stata una poetessa italiana nata a Castel San Pietro Terme, in provincia di Bologna. Ha vissuto a Bologna e ha insegnato lettere per circa quarant’anni tra il nord e il centro Italia.

La sua produzione poetica è stata significativa nell’ambito della letteratura italiana contemporanea.

Tra le sue opere si ricorda “La scarpinata” (Mondadori, 1967) tra altri libri di poesie, e ha lavorato anche con importanti figure come Paolo Volponi e Lalla Romano.

È nota per un linguaggio poetico ricco e personale e ha mantenuto un ruolo rilevante nel panorama culturale fino alla sua morte a 75 anni circa nel 2011.

Insegnante di lettere per tutta la vita, Marisa Zoni ha percorso con la sua poesia uno spazio espressivo originale, e il suo lavoro è oggetto di studi e ricostruzioni da parte di studiosi e amici, come riportato in ricordi e raccolte dedicate a lei.

Il primo libro di poesie risale al 1959, “Testa o croce del soldone” e la sua attività letteraria ha avuto una lunga durata nel tempo.

Queste informazioni offrono un quadro biografico essenziale di Marisa Zoni, evidenziando la sua nascita, attività professionale e contributo alla poesia italiana del Novecento.nuovo-opac.sbn+6

  1. https://nuovo-opac.sbn.it/c/opac/autori/view?groupId=20122&id=RAVV031476
  2. https://www.peacelink.it/marenostrum/a/14999.html
  3. https://www.abebooks.it/scultore-carta-Poesie-Marisa-Zoni-Logogrifi/9310096315/bd
  4. https://traccesent.com/2018/09/10/in-ricordo-di-marisa-zoni-1935/
  5. https://www.satisfiction.eu/addio-a-marisa-zoni/
  6. https://www.noidonne.org/articoli/le-parole-che-incidono-la-carta-00235.php
  7. https://antemp.com/2025/11/11/marisa-zoni-fra-qualche-anno-1966/
  8. https://www.ebay.it/itm/115413879694
  9. https://www.facebook.com/Poesia2.0/photos/marisa-zoni/465357433503559/
  10. https://traccesent.com/category/autori/zoni-marisa/

Le opere principali di Marisa Zoni con le rispettive date di pubblicazione sono:

  • “Testa o croce del soldone” (1959), suo primo libro di poesie.
  • “La scarpinata” (1967), pubblicato da Mondadori.
  • “Lo scultore di carta” (1975), opera composta da 46 poesie.
  • “Come un metallo o un tamburo” (1999), pubblicato da Manni Editore.
  • “Tu paria dai mille occhi” (2004), pubblicazione che raccoglie i suoi ultimi lavori inediti.

Queste opere rappresentano alcuni dei contributi più significativi di Marisa Zoni alla poesia italiana contemporanea, con una produzione che copre diversi decenni e mostra l’evoluzione del suo stile poetico.lin+4

  1. https://www.lin.it/libri-autore/marisa-zoni.html
  2. https://www.lafeltrinelli.it/scultore-di-carta-libri-vintage-marisa-zoni/e/2560031014028
  3. https://www.bibliomo.it/SebinaOpac/query/baldassini%20l?context=catalogo
  4. https://www.ebay.it/itm/297481282130
  5. https://www.mondadoristore.it/autore/marisa-zoni/c/00034891
  6. https://traccesent.com/2018/09/10/in-ricordo-di-marisa-zoni-1935/
  7. https://www.ibs.it/libri/autori/marisa-zoni
  8. https://traccesent.com/category/autori/zoni-marisa/
  9. https://www.pendragon.it/catalogo/manufacturers/marisa-zoni.html?tmpl=component
  10. https://www.abebooks.it/scultore-carta-Poesie-Marisa-Zoni-Logogrifi/9310096315/bd
  11. https://antemp.com/2025/11/11/marisa-zoni-fra-qualche-anno-1966/

MITI E STORIE DI IERI E DI OGGI immagini per la formazione

  MITI E STORIE DI IERI E DI OGGI

immagini per la formazione


ANCHISE

Tema: FATICA DEL FAMILIARE CHE ASSISTE, CARE GIVER

da: Enciclopedia dei miti, Garzanti, 1990 (edizione originale: Dictionnaire de la mythologie grecque et romaine, Puf-Presses universitaire de France, 1979)


ANTIGONE

Tema: AMORE FILIALE SACRIFICIO

Figlia di Edipo e di Giocasta, era sorella di Eteocle e Polinice. 

Quando il padre, ormai cieco, si allontanò da Tebe in esilio, Antigone lo accompagnò fino

a Colono, dove Edipo morì. 

Tornata a Tebe, quando i suoi fratelli caddero in combattimento, diede sepoltura al corpo

di Polinice, malgrado il divieto di Creonte, diventato re alla morte dei due giovani. Creonte

allora la condannò a essere murata viva. La giovane però si uccise prima che fosse

eseguita la sentenza. 

Emone, figlio di Creonte, che amava Antigone, si tolse la vita per il dolore presso il

cadavere di lei. 

La storia di Antigone è l’argomento di una celebre tragedia di Sofocle.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna


ARIANNA

Tema: AIUTO PER NON PERDERSI

Figlia del re di Creta Minosse e di Pasifae. Si innamorò di Teseo e, dandogli un gomitolo

di filo perché non si smarrisse, lo aiutò a uscire dal Labirinto e a fuggire, dopo aver ucciso

il Minotauro. 

Arianna seguì l’eroe ateniese, ma questi l’abbandonò nell’isola di Nasso, allontanandosi

mentre la fanciulla dormiva. Alcuni narrano che la giovane donna, quando scoprì di essere

stata abbandonata, disperata, si impiccò. Secondo un’altra versione, Dioniso la trovò, la

fece sua sacerdotessa e in seguito la sposò.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna


DEDALO

Tema: LAVORO PROFESSIONALITA’

Abilissimo artefice ateniese, che si diceva di stirpe reale, discendente di Eretteo. Secondo

la leggenda inventò una serie di strumenti, come l’accetta e il livello, e le vele delle navi,

queste, pare, ancora sconosciute ai Greci. Era famoso come architetto e scultore e le

statue che creava erano fatte con tale arte che si muovevano e parevano vive. Geloso di

Galo (o Talo), un suo nipote e discepolo che aveva inventato la sega, il regolo e il tornio,

lo buttò giù dall’alto di una casa e fu quindi costretto a fuggire da Atene. Si rifugiò allora

da Minosse, re di Creta, che lo accolse con grandi onori, ma fu dal geniale ospite mal

ricompensato. Dedalo, infatti, costruì per la regina Pasifae la famosa giovenca grazie alla

quale la donna riuscì a soddisfare la sua infame passione per un bellissimo toro. Costruì

anche il Labirinto, un edificio pieno di corridoi e di stanze, in fondo al quale venne

alloggiato il Minotauro. Dedalo offese nuovamente il re, suggerendo ad Arianna

l’espediente del filo per fare ritrovare a Teseo la via d’uscita da quell’intrico di corridoi,

dopo che costui aveva ucciso il mostro. Minosse allora fece rinchiudere Dedalo e il figlio

Icaro nel Labirinto stesso, e il grande artefice vi rimase finché, con il pretesto di aver

bisogno di cera e di penne per una sua nuova creazione, non riuscì a fabbricare un paio

di ali per sé e un paio per il figlio e a fuggire in tal modo, librandosi nell’aria. Icaro,

maldestro, precipitò nel mare, ma il padre raggiunse Cuma, in Campania, dove eresse un

magnifico tempio al dio Apollo, a cui consacrò le ali da lui fabbricate. Poi passò in Sicilia e

fu accolto dal re Cocalo e dalle sue figlie con molta benevolenza. Minosse lo inseguì e

chiese a Cocalo di consegnarglielo, ma le figlie di Cocalo, innamorate di Dedalo, uccisero

il re di Creta e l’illustre inventore fu di nuovo libero. Pare tornasse ad Atene e che fosse il

capostipite del demo dei Dedalidi.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna


ENEA

Tema: FAMIGLIA STATO

Principe troiano, figlio di Anchise e di Afrodite. Sposò Creusa, figlia di Priamo, da cui ebbe

un figlio, Ascanio. Fu tra i più valorosi guerrieri alla guerra di Troia. Dopo la distruzione

della città, cercò di allontanarsi tra le fiamme, per mettere in salvo la sua famiglia, alcuni

compagni e le reliquie troiane. Procedeva in testa al gruppo, portando sulle spalle il

vecchio padre Anchise, convinto che la moglie lo seguisse. Ma quando si girò per cercare

Creusa, la donna era scomparsa ed Enea non riuscì più a trovarla. Il principe troiano forse

si ritirò sul monte Ida, dove costruì una flotta con cui prendere il mare alla ricerca di un

nuovo paese in cui stabilirsi. Secondo Omero, però, Enea non lasciò mai la Troade e

ricostruì Troia, regnando sui Troiani, secondo il volere degli dei. Qualche commentatore,

tuttavia, diede un’altra interpretazione alle parole di Omero: Enea avrebbe regnato sì sui

Troiani, ma su quei Troiani che lo avessero accompagnato in Italia. L’Eneide di Virgilio

comincia con la fuga di Enea da Troia in fiamme. L’eroe affrontò molte peripezie che

portarono quel gruppo di esuli nel Chersoneso tracico, nell’Epiro, a Delo, nelle Strofadi, a

Creta, in Sicilia e a Cartagine, in Africa, dove Enea conobbe e amò Didone. Dopo un

viaggio durato sette anni e dopo aver perso tredici navi, l’eroe arrivò finalmente nel Lazio.

Qui fu accolto benevolmente dal re Latino, che gli promise in moglie la figlia Lavinia. Ma la

fanciulla era già stata promessa a Turno, il re dei Rutuli, che, per impedire il matrimonio

della sua fidanzata con il principe troiano, fece guerra a Enea, alleandosi con altri principi

italici; dopo molte battaglie, la guerra si risolse con un duello fra i due eroi, nel quale

Turno trovò la morte. Enea sposò allora Lavinia, in onore della quale fondò la città di

Lavinio, e succedette al suocero sul trono. Dopo qualche anno, durante una battaglia

contro gli Etruschi, Enea scomparve in un uragano, e i Latini, non vedendolo più,

pensarono che fosse stato assunto in cielo e lo adorarono come un dio. Suo figlio

Ascanio, con il nome di Iulo, fondò Alba Longa e vi regnò.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna


ICARO

Tema: RISCHIO ESPLORAZIONE

Figlio di Dedalo che con il padre era stato rinchiuso nel Labirinto da Minosse, adirato per

la fuga di Teseo. Grazie all’ingegnosità di Dedalo, i due fuggirono, valendosi di ali

attaccate con la cera. Icaro, però, esaltato dall’ebbrezza del volo, si librò troppo in alto: il

sole liquefece la cera, le ali si staccarono e il ragazzo cadde nel mare che da lui fu detto

Icario e che è una parte dell’Egeo, attorno all’isola chiamata Icaria.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna


il LABIRINTO

M.C. Echer, Relativitaet (1953)


PENELOPE

Tema: LAVORO RETI

fu fedele moglie di Odisseo o Ulisse, re di Itaca, e madre di Telemaco. Durante la lunga

assenza del marito, molti principi di Itaca e delle isole vicine (i Proci) la corteggiarono con

insistente arroganza, stabilendosi nella reggia e consumando tra i bagordi il patrimonio del

re. Allo scopo di sottrarsi alle loro moleste attenzioni, Penelope escogitò uno

stratagemma: avrebbe scelto tra loro un marito solo quando avesse finito di tessere una

splendida tela per Laerte, padre di Ulisse. Ogni notte, per tre anni, finché una delle sue

ancelle non tradì il segreto, Penelope disfaceva di notte il lavoro eseguito di giorno, in

modo da non terminare mai l’opera. Dopo vent’anni Ulisse finalmente fece ritorno alla

reggia e con l’aiuto di Telemaco, di Atena e di alcuni servi fedeli sterminò i Proci, dopo

averli sfidati a una gara con il suo potente arco, che nessuno dei giovani pretendenti

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna

RE DEGLI ELFI

Tema: FAMIGLIA PADRI

IL RE DEGLI ELFI

 

Chi cavalca così tardi per la notte e il vento?

È il padre con il suo figlioletto;

se l’è stretto forte in braccio,

lo regge sicuro, lo tiene al caldo.

«Figlio, perché hai paura e il volto ti celi?»

«Non vedi, padre, il re degli Elfi?

Il re degli Elfi con la corona e lo strascico?»

«Figlio, è una lingua di nebbia, nient’altro.»

«Caro bambino, su, vieni con me!

Vedrai i bei giochi che farò con te;

tanti fiori ha la riva, di vari colori,

mia madre ha tante vesti d’oro».

«Padre mio, padre mio, la promessa non senti,

che mi sussurra il re degli Elfi?»

«Stai buono, stai buono, è il vento, bambino mio,

tra le foglie secche, con il suo fruscio.»

«Bel fanciullo, vuoi venire con me?

Le mie figlie avranno cura di te.

Le mie figlie di notte guidano la danza

ti cullano, ballano, ti cantano la ninna-nanna».

«Padre mio, padre mio, in quel luogo tetro non vedi

laggiù le figlie del re degli Elfi?»

«Figlio mio, figlio mio, ogni cosa distinguo;

i vecchi salci hanno un chiarore grigio.»

«Ti amo, mi attrae la tua bella persona,

e se tu non vuoi, ricorro alla forza».

«Padre mio, padre mio, mi afferra in questo istante!

Il re degli Elfi mi ha fatto del male!»

Preso da orrore il padre veloce cavalca,

il bimbo che geme, stringe fra le sue braccia,

raggiunge il palazzo con stento e con sforzo,

nelle sue braccia il bambino era morto.

Fonte: Goethe, Ballate

SETTE NANI – BRONTOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

Nel gruppo, è lui l’iracondo. Se la prende praticamente con tutti. Biancaneve compresa.

Maestro nello scatenare sensi di colpa, scoprire debolezze, sottolineare errori. Brontolo

somatizza il suo

avercela col mondo, assumendo una smorfia perenne ormai connaturata al resto della

faccia. Il suo cuore è ormai a rischio di infarto, i suoi nervi tesi e le sue rughe esponenziali.

Ma non ce la fa a star calmo, è più forte di lui. A Brontolo si sono liberamente ispirati il

Puffo Brontolone e il Paperino di Barks.

Fonte:

SETTE NANI – CUCCIOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

Se il più vecchio è dislessico (Dotto), il più piccolo è muto. Cucciolo è un nano ma anche

un bambino. O almeno è quello che vuol far credere e più o meno tutti ci cascano.

Non emette alcun tipo di suono, ma per compensare ha delle orecchie enormi, fuori

misura, delle orecchie che non entravano in un solo lungometraggio al punto che la

Disney le ha rivedute e corrette per Dumbo e Zemeckis le ha copiate e adattate a Roger

Rabbit.

In quanto nano bambino, e muto per giunta, fa un po’ come gli pare, tanto è grazioso. Così

grazioso che fa le mossette, le faccine, i sorrisoni, un po’ tipo Ambra di “Non è la Rai”. E

tutto questo contribuisce a farlo apparire più che un bambino, un nano che vorrebbe far

Fonte:

SETTE NANI – DOTTO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

E’ il grande capo del gruppo ma non si capisce bene perché. Afflitto da una forte forma di

dislessia, non riesce praticamente mai a comunicare un pensiero compiuto. La

caratteristica del suo problema di linguaggio è quella della sostituzione delle sillabe nelle

parole, una specie di capolavoro enigmistico che fa sì che gli altri sei nani si stufino

regolarmente prima che lui abbia terminato la frase, ma essendo dei signori, non glielo

fanno mai notare. Questo gli comporta una notevole dose di stress, che non riesce mai a

scaricare perché in quanto capo, non gli è dato arrabbiarsi. Diciamo infine che Dotto è

il più anziano del gruppo, un vecchio signore in un gruppo di vecchietti e se fossimo

maliziosi si potrebbe sospettare un accenno di Alzheimer.

Fonte:

SETTE NANI – EOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

II quarto nano è allergico: alla polvere, ai grandi, agli acari, alle miniere, alla fisarmonica.

Allergico praticamente a tutto. E starnutisce come una furia, spruzzando un muco

fastidioso e mandando gambe all’aria se stesso e gli altri nani.

Il suo naso è fuori misura, esageratamente grosso, rosso e umido. In sostanza fa un po’

Fonte:

SETTE NANI – GONGOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

Sesto nano è obeso e un po’ tonto. Mangia come un maiale e ride sempre.

Non fa una gran bella impressione a chi gli sta accanto, con quel suo sguardo sempre

vitreo e quella quantità imbarazzante di denti bianchi aperti in un sorriso statico.

Biancaneve sembra non farci caso, a parte quando lui le ruba regolarmente il pranzo.

Fonte:

SETTE NANI – MAMMOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

II settimo e ultimo nano è tossico. Non si capisce bene di quali sostanze psicotrope faccia

uso costante, ma che Mammolo sia un drogato è semplicemente un fatto. Sorride alle

margherite, arrossisce guardando le api, gli si infiammano le orecchie.

Passa da uno stato perenne di confusione mentale a dei risvegli improvvisi. Vivendo nei

boschi è probabile abbia trovato dei funghi allucinogeni, ma non è detto. Le sue pupille

sono costantemente dilatate, al punto che persino le ciglia si allungano a dismisura,

scambia la festa danzante per Biancaneve in un rave, ed è un po’ invidioso di non aver

morso lui la mela avvelenata, visti gli effetti…

Fonte:

SETTE NANI – PISOLO

Tema: TIPI PSICOLOGICI FIABE

Sarebbe uno abbastanza a posto se non fosse narcolettico. La narcolessia è un disturbo

caratterizzato in termini generali da eccessiva sonnolenza diurna. Come si legge

sull’enciclopedia medica, si tratta di una patologia non rara che colpisce circa una persona

su mille e prevalentemente i maschi, a qualsiasi età.

Oltre all’eccessiva sonnolenza, un altro sintomo importante della narcolessia è quello della

cataplessìa, ovvero di una rapida perdita del tono muscolare causata da manifestazioni

emotive come riso, collera, eccitazione, sorpresa. Pensate un po’ che fatica la convivenza.

Neppure Biancaneve ha potuto risvegliare Pisolo più di tanto, a parte un sussulto dopo il

Fonte:

SISIFO

Tema: LAVORO IMPOSSIBILE

Figlio di Eolo e di Enarete, leggendario fondatore e re di Corinto. Favorì il commercio e la

navigazione, fece costruire le prime triremi e dotò la città, che si affacciava su due mari, di

due porti, uno verso l’Asia, per il commercio d’importazione, e uno verso l’Europa per

l’esportazione. Si dice che avesse istituito i giochi istmici. Sposò Merope, una delle

Pleiadi, figlia di Atlante, dalla quale ebbe Glauco. La tradizione lo dice avido, astuto,

crudele e menzognero. La sua furbizia stupì Autolico, famoso ladrone che rubava i buoi

altrui e poi li mescolava alle proprie mandrie. Sisifo impresse il suo marchio sotto gli

zoccoli dei buoi di sua proprietà e, quando Autolico glieli rubò, fu facile dimostrare a chi

appartenessero. Ammirato da tanta sagacia, Autolico divenne suo amico e gli permise di

godere i favori della figlia Anticlea, che poco dopo sposò il re d’Itaca, Laerte. La donna

generò Ulisse, che ereditò l’astuzia dal suo vero padre, Sisifo. Il re di Corinto non aveva

timore neanche di sfidare gli dei. Quando Zeus s’innamorò di Egina, figlia di Asopo, e la

rapì, Sisifo andò subito dal padre per rivelargli dove era stata nascosta la figlia, facendo

infuriare il signore dell’Olimpo. Quando questi gli inviò Thanatos, la Morte, Sisifo riuscì a

imprigionarla nel suo palazzo, a incatenarla e immobilizzarla, in modo tale che nessuno

moriva più. Zeus allora fu costretto a mandare Ares a liberare la Morte e a portare così

Sisifo agli Inferi. Ma lo scaltro re aveva già progettato come tornare in vita. Aveva convinto

la moglie a non concedergli gli onori funebri e a non seppellire il suo corpo. Appena

giunto nel regno di Ades accusò la sposa di negligenza e chiese al dio dei morti di poter

tornare sulla terra per punirla, promettendogli di far subito ritorno. Invece, una volta

resuscitato, violò l’impegno e riprese a regnare su Corinto, a depredare e a uccidere

crudelmente gli abitantI dei paesi vicini, finché Zeus non mandò Ermes a riprenderlo per

riportarlo nell’Oltretomba. Rinchiuso nel Tartaro per tutti i suoi misfatti, fu condannato a

spingere in eterno su un monte un pesante macigno che, giunto alla vetta, rotolava di

nuovo a valle, rendendo vana la sua fatica.

Fonte: Gislon – Palazzi, Mitologia e antichità classica, Zanichelli editore, Bologna

CARLO RIVOLTA legge ALBERTO VIGEVANI. Incontro a cura del Centro Carlo Gadda, Castello di Pomerio, Erba 11 Novembre 2006

rivolta

Alberto Vigevani Link

Credo sia opportuno conoscere qualche dato di contesto. Queste registrazioni sono state raccolte ad un convegno locale che si è svolto al Castello di Pomerio di Erba l’11 novembre 2006 ed organizzato da Centro Gadda di Longone al Segrino.
Il lavoro culturale di Carlo Rivolta era questo: mettersi al servizio degli autori e dei testi in situazioni associative di questo tipo.
Per lui era importante la richiesta del “committente” e il tipo di pubblico che sarebbe intervenuto.
Era profondamente interessato a creare un articolato rapporto fra autore, testo e lettori in ascolto.
E così anche un autore così particolare come Alberto Vigevani (un intellettuale organizzatore di biblioteche e di librerie bibliofile) veniva fatto risplendere nella sua prosa carica di tensione biografica.
In questi testi e nella risonanza che ne sa esprimere Carlo Rivolta si sentirà come Marcel Proust ha segnato la letteratura del primo novecento.

Poesia greca del Novecento, a cura di Nicola Crocetti e Filoppomaria Pontani. Presentazione di Vincenzo Guarracino

Come non pensare a ciò che diceva Bertolt Brecht, e cioè che «quando l’uomo di ferro le batte / le Muse gridano più forte»? Dinanzi all’esperienza della Grecia, alla ricchezza e fertilità della sua letteratura, una simile affermazione viene subito in mente, soprattutto dacché ci è dato finalmente attraversare la sua poesia per mezzo del ricchissimo Meridiano ad essa dedicato per le cure di Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani. Una poesia che, senza dimenticare il suo straordinario passato, ha saputo rispondere come poche altre allo “spirito del Tempo”, alle domande che la storia ha proposto, svincolandosi, diversamente da quanto altrove è avvenuto, dal ruolo di esercizio squisitamente letterario o di riflessione intimistica e ripiegata su se stessa, soprattutto in considerazione degli eventi in cui è stata giocoforza coinvolta, nell’epoca della guerra e delle dittature militari, per riflettere sulle proprie responsabilità storiche e sul destino di un popolo. Basti, per capirlo, la forza e fierezza che traspare dai versi di Michalis Katsaròs: “Resistete all’Ufficio Stranieri e passaporti / alle orrende bandiere nazionali e alla diplomazia / alle fabbriche di materiale bellico / a quelli che definiscono lirica le belle parole / ai canti marziali / ai lamenti delle canzoni sdolcinate / agli spettatori / al vento / a tutti gli indifferenti e i saggi / agli altri che si definiscono vostri amici / persino a me, pure a me che vi racconto resistete. / Forse allora ci avvieremo sicuri verso la libertà».
A tal riguardo è quanto mai illuminante e pertinente la precisazione fatta in apertura dal Pontani, secondo cui «la poesia in Grecia non si è ridotta all’espressione anarchica e monodica di un sentimento personale” e neppure “si è confinata nell’ardua lirica d’avanguardia”, smarrendo i vincoli spazio-temporali con il mondo esterno. Al contrario, “i versi sono rimasti ben piantati entro un quadro di riferimento collettivo, a cominciare dal loro carattere saliente: la lingua”, al punto da conferire ad essa, alla lingua parlata, il cosiddetto  “demotico”, una dignità letteraria assoluta facendola assurgere a emblema della conquista della stessa indipendenza politica. Un “quadro di riferimento collettivo”: come dire che si tratta di una poesia in cui un popolo, una collettività con la sua coscienza critica, può riconoscersi e sa essere “civile” andando al passo del tempo, nella fedeltà al monito, che era poi quello dei poeti della Megàle Ellàs, di credere e vivere nel “kairòs”, nell’occasione, intesa nella sua accezione più nobile.
Oggi, poi, che la Grecia è agli onori delle cronache per via delle sue condizioni economiche sull’orlo del baratro, rendersi conto di queste cose, verificarle attraverso un catalogo vastissimo di proposte, quale è quello che è qui riproposto in ottime traduzioni, è quanto mai importante.
Ecco dunque una poesia che ha saputo essere, di volta in volta, “crepuscolare”, “esistenziale” e “impegnata” (sono questi i parametri entro cui possono inquadrarsi i diversi interpreti e protagonisti), offrendoci frutti di straordinaria maturità, non solo nelle figure più celebrate (Konstandinos P. Kavafis, Ghiannis Ritsos, Ghiorgos Seferis e Odisseas Elitis, gratificate dalla fama e da riconoscimenti, come il Nobel per gli ultimi due), ma anche in quelle di altri poeti, quali Kostas Uranis, Tellos Agras e Maria Poliduri, Ghiannis Skarimbas, Alèxandros Baras, Ghiorgos Kotziulas, Nikos Kavaddìas, Takis Papatsonis e poi via via Ghiorgos Themelis, Zoi Karelli, Ghiorgos Sarandaris, Ghiorgos Vafòpulos, Melissanthi, Takis Varvitsiotis, fino alle più giovani generazioni, a vario titolo rappresentativi di istanze civili e morali, senza comunque preoccuparsi eccessivamente, come raccomanda sempre Pontani, di periodizzazioni e categorizzazioni, visto che in Grecia non ci si è preoccupati mai di formalizzarsi dietro etichette o bandiere letterarie. Sorprendente e niente affatto marginale, infine, in siffatto panorama, il ruolo giocato dalle donne, tra le quali Maria Poliduri, Kikì Dimulà e la raffinata Anghelaki-Rooke, risaltano per originalità e forza.
Un libro, dunque, da leggere e custodire: un libro prezioso e necessario, la cui lettura è capace di accompagnarci “sicuri verso la libertà”. Perché in esso possa riflettersi la storia di un popolo e il destino stesso dell’Europa, e tale da poter davvero “rifar la gente” a saperlo leggere, come auspicava per ogni vero libro il nostro ottocentesco Giuseppe Giusti.

da: Lo spirito del tempo che si nutre di poesia – Cultura e Spettacoli – La Provincia di Como.

Italo Calvino: PERCHE’ LEGGERE I CLASSICI

PERCHE’ LEGGERE I CLASSICI

Nel 1981 Calvino pubblicò un breve saggio sul perchè leggere i classici (e su cosa si debba intendere per un “classico”).

1. I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito “sto rileggendo…” e non “sto leggendo…”

2. Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli

3. I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale

4. D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima

5. D’un classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura

6. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire

7. I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume)

8. Un classico è un’opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso

9. I classici sono libri che quanto più si crede di conoscere per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti

10. Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani

11. Il “tuo” classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui

12. Un classico è un libro che viene prima degli altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia

13. E’ classico tutto ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno

14. E’ classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.

Italo Calvino. Da “Perchè leggere i classici”, 1981

Al Museo Hermann Hesse di Montagnola, nel Canton Ticino: racconto di una giornata « Segni di Paolo del 1948

Alessandro Castellari parla libro “La pratica letteraria: interrogarsi attraverso la lettura su se stessi e il mondo”, scritto con Maria Teresa Cassini, Apogeo editore

Intervista ad Alessandro Castellari – Leggere negli occhi

Alessandro Castellari è stato insegnante di materie letterarie e collaboratore ‘letterario’ dell’Università di Bologna. Scrive per ‘La Repubblica’. Ha fondato a Bologna la prestigiosa associazione culturale ‘Italo Calvino’ in compagnia di Maria Teresa Cassini, con la quale condivide la firma su “La pratica letteraria”, lo splendido libro che guida questa conversazione.
Un libro per innamorati pazzi della lettura, non un libro algidamente teorico ma una fucina immane e caldissima di idee e amore per le storie. Come piena di idee e calore è l’intervista.

Intervista a cura di Franco Foschi, pediatra e scrittore Bolognese

Visita il sito: www.scrittoribologna.com

 

da: Arcoiris TV – Web TV gratis, senza censura, senza pubblicità

vai anche a: Google Libri Cassini Castellari Pratica letteraria

Giovanni Campana, PENSIERI SULLA SOGLIA E AUTOGLOSSE , VERSI E PROSE, presentazione del libro il 18 marzo 2011 a Modena

pensiero poetante…

Venerdì 18 marzo 2011 ore 17.30

presso l’ Accademia Nazionale delle Scienze, Arti e Lettere

corso Vittorio Emanuele II, 59 – Modena

avrà luogo la presentazione del libro

PENSIERI SULLA SOGLIA E AUTOGLOSSE

VERSI E PROSE

di

Giovanni Campana

introdurrà il prof. Lucio Belloi

l’autore leggerà alcuni testi del libro

ai presenti – che saranno invitati a partecipare anche con

osservazioni e domande – sarà fatto omaggio di una copia del libro.

Il libro è edito dalla rivista di poesia Anterem, di Verona

(in coedizione con Cierre Grafica)

nella Collana Opera Prima

Consiglio dei Garanti

Andrea Zanzotto Umberto Galimberti Yves Bonnefoy

Caro Campana, Torino, 12 maggio 2010

ammiro molto la sua poesia intensamente concettuale, con lezioni sublimi (…) È sempre più rara la poesia metafisica, e per questo tanto più cara e preziosa (…) Giorgio Bàrberi Squarotti

Caro Campana, 1/2/2011

grazie del suo libro (…) Me ne aveva già parlato l’amico Flavio Ermini [direttore di Anterem]. E ritrovo in effetti le qualità di cui lui mi aveva parlato. E’ un’ottima raccolta e le faccio i miei complimenti. Paolo Ruffilli

Nella poesia di Giovanni Campana si intrecciano numerose suggestioni filosofiche e teologiche (…) E in ogni suo verso si avverte l’intensità del suo modo si sentire (vivere) il concetto e l’insufficienza del concetto (…) Interrogativi di cui Giovanni Campana circonda la sua metafisica della luce (…)

Dalla postfazione di Tiziano Salari

Giugno 2010 – Dalla rivista letteraria “Il segnale”:

(…) “fra i molti che riceviamo, il suo [libro] ci è parso – alla prima lettura – fra i più interessanti per la qualità del dettato e la maturità dello stile (…)

I grandi autori della letteratura italiana in lezioni multimediali, in I Classici Italiani – Treccani

Da Francesco d’Assisi a Italo Calvino: i classici della nostra letteratura spiegati da docenti universitari, studenti e testimonial d’eccezione, in lezioni da guardare ed ascoltare. Per ognuno si ripercorrono vita, opere e influenza letteraria attraverso testi, audio, video, voci enciclopediche, mappe e cronologie interattive. Oggi il canale offre percorsi dedicati ad autori dell’Otto-Novecento, ma si arricchirà nel tempo con i classici dei secoli precedenti.

da: I Classici Italiani – Treccani.

gli Haiku, di Laura di Firenze

siccome amo appassionatamente l’haiku -paolo lo sa e ne scrivo ormai da dodici anni mi sento di aggiungere la mia voce, come chiamata in causa ma è per passione che rispondo!

 

Haiku la vita
un attimo di vita
diventa poesia

 

quest’haiku era in epigrafe ad una mia ispirata tesina sull’argomento haiku nel 2001, e proprio da quella vorrei estrapolare qualche frammento significativo, se può interessare come vivamente immagino!


Solo diciassette sillabe per circoscrivere un’emozione.
Sono sufficienti per tuffarsi nel proprio
Sé connesso al Tutto,
nell’universo della nostra percezione.

A mio giudizio, ferma restando la regola sillabica, dalla quale non sento possibile allontanarmi (e comunque l’applicazione della sinalefe, nella nostra metrica, “comporta” qualche sillaba in più),
sento invece sensata ed agevole la sperimentazione di una libertà espressiva per i contenuti, un agio mentale di poter spaziare dall’osservazione e dallo stupore della natura al mio proprio
microcosmo emozionale, a qualsiasi riflesso, appunto, della mia personale interiorità sentimentale e percettiva.

Miracolo di sintesi di linguaggio e di carica espressiva l’ haiku è rapido, folgorante, intenso, emozionante ma anche concreto preciso, contingente.
….

La visione simbolista e crepuscolare di un haiku carico di dissolvenza, di aloni, di allusività, di vaghezza e mancamento, di atmosfera indistinta, “quell’aria di scusarsi di esistere” -come ebbe a dire Andrea Zanzotto, non è un’interpretazione del tutto esauriente in quanto il haiku dice degli stati d’animo ma parla, anche, di cose, di oggetti precisi che nella loro particolare contingenza rispecchiano il mondo. In altri termini la concretezza della vita quotidiana si congiunge al senso del mistero e della profondità, quella particolare atmosfera che viene definita “lo yugen”.
L’atmosfera del haiku è caratterizzata da intime profondità, inaccessibili ad una lettura disattenta, è come la punta di un iceberg che cela un’altra massa di ghiaccio nascosta ed impercettibile.
Il tratto essenziale di quell’atmosfera è lo yugen appunto, termine che si può rendere con profondità misteriosa. Chi sa coglierla si troverà in contatto con il mistero che mai può essere
completamente vagliato e svelato.

Come D. T. Suzuki ci ricorda “la realtà ovvero l’origine di tutte le cose, è una quantità ignota all’intelletto umano ma che comunque possiamo sentire nel modo più concreto”.
Ogni haiku è un universo compiuto in una percezione istantanea di tempo e di luogo definiti.

Analizzando il celebre sublime haiku di Basho:

 

Furu ike ya
Kawazu tobikomu
Mizu no oto

 

vecchio stagno
tonfo di rana
suono d’acqua

 

viene così subito chiaro e in risalto l’aspetto cosiddetto yohaku (da intendersi come qualità che connota ogni forma di riduzione all’essenziale): la riduzione al minimo delle parole impiegate, così
al livello semantico, la realtà e l’evento rappresentato non vengono accompagnati da alcuna allusione al soggetto che li percepisce né tanto meno da una sua riflessione o da un suo commento sentimentale (la rappresentazione dell’attimo in cui si danno il tonfo nell’acqua della rana e il suono corrispondente non è accompagnata da alcuna considerazione del poeta sulla fugacità del tempo o sull’interruzione di una situazione di pace o di silenzio) ma viene a prodursi una alta concentrazione spaziale (una semplice linea chiusa, lo stagno al cui interno si colloca solo un punto, quello in cui avviene il tonfo della rana) ed una concentrazione temporale di tre tempi in uno: l’aggettivo vecchio che conferisce all’intera scena la qualità sabi (di semplicità, naturalità, rusticità)indica il tempo passato, mentre tonfo indica un primo tempo presente e suono
un secondo tempo presente leggermente sfasato rispetto al primo. Questa serie di minuziose considerazioni analitiche non devono e non fanno tuttavia dimenticare che questi tre versi sprigionano una prodigiosa potenza sintetica. Ecco il miracolo del haiku!

Ancora tanto si potrebbe dire sull’haiku, tutto il dicibile ed ogni tentativo sull’indicibile, la sua bellezza, l’ineffabilità , la sua grandiosità: l’haiku non ha limiti di definizione, non ha confini, come un vasto mare, perennemente mutevole e sempre uguale, come le stagioni, come l’esistenza.
Ecco haiku è la vita, un attimo di vita che è poesia, poesia del reale che ci comprende e ci trascende.

L’haiku esorta alla partecipazione, al godimento di un’ineffabilità mai totalmente rivelata, ci permette di intuire l’insondabile nelle sue tonalità di base. l’haiku ci porta per mano al valore delle cose vicine, quelle ordinarie e abituali, verso l’insignificante che tale non è mai e ci svela la straordinarietà dell’ordinario. Tutti gli elementi sono degni del nostro occhio poetico, ogni creatura vivente nessuna esclusa, ogni fibra del mondo vegetale, ogni minerale o sostanza inorganica: tutto è degno della stessa attenzione. Ogni cosa è se stessa ed è, nel contempo, qualcos’altro, si tratta dell’assunto basilare di una logica paradossale.
Le distinzioni di valore non si addicono al mondo dell’haiku perché esso sottolinea, piuttosto, la totalità -unico modo, di cogliere la particolarità delle cose.

….
… ancora qualche nota personale, dire che nel mio personale approccio al mondo del haiku fin dal primo cimentarmi ho sentito fortemente il rispetto delle diciassette sillabe, ho sentito potente e misteriosa la sapienza numerologica di quella scansione, essendo nuovo per me il rigore il rispetto della disciplina mi sono inchinata a questa acquisizione ed è stato ed è naturale per me rispettarla, anche se talvolta mi è capitato di avvertire i limiti di una misura ingabbiante o un senso mutilante, eppure via via che procedo è sempre più chiara ed istintuale la mia adesione a quella regola sillabica.
Per tutto il resto voglio sperimentare libertà e naturalezza, non osservo necessariamente il kigo stagionale, penso che comunque sia sottinteso un tempo fisico che mi vede agire e vibrare di quella emozione che voglio cogliere. Mi piacciono tanti sapori anche quello del divertissement dell’ironia o dell’autoironia o addirittura del sapienziale, forse è un forzare lo spirito del haiku ma perché no? Persino in Giappone si pongono questi problemi, una tenace osservanza dei canoni strettamente classici sa di déja vissuto, di ritualistica alla fin fine se non si rinfresca con il respiro del nostro tempo e con l’alito di questo momento. Per questo mi prendo libertà per i contenuti.
Per me, ma si può dire per chiunque si metta in sintonia, l’haiku è rapimento emozionale, folgorazione zen, trasalimento, stupore, intima connessione con la natura, abbattimento della separazione, evaporazione delle dicotomie, fusione panica, semplicità e semplificazione della realtà, luminosa comprensione della straordinarietà dell’ordinario.

Per tutto questo con gratitudine ed amorevolezza esprimo, anch’io, la celebrazione della vita,attraverso i miei haiku. –

-30 agosto 2001-

aggiungo infine alcuni haiku che mi sono cari che vogliono sbucar fuori da una raccolta di haiku di sapore psicoanalitico

 

Nuvole e vento
pellegrino vagante
il mio pensiero

 

Dall’indistinto
tracce confuse chiare
orme d’amore

 

Unisci sogno
a realta’ e fluisce gioia
di giocoliere

 

Neve prepara
il lento sbocciare dei
fiori a venire

 

Andiamo a casa
e’ nel viaggio di anime
da lontananze

 

Inutili mai
le parole d’amore
dentro le mani

 

Nuvola ignara
di sazieta’ e digiuno
tempo nomade

 

Fluttuano voci
sulla trama e l ‘ordito
di vero e occulto

 

Ora ti ascolto
raccontami di me
quello che sono

 

Come uno specchio
un haiku ecco illumina
il nostro volto

 

Oscillazioni
spiragli di sereno
nel cielo grigio

 

E’ così umano
disperarsi e gioire
sentirsi vivi

 

Un papavero
aspetta d’esplodere
vivida vita

 

Quale ideogramma
ora mi rappresenta ?
Inquieta calma

 

i papaveri
il simbolo più bello
di caducità

 

senza parlare
stare in calma e silenzio
solo ascoltare

 

è la parola
– sollievo e beneficio –
nasce il pensiero

 

andare lenti
incontrare se stessi
e respirare

 

fiore di campo
non un fiore di serra
così è l’amore

 

vagano le idee
come cavalli bradi
il cuore tace

 

capsula oscura
ogni notte origine
di vita e sogno

 

foglie d’autunno
alla vita stringersi
poi basta poco

 

i tratti oscuri
accompagnano il viaggio
il non sapere

 

gioia ad attimi
è come un’esplosione
inaspettata

 

ammutolire
questo tacere dentro
che sa di quiete

 

la nebbia addosso
per dare confidenza
all’incertezza

 

una giornata
di respiro e di vento
e di speranza

 

ampia schiarita
dopo il cielo coperto
il tempo muta

 

quello che senti
può scaldarti l’anima
strada di casa

 

è la memoria
non è l’oblio la forza
della crescita

 

È la memoria
Papavero di campo
Che tiene desti

 

il papavero
è vita luminosa
un talismano

 

spero di non aver esagerato..gli haiku mi prendono la mano ed ho seguito una vocina d’istinto che mi diceva condividi con gli amici angelici!

grazie!

Haiku

Poesia giapponese costituita da tre righe (sarebbe improprio dire costituita da tre versi) di 5, 7, 5 sillabe (totale 17: notevole per la numerologia).

Ha per oggetto la natura e contiene una parola che evoca una stagione.

Comporre haiku è un’arte zen.

Come ha spiegato Roland Barthes, gli haiku danno luogo a una “visione senza commento“, riproducono “il gesto di un bambino che mostra con il dito qualsiasi cosa dicendo: quello!

passa un angelo… , haiku di Laura di Firenze

 

passa un angelo
dice AMEN nel tramonto
del sole viola

Laura di Firenze, 12 febbraio 2001

 

 

 

Perduti angeli, haiku di Laura di Firenze

Perduti angeli
poi ritrovati..angeli
ci sono sempre

Laura di Firenze, 25 giugno 2001

fa capo al cuore …, haiku di Laura di Firenze

fa capo al cuore
ogni angelo addestrato
all’incompiuto

Laura di Firenze, 3 aprile 2009

un fatto nuovo, haiku di Laura di Firenze

un fatto nuovo
sentire le voci
di uomini angeli

Laura di Firenze, 31 gennaio 2005

la luce inonda … , haiku di Laura di Firenze

la luce inonda
piccole ombre sul cuore
dileguano

Laura di Firenze, 30 maggio 2007

trasfigurata … , haiku di Laura di Firenze

trasfigurata
il viso di un angelo
radiosità

Laura di Firenze, 31 agosto 2001

Per accedere a dominio angelico.com cliccare su sé, haiku di Laura di Firenze

Per accedere a
dominio angelico.com
cliccare su sé

Laura di Firenze, 14 aprile 2006

Angeli persi: Haiku di Laura di Firenze

Angeli persi
graffiti d’ombra cifra
dell’incompiuto

Laura di Firenze, 9 aprile 2001

Jacques Bonnet: I fantasmi delle biblioteche

…. L’altra grande categoria di bibliomani è quella dei lettori insaziabili. Non che i primi non leggano, ma il loro interesse principale è rivolto altrove. Non che i secondi non finiscano per avere molti libri, ma quello non è il loro vero scopo; semmai è una conseguenza della loro mania. All’inizio c’è in loro una gran voglia di leggere, una curiosità onnivora, ma questo non implica inevitabilmente un accumulo: i libri possono anche essere consultati in biblioteca o presi in prestito e, nel caso che li si sia comprati, si possono rivendere. Ma il bibliomane lettore vuole tenere l’oggetto per sé, averlo a disposizione. Il narratore di Carlos Maria Domínguez descrive il fenomeno in modo convincente: il lettore sviluppa un attaccamento non solo per la lettura, ma per l’oggetto che l’ha resa possibile: Mi sono spesso domandato perché tengo dei libri che potranno servirmi solo in un lontano futuro, dei titoli estranei ai miei percorsi consueti, delle opere che ho letto una volta sola e che riaprirò solo fra molto tempo, forse mai più. Ma come eliminare Il richiamo della foresta senza distruggere uno dei rari elementi intorno ai quali si è costruita là mia infanzia? Come disfarmi di Zorba il greco che ha suggellato la mia adolescenza tra le lacrime o di La venticinquesima ora? Come rinunciare ai tanti libri confinati da anni sugli scaffali più alti, quei libri muti ma intatti ai quali ci lega una solenne promessa di fedeltà? (La casa de papel) 

….

via TecaLibri: Jacques Bonnet: I fantasmi delle biblioteche.

Alessandro Manzoni, La conversione dell’Innominato, recita di Salvo Randone e Mario Feliciani, regia di Sandro Bolchi, 1967

Grazia Apisa Gloria, La tua sommessa voce. Dedicata a Paolo Ferrario, che mi ha fatto conoscere Antonia Pozzi, 27 marzo 2010

Biografia e Poesie di Grazia Apisa Gloria

Le radici del poeta viandante d’amore

“Sì, è ora che parli della mia anima. La mia anima è la terra: in tutti i sensi, la grande Terra; e quella piccola, il minuscolo acro bastante appena a tener viva la mia fame”, ci dice DAVID MARIA TUROLDO nel suo libro “La mia vita per gli amici, gennaio 2002”.

… “La Terra, passione di Dio e dell’uomo, dal cui fango siamo formati: per ritornare dispersa cenere, in una commistione di vita e di morte senza fine: con tutta la Terra.

Dicevo della mia piccola terra… del mio Friuli, dove sta una gente silenziosa e forte: gente raminga della mia terra, dispersa per il mondo. Così almeno fino a ora, fino al grande terremoto. Sradicati e stranieri dovunque, come zingari. Con i loro fagotti di emigranti, gonfi di tristezza più che di miseri stracci pur se dignitosi e lindi, stracci ancora freschi di lisciva. E ancor più carichi di nostalgia… .

E io più ramingo ed emigrante di loro, vagabondo di Dio, con l’idea di tornare sempre alla mia casa come alla mia cuna.

Una terra che ho sempre pensato fosse il centro dell’universo. Ero ancora un fanciullo, alle prime classi elementari: ricordo la solitudine che regnava su tutto il paese; e io che volevo sapere a che punto del mondo mi trovavo. Fu così che un giorno, nella tarda mattinata, salii da solo sul campanile, fino alla cella campanaria, e mi misi a guardare in direzione dei quattro punti dell’universo.

Ricordo che parlavo a voce alta; e poiché il paese era avvolto nella prima foschia fino a velare quasi completamente le montagne, ecco che mi dissi con piena fermezza: “Tanto di distanza di qua; tanta di là; e tanta dall’una e dall’altra parte”: così mi convinsi con gioia e paura insieme della domanda che più mi tormentava: dove fosse il mio paese! E trovavo che il mio paese era il centro dell’universo.

E’ questa una delle cose più vere per capire tutta la mia anima. Io ho portato con me tutto il mio paese: convinto che ognuno porta in sé un baricentro. Convinto che se scavi nelle tue profondità, trovi precisamente sempre la tua terra; per questo essa è il centro del tuo universo. … E la famiglia

Chiunque vorrà leggermi troverà nelle mie poesie più care questa preistoria che è uno degli elementi più sicuri a capirmi; e meglio ancora, a capire quanto io non sia riuscito a esprimere, a cantare come avrei voluto il vero canto dei poveri. …

E io, uscito forse dalla casa più povera, anche oggi orgoglioso di essere stato così povero. Non con questo che voglia nascondere il dramma della mia infanzia, che ho narrato nel racconto che ha per titolo “Ma io non ero un fanciullo”, dal quale poi ho realizzato il film Gli ultimi.

E’ a questa povertà che devo tutto: povertà che penso sia la salvezza non soltanto degli individui, ma della stessa società. Non ci salveremo se non da poveri.

[…]

Un anno fa mi trovavo in Friuli, inaspettatamente. Mi prende subito il proposito di tornare al mio piccolo paese… . Mi venne il desiderio di aggirarmi almeno per il cortile della mia infanzia… . Vedendo quel giorno che non c’era nessuno per tutto il borgo e la casa era abbandonata, d’istinto volli entrare almeno in cucina.

Era tutto come più di cinquant’anni prima: stessa porta, stessa caligine, stessa finestra sconnessa, stesso focolare e lavello… Solo che era spento il fuoco… Ma c’era mia madre!… Sì per me c’era! Come se fosse ancora lì! E io ancora fanciullo… Mi venne allora, tra un fiotto improvviso di lacrime e un singulto, un pensiero: sì, che non esiste la morte! che non c’è la morte! che tutto vive, che non è vero che loro sono di là e noi di qua; ma che anche loro sono qui, ancora qui, con noi; qui a continuare, tutti, sulle stesse strade: mai soli!”

… Solo dopo mesi mi venne all’improvviso, sorgiva, di cantare così:

E lasciamo il pianto

E lasciamo il pianto

Che mi sgorgò sulle mani

Dopo i cinquanta e più anni

Che non vi entravo: qui

Dalla mia casa almeno

Può dirsi: è stata bandita!

Ancora infatti l’umile porta,

ancora quella la finestra:

a camino per il fumo che a nembi

si addensava contro il soffitto,

e tu come allora

dentro la nuvola.

– “Pai” (babbo) già dall’alba

E fino a sera

Era a dissodare

I duri campi in affitto

O a falciare prati

Per altri… –

Più densa intorno agli stipiti

La caligine colava anche in giorni

Di vento secco:

e le fessure nell’impiantito

di sopra, e le crepe

nei muri e sul solaio:

no, qui nessun vento

soffiava sui divani

qui né tempo né morte avevano

più nulla da rapire o rodere.

Mancava solo il poco rame, unico

Oggetto lucente, oltre, madre,

i tuoi occhi sempre umidi

sul minuscolo lavello.

Mancavamo noi, volati

Via come uccelli

Non più tornati al nido.

Sola variante

La corte fattasi

Più deserta.

Non fosse che le case ora

Come dopo una peste

Siano tutte intonacate,

di calce, direi:

“Morte, non esisti!”.

E là tu stai “sudore plebis”

Mia casa

A sassi di fiume,

lacrime raggrumate da secoli.

E lei

Dalla piccola finestra

A salutarmi:

“Mandi, frut” (Addio, figlio).

Mentre riprendo la strada…

Mia natura

Mia natura è di essere

presente: amare

la realtà che sento: toccare,

divenire queste morenti cose

salvarle nel mio gesto

di pietà. Mia tristissima

gioia di questi possedimenti

sempre dispersi: di queste

inesistenze: amore di case

che debbo lasciare; di questa

mia perita città.

(Da: “Io non ho mani” in O sensi miei… “ Poesie 1948-1988)

Questa ragione

E pregare: noi siamo sassi, Iddio,

polvere di strade: passeranno

gli altri su noi e sugli altri

gli altri, fino all’ultimo giro.

Un’anima hanno le pietre,

un cuore, un destino pietoso.

Saranno domani prigioni e case

O mense d’altari ove sanguina

La Vita.

Polvere saranno, alla fine,

con la cenere degli uomini.

Cristo è il solo confine immobile,

l’abisso ove s’annulla l’eterno

e non ha più onda il tempo.

Questa ragione invece

Una scogliera sull’infinito.

(dalla raccolta “Gli occhi miei lo vedranno”, anno edizione 1955)

Ha dunque un volto

e piange –

… e non un segno dell’universo

Può dire che sia

Se

Non sia la tua coscienza

A dire di Lui:

“ecco, tu sei”

Lui

L’Illimite (no, è impossibile)

Il Nulla e il Tutto insieme

L’impossibile Immaginario:

Essere e Idea insieme

Ha dunque

Un volto

E una voce

E parla e

Piange…

Già dirlo è un prodigio:

dire che altra risposta

non esiste:

Ragione:

è necessitata a credere

ma prodigio ancora più grande

è credere

(Da: “Anche Dio è infelice”, 1991)

Ballata del pellegrino

Andiamo di primo mattino

usciamo dalla notte

lavate le mani e il cuore

e sul volto riflessa la gloria

della sua Schekinah (manifestazione)!

Andiamo senza turbare

la luce che sorge e il canto

degli uccelli lungo la via.

Andiamo col passo del Pellegrino,

nel sacco appena un tozzo di pane

che inzupperemo all’acqua di fonte

sull’altipiano: la necessaria

eucaristia di Natura

avanti di assiderci a sera

per l’ultima Cena.

E come usavano gli antichi oranti

dal “Tetto del mondo”, ognuno

appenda al proprio bastone

il velo della sua sospirata preghiera

e il vento la porti

nella direzione che vuole.

Andiamo leggeri, prodigiosa-

mente leggeri,

per non offender la terra,

e nulla alteri il ritmo

del misurato respiro.

E con l’alito appena

a bolle di luce diciamo

”Gesù, figlio di Dio”

”abbi pietà di noi”

perché tutta la terra

sia irrorata dalla

infinita pietà.

Tutte le ferite fasciate

sozzure e immondizie

bruciate nella Geenna,

colmate

tutte le solitudini.

O anche senza a nulla pensare,

lasciare libero Iddio

che usi grazia

cole a Lui piace:

perché noi non sappiamo,

non sappiamo!

E’ già grazia

essere amati, e più ancora

lasciarsi amare; e scendere

al centro del cuore

e portare la veste nuziale

e tornare all’innocenza premeva,

tornare ad essere in pace.

Ricondurre la mente

al centro del cuore dove

finalmente celebrare l’incontro:

poiché là Egli innalza

la sua preferita dimora

la tenda dei suoi ozi,

per i giochi d’amore.

E fare del corpo

il castello

delle nozze!

Amen.

(Da: “Nel segno del Tau” in “O sensi miei… “)

… Uno dei segni per non disperare e per non lasciarsi morire, è che non muoia la Poesia. Fin quando l’uomo canta, e tornerà a cantare, c’è ancora speranza, non solo per l’individuo, ma per la stessa società. La poesia, quando è poesia, è sempre un evento universale, un evento per il mondo, per la storia: poesia come luce; ultima forma di conoscenza; come intelligenza d’amore che sta proprio nel cuore della disperazione; poesia come voce dell’anima di un popolo; cuore del poeta quale conchiglia degli oceani; maceramento per l’assenza-presenza dell’Eterno; poesia che scaturisce da amore per il prossimo… .

… “Io non ho… mani che mi accarezzino il volto… “… Cominciavo così a seguirti…

Io non ho mani

Io non ho mani

che mi accarezzino il volto,

(duro è l’ufficio

di queste parole

che non conoscono amori)

non so le dolcezze

dei vostri abbandoni:

ho dovuto essere

custode

della vostra solitudine:

sono

salvatore

di ore perdute.

(Da: “O sensi miei”)

Poesia

Poesia

è rifare il mondo, dopo

Il discorso devastatore

del mercadante

(Da: “Nel segno del Tau”, 1988)

O infinito silenzio

Signore, per te solo io canto

Onde ascendere lassù

Dove solo Tu sei,

gioia infinita.

In gioia si muta il mio pianto

Quando incomincio a invocarTi

E solo di Te godo,

paurosa vertigine.

Io sono la Tua ombra,

sono il profondo disordine

e la mia mente è l’oscura lucciola

nell’alto buio,

che cerca di Te, inaccessibile Luce;

di Te si affanna questo cuore

conchiglia ripiena della Tua Eco,

o infinito Silenzio

(Da: “ Udii una voce” in “O sensi miei”)

… Tra le infinite cose di cui David conservava memoria, aveva scelto come suo modo nuovo di essere “cattolico” queste parole di papa Giovanni XXIII:

“Se nella notte non sai dove andare, sappi che alla mia finestra c’è sempre un lume acceso; bussa, bussa e io scenderò ad aprirti; né ti chiederò se sei cattolico o no”.

Uno dei doni che più hanno inciso su tutta la sua vita, e confortato in ogni battaglia, è stato il dono dell’amicizia…

E domani

Ve ne siete andati, amici.

Ora nuovamente solo

conto i vostri passi

( prima insieme a scendere

le scale, ad accomiatarci

sul sagrato, più tardi

possibile) e poi solo

a sentire i vostri motori

in corsa verso la pianura.

Solo, come ieri e come domani,

come questa notte di luna

sul colle così familiare e assente.

E’ mezzanotte, è l’una,

per me è sempre mezzanotte

e sempre è l’una e le due

e poi l’alba.

Solo, per i secoli dei secoli amen.

E tornerete domani e dopodomani

a rapirmi altre gocce di gioia

con fatica aggrumata

nella mia arnia d’inverno,

raccolta da qualche fiore sulle pietre,

tra spini e un gioco di bimbi:

anima mia come ape in volo

dall’alba all’alba

nel lungo giorno e nella lunga notte,

e poi ancora in volo

sulle nude scogliere dei sensi,

nel devastato giardino dei ricordi,

ovvero con la paura che le ali si frangano

sugli abissi di Dio.

Ancora qualche gioia

e poi altre rapine:

e così per sempre.

Tale il mio sacerdozio;

pur felice

che torniate, amici.

Ciò non segna importanza alcuna

purché torniate

e domani e dopodomani,

o amici”.

(Da: “Il sesto angelo” in “O sensi miei”)

Fratello ateo, nobilmente pensoso

alla ricerca di un Dio che io non so darti,

attraversiamo insieme il deserto.

Di deserto in deserto

andiamo

oltre la foresta delle fedi

liberi e nudi verso

Il nudo Essere

e lì

dove la Parola muore

abbia fine il nostro cammino.

(Da: “Oltre la foresta delle fedi”, 1996)

Colloquio notturno

E quando la notte fonda

ha già inghiottito uomini e case,

una cella mi accoglie

esule del mondo. Gli altri

nulla sanno di questa mia pace,

di questi appuntamenti.

Forse neppure io stesso

saprei rifare l’itinerario del giorno,

ripetere la danza del mio Amore.

Quasi nulla avanza di me

la sera: poche ossa, poca carne

odorosa di stanchezze,

curvata sotto il peso

di paurose confidenze.

Allora Egli mi attende solo,

a volte seduto sulla sponda del letto,

a volte abbandonato sul parapeto

della grande finestra. E iniziamo

ogni notte il lungo colloquio.

Io divorato dagli uomini, da me stesso,

a sgranare ogni notte il rosario

della mia disperata leggenda.

Ed Egli a narrarmi ogni notte la

Sua infinita pazienza.

E poi all’indomani io, a correre

a dire il messaggio incredibile

ed Egli fermo al margine delle strade

a vivere d’accattonaggio.

(Da: “Da udii una voce” in “O sensi miei… “)

Canti ultimi…

Sera a sant’Egidio

Tornata è la quiete,

anche il vento riposa,

non c’è più nessuno

nell’Abbazia:

ma io non chiuderò le porte:

Qualcuno, sono certo, verrà:

così attendo sereno la Notte.

(Da: “Canti ultimi”, 1991)

Sempre dilaniato

Sempre dilaniato dal “doppio pensiero” (Dostoevskij):

questo male non voluto

e voluto: conflitto e finzione

che durano da una vita:

figlio prodigo e fratello maggiore insieme

e tu,

a dare fondo alla tua pietà.

(Da: Ultime poesie, 1991-1992)

Una silenziosa camminata insieme all’amico Sandro in una pineta nei dintorni di Bressanone, nell’agosto del 1988, gli ispirò questa poesia:

Ti sento, Verbo, risonare dalle punte dei rami

dagli aghi dei pini, dall’assordante

silenzio della grande pineta

– cattedrale che più ami – appena

velata di nebbia come

da diffusa nube d’incenso il tempio.

Subito muore il rumore dei passi

come sordi rintocchi:

segni di vita o di morte?

Non è tutto un vivere e insieme

un morire? Ciò che più conta

non è questo, non è questo:

conta solo che siamo eterni

Non so come, non so dove, ma tutto

perdurerà: di vita in vita,

e ancora da morte a vita

come onde sulle balze

di un fiume senza fine.

Morte necessaria come la vita,

morte come interstizio

tra le vocali e le consonanti del Verbo,

morte, impulso a sempre nuove forme.

Mai di te

Mai di te sapremo:

. Suono

. Silenzio

. Parola

che tu sia,

oppure Occhio che riflette

tutta la terra come una perla;

e mai nulla di definito sapremo

neppure di noi…

(Da: “ Il grande male” in “O sensi miei…”)

Profezia Antica

E il già detto è ancora

da ridire, Qohelet:

mai la stessa onda si riversa

nel mare, e mai

la stessa luce si alza sulla rosa:

né giunge l’alba

che tu non sia

già altro!

(Da: Ultime poesie, 1991-1992)

Da: “Mia Apocalisse”

Tempo verrà

Tempo verrà che non avrete un metro

di spazio per ciascuno:

lo spazio di un metro

che sia per voi. Tutti

vi dovrete rannicchiare:

nemmeno coricati!

Se pure non sarete

accatastati uno sull’altro.

Allora uno resterà soffocato

dal ribrezzo dell’altro.

Non avrà spazio

neppure il pensiero

e tutto sarà nel Panottico:

pupilla di un

Polifemo

fissa al centro del cielo:

non ci sarà un solo angolo,

un remoto angolo

per il più segreto

dei pensieri.

Il cuore sarà cavo

come il buco nero

in mezzo alle galassie.

La mente di tutti

una lavagna nera…

Un groviglio di fili

senza corrente

i sentimenti

a terra.

David, è scaduto il tempo

David, è scaduto il tempo d’imbarco!

Ora il tuo posto

è la lista d’attesa.

Grazia rara è

se ancora qualcuno conservi

(con molte incertezze) memoria

del tuo nome, almeno

il sospetto

che tu sia esistito.

Premono formicai di anonimi

alle stazioni della metropolitana.

Moltitudini che urlano

invocando di salire,

a grappoli.

Tutti sconosciuti l’uno all’altro

ignoto il proprio volto

perfino a te stesso,

e il volto del proprio padre:

anche lui anche lui sbarcato

a forza del predellino

dell’ultimo tram

nella notte.

Non c’è approdo

E poi sempre finito

nel grande Vuoto,

e cantare

evanescenze…

Ora come un tempo, solo

con più amarezza: il gioco

non incanta più.

Non so se altri passino

per uguali gorghi

di vertigini:

essere-non essere, avvertire

di esistere appena:

e il corpo

che non ha confine,

e tu

perduto nell’illimite…

E consistere mai!

Non c’è approdo,

non c’è fine…

E’ vero invece

Non è vero che Dio è

la Lucidità.

E’ vero invece che ti appare

appena Occhio che avverti,

e di spalla

E lo senti incombere muto,

d’un silenzio che ti assorda:

frastuono d’acque

immense.

Divina è la confusione degli elementi

l’attrazione dei pianeti e di ogni vita,

e il peso di gravità delle cose

e questa coesione della pietra…

Dio, Unità e Divisione insieme:

penso che la stessa

morte a nulla

approderà

E non è vero

E non è vero che è

il Razionale:

quando non posso mai dire

perché son nato io e non un altro;

e in questo modo son nato,

e tempo, e luogo, e non altrove…

(Da: Nel segno del Tau)

Ieri, all’ora nona

Ieri all’ora nona mi dissero:

il Drago è certo, insediato nel centro

del ventre come un re sul trono.

E calmo risposi: bene! Mettiamoci

in orbita: prendiamo finalmente

la giusta misura davanti alle cose;

con serenità facciamo l’elenco:

e l’elenco è veramente breve.

Appena udibile, nel silenzio,

il fruscio delle nostre passioncelle

del quotidiano, uguale

a un crepitare di foglie

sull’erba disseccata.

(Da: Canti ultimi, 1991)

… A chi ha “conservato memoria” lascio questa sua poesia:

Crociera sul lago

Tutto, dunque, indistinto, trasognato.

Ci avvolge una sola luce

e il fischio dell’approdo. Scendiamo,

(la città ci viene incontro sull’onde)

ognuno col suo bagaglio.

Il giro è finito. Domani lo stesso viaggio.

Un veliero ora parte carico di gente;

un altro ritorna incrociando al porto.

Solo contrasto le onde che s’infrangono

annullandosi. La gente dalla tolda

saluta la gente che resta.

Il sole indifferente

è sdraiato sulle colline.

Solo un po’ di vento al largo.

Ora un velo nasconde le montagne

e il lago assente sopporta, tace.

I pensieri come vele bianche

gonfi di nulla. Lo stridore del gabbiano

unico segno rimasto di vita:

anche noi indistinti, finalmente, in sonnolenza.

Finalmente e uomini e cose

e lucertole rovesciati nel sole.

Forse non uno pensa. Qualcuno

come un automa sorseggia una bevanda gelida.

Si parla in un angolo piano

ma forse nessuno attende alle parole.

Dalla spiaggia i villani guardano da secoli;

quante volte videro l’avvio e l’approdo!

E dalla nave anche noi guardiamo

la gente che ci guarda. E così

chissà per quanto tempo ancora,

forse per sempre.

(Da: “Udii una voce” in “O sensi miei… “)

Haruki Murakami, A Sud del confine a Ovest del sole (1992), Feltrinelli, 2005, riflessione di Paolo Ferrario

Haruki Murakami è, per me, un autore generazionale.

Intendo per generazionale uno che ha attraversato il mio stesso arco di tempo: quello della seconda metà del novecento.

Murakami ha preso la distanza, un po’ come hanno fatto (rispetto alla loro storia) alcuni protagonisti tedeschi del ciclo Heimat di Edgar Reitz, dalla tradizione giapponese, dai loro rituali imperiali, dalle loro culture così difensive verso l’esterno del mondo.

Murakami è un autore che parla di adolescenze, di maturità, di adultità, di musicalità transculturali. Un suo alter ego si racconta così:

”Sono nato il quattro gennaio 1951, nella prima settimana del primo mese del primo anno della seconda metà del ventesimo secolo. Lo si potrebbe quasi considerare un evento da commemorare ed è per questo che i miei genitori mi hanno chiamato Hajime, che significa “inizio” “

A Sud del confine, a Ovest del sole, pag. 9

In questo romanzo Hajime trascorre la prima adolescenza con Shimamoto. Ascolta con lei le sinfonie di Rossini, la Pastorale di Beethoven, il Peer Gynt. Ma ascoltano anche Nat King Cole, Bing Crosby.

Poi i due ragazzi si perdono di vista.

Hajime , nell’età dei licei, “uscirà” con Izumi, scoprendo i primi contatti dei corpi nudi. Poi farà l’amore con la cugina di Izumi: “nei nostri incontri andavamo subito al sodo. Consumavo con avidità quello che avevo davanti e così lei”.

Tutti figli unici questi giovani: c’è questo ad accomunarli.

Studierà, parteciperà alla stagione delle lotte politiche giovanili, comincerà a lavorare, si sposerà con Jukiko, farà carriera.

Ma ad un certo momento il Daimon del destino riunisce ancora Hajime e Shimamoto.

Le pagine seguenti segnano i caratteri fra l’irreale e l’esperienziale di quell’incontro. C’è anche Duke Ellington ad incidere quei momenti.

“Sai, Shimamoto,” dissi. “Per tutto questo tempo ho desi­derato incontrarti, per poter parlare un po’ con te. Volevo dirti tante cose.”

“Anch’io volevo rivederti, alla fine tu non ti sei più fatto vivo. Ti ricordi? Quando abbiamo iniziato le medie e ti sei trasferito nell’altra città, ho aspettato a lungo che venissi a trovarmi. Perché sei scomparso così? Ero molto triste. Pensai che avessi fatto altre amicizie in quel nuovo ambiente e che ti fossi dimenticato di me.”

Shimamoto spense la sigaretta nel portacenere. Le sue unghie erano ricoperte da un velo di smalto trasparente. Erano così levigate e perfette che sembravano l’opera raffi­nata di un artigiano.

“Avevo paura,” dissi.

“Paura?” fece lei. “E di che cosa? Avevi forse paura di me?”

“No, non di te. Temevo solo che potessi respingermi. Sai, ero ancora un ragazzino e non potevo immaginare che tu mi stessi aspettando. Ero davvero terrorizzato all’idea di essere rifiutato da te. Temevo che, venendo a casa tua, sarei stato di disturbo e così decisi di allontanarmi da te. Pensavo: piutto­sto che rimanere ferito, è meglio conservare il ricordo dei giorni felici trascorsi insieme.”

Shimamoto chinò leggermente la testa. Poi prese un anacardio e lo fece rotolare nel palmo della mano.

“Le cose non vanno mai come vorremmo!”

“E proprio così,” dissi io.

“Eravamo destinati a rimanere amici per molto più tempo! A essere sincera non ho avuto più nessun amico, né alle medie, né alle superiori e nemmeno durante l’università. Sono rimasta sempre sola. Ho sempre pensato a come sareb­be stato bello se ci fossi stato tu vicino a me, mi sarebbe bastato anche solo poterti scrivere qualche lettera. Molte cose sarebbero andate diversamente e sarebbero state più facili da sopportare.” Rimase per un po’ in silenzio, poi con­tinuò: “Non so perché, ma dalle medie in poi ho iniziato ad andare male a scuola. E più non riuscivo a farcela, più mi chiudevo in me stessa. Era come un circolo vizioso”.

Annuii.

“Fino alle elementari sono riuscita a cavarmela abbastan­za bene, ma poi è stato un disastro. Mi sentivo come prigio­niera in fondo a un pozzo.”

Anch’io avevo provato una sensazione simile, nei dieci anni dall’inizio dell’università fino al matrimonio con Yukiko. Se qualcosa comincia ad andare storta trascina con sé il resto. Tutto sembra andare sempre peggio, non si riesce a trovare alcun rimedio, a meno che qualcuno non riesca a tirarti fuori.

“Innanzitutto, avevo quel difetto alla gamba e molte cose, che per gli altri erano normali, per me erano impossibili. E così passavo il mio tempo a leggere libri e me ne stavo sem­pre per conto mio. Inoltre, avevo, come dire, un aspetto che non passava certo inosservato. Quindi quasi tutti mi consi­deravano una persona complessa e superba. O forse ero diventata davvero così.”

“Forse eri troppo bella,” dissi. Prese una sigaretta e se la mise in bocca: gliela accesi con un fiammifero.

“Pensi davvero che io sia bella?” mi domandò.

“Lo penso davvero e credo che te lo sia sentito ripetere tante volte.”

Shimamoto scoppiò a ridere. “No, non è vero. A essere sincera, non è che il mio viso mi piaccia tanto. Perciò sono contenta di sentirmi dire questo da te,” disse. “Comunque sia, non piaccio molto alle donne. Purtroppo. Spesso ho pensato a come sarebbe stato meglio poter essere una ragaz­za comune, avere degli amici come tutti, anche a costo di sentirmi dire che non sono bella.”

Shimamoto allungò una mano e sfiorò leggermente la mia sul bancone. “Ma mi fa piacere sapere che sei felice!”

Io rimasi in silenzio.

“Perché sei felice, o sbaglio?”

“Non lo so. Di sicuro non mi sento infelice, né solo,” dissi, aggiungendo poco dopo: “A volte, però, mi è capitato di pensare che il periodo più felice della mia vita è stato quando noi due ce ne stavamo nel tuo soggiorno ad ascolta­re la musica”.

“Sai, quei dischi li conservo ancora adesso. Nat King Cole, Bing Crosby, Rossini, il Peer Gynt e altri. Li ho ancora tutti. Me li ha lasciati mio padre prima di morire, come suo ricordo. Li avevamo custoditi con tanta cura che ancora adesso non hanno neanche un graffio. Ti ricordi come maneggiavo con delicatezza quei dischi?”

“E così tuo padre è morto?”

“E morto cinque anni fa, per un cancro all’intestino retto.

È stata una morte terribile. E pensare che era una persona così piena di vita!”

Avevo incontrato diverse volte il padre di Shimamoto. Sembrava un uomo forte e solido come la quercia che stava nel giardino di casa sua.

“E tua madre sta bene?” le domandai.

“Sì, suppongo di sì.”

Notai qualcosa di particolare nel suo tono di voce. “Non vai d’accordo con tua madre?”

Shimamoto finì il suo daiquiri, poggiò il bicchiere sul banco e chiamò il cameriere. Poi mi domandò: “Dai, consi­gliami un cocktail speciale della casa!”.

“Ci sono diversi cocktail originali. Il più apprezzato è quello che porta il nome del locale, il ‘Robin’s Nest’. E una mia invenzione, è a base di rum e vodka. Si fa bere subito, ma è molto forte.”

“L’ideale per far cadere una donna fra le proprie braccia!” “Tu non lo sai, Shimamoto, ma i cocktail sono fatti pro­prio per questo.”

Scoppiò a ridere e disse: “Allora ne assaggerò uno”. Dopo che le portarono il cocktail, rimase per un po’ a osservarne il colore. Ne bevve un sorso e chiuse gli occhi, per poterlo assaporare meglio. “Ha un gusto molto particola­re,” disse. “Né dolce, né amaro. Ha un sapore semplice e delicato, ma si sente anche una certa corposità. Non sapevo che avessi questo talento.”

“Non sono capace di costruire neanche una mensola, non so cambiare il filtro dell’olio della macchina, né attaccare un francobollo dritto. Spesso sbaglio perfino a digitare i numeri di telefono, però sono stato capace di creare diversi cocktail originali, molto apprezzati dai miei clienti.”

Shimamoto poggiò il suo cocktail sul piattino e rimase a fissarlo per un po’. Lo inclinò e il riflesso delle luci del soffit­to oscillò debolmente.

“Non vedo mia madre da tantissimo tempo. Circa dieci anni fa abbiamo avuto dei contrasti e da allora non ho quasi più avuto contatti con lei. Ci siamo incontrate solo al funera­le di mio padre.”

Il trio jazz aveva finito di suonare un proprio blues origi­nale e il pianoforte aveva attaccato Star-Crossed Lovers. Quando io ero nel locale, il pianista suonava spesso per me questa ballata, sapendo che mi piaceva. Non era uno dei pezzi più famosi di Duke Ellington e non era neanche legato a un mio particolare ricordo personale. Mi era solo capitato di sentirla una volta e da allora mi dava sempre una forte emozione. Sia da studente, sia quando lavoravo alla casa edi­trice, la sera ascoltavo infinite volte il pezzo Star-Crossed Lovers dell’LP Such Sweet Thunder. C ‘era un assolo delicato e raffinato di Johnny Hodges. Quando ascoltavo quella bellis­sima e languida melodia, mi tornavano sempre in mente quei giorni. Non era stato certo un periodo felice della mia vita, con tutte le aspirazioni insoddisfatte che avevo allora. Ero molto più giovane, pieno di desideri e molto più solo. Ero la stessa persona, ma come “ridotta all’osso” e resa sen­sibilissima. La musica che ascoltavo allora e i libri che legge­vo, li sentivo penetrare dentro di me, nota per nota, riga per riga. I miei nervi erano tesi e affilati come cunei e nel mio sguardo c’era una luce così penetrante che sembrava quasi voler trafiggere gli altri. Quando riascoltavo Star-Crossed Lovers mi tornavano in mente sempre quei giorni e i miei occhi riflessi nello specchio.

“A essere sincero, una volta, quando ero in terza media, sono venuto a trovarti. Provavo un senso di solitudine insop­portabile,” le dissi. “Avevo cercato di telefonarti, ma il nume­ro era cambiato. Allora presi il treno e venni fino a casa tua, ma sulla targhetta del tuo portone c’era un altro nome.”

“Due anni dopo il tuo trasferimento, andammo ad abita­re a Fujisawa, vicino a Enojima, dove mio padre era stato mandato per lavoro. Da allora ho vissuto sempre lì, fino a quando non ho cominciato l’università. Dopo essermi tra­sferita, ti ho scritto una cartolina con il nuovo indirizzo. Non ti è arrivata?”

Scossi la testa: “Se l’avessi ricevuta, ti avrei risposto. Che strano! Ci deve essere stato sicuramente qualche errore”.

“Forse siamo noi due a essere sfortunati!” disse Shimamo­to. “Per una serie di contrattempi, finiamo sempre per perder­ci. Ma parlami un po’ di te, di che cosa hai fatto finora.”

“Non è che ci sia molto di interessante da dire,” risposi io.

“Non importa, voglio sapere lo stesso.”

Le feci un resoconto generale della mia vita. Le dissi che avevo avuto una ragazza negli anni del liceo, con la quale, però, alla fine mi ero comportato molto male. Non le rac­contai i particolari della storia, ma solo che, ferendo in quel modo i suoi sentimenti, avevo finito per fare del male anche a me stesso. Le parlai dell’università a Tokyo, del lavoro alla casa editrice e della solitudine che aveva accompagnato quel periodo della mia vita. Non avevo amici e le ragazze con cui ero uscito qualche volta non mi avevano reso felice. Dalla fine del liceo fino a trent’anni, cioè fino a quando non incon­trai e sposai Yukiko, non avevo amato veramente nessuna donna. Le dissi anche che, in quel periodo triste della mia vita, avevo pensato spesso a lei e desiderato moltissimo poterla incontrare e parlarle, anche solo per un’ora. A queste parole sorrise.

“Hai pensato spesso a me?” mi domandò. “Certo,” risposi.

“Anch’io ti ho pensato spesso. Quando attraversavo momenti difficili, pensavo sempre a te. Forse sei stato l’uni­co amico che abbia mai avuto.”

Si appoggiò al bancone con una mano sotto il mento e chiuse gli occhi per un po’, come priva di forza. Notai che non portava nessun anello al dito. Ogni tanto sembrava che le ciglia fossero attraversate da un impercettibile tremito. Poco dopo aprì lentamente gli occhi e guardò l’orologio che aveva al polso. Era già quasi mezzanotte.

Prese la borsa e, con un leggero movimento, scese dallo sgabello.

“Buonanotte, è stato bello rivederti,” disse.

La accompagnai alla porta di ingresso e le chiesi: “Ti chia­mo un taxi? Ti sarà difficile trovarne uno con questa pioggia!”.

Shimamoto scosse la testa e aggiunse: “Non preoccuparti. Posso cavarmela da sola”.

“Veramente, non sei rimasta delusa?” le domandai.

“Di te?”

“Sì, di me.”

“No che non sono rimasta delusa,” disse con un sorriso. “Non preoccuparti. Ma sei sicuro che il tuo completo non è di Armani?”

Mi accorsi che Shimamoto non zoppicava più. Non cam­minava molto velocemente e a guardarla con attenzione, si notava che c’era qualcosa di artificioso nella sua andatura. Per il resto, però, era quasi del tutto normale.

“Quattro anni fa, mi sono sottoposta a un’operazione e sono guarita,” disse Shimamoto, come per giustificarsi. “Non è che la gamba sia perfetta, ma è migliorata molto. E stato un intervento difficile, ma è andato tutto bene. Mi hanno tagliato diverse ossa e me le hanno riattaccate.”

“Incredibile. Adesso il difetto alla gamba non si vede più.”

“Sì, è vero,” disse lei. “Ho fatto bene a prendere questa decisione, anche se forse avrei dovuto farlo molto prima.”

Presi il suo cappotto dal guardaroba e la aiutai a infilarse­lo. Quando mi si avvicinò, mi accorsi che non era molto alta. Sembrava che la sua statura non fosse cambiata da quando aveva dodici anni e questo mi fece una strana impressione.

“Shimamoto, ci rivedremo ancora?”

“Forse,” disse lei. Sulle sue labbra apparve un lieve sorri­so, come un fumo sottile che si leva in una tranquilla giorna­ta senza vento. “Forse.”

Poi aprì la porta e uscì. Dopo quasi cinque minuti, anch’io salii su per le scale per cercare di raggiungerla sulla strada. Temevo che non trovasse facilmente un taxi. La piog­gia continuava a cadere e Shimamoto non era più lì. La stra­da era deserta, si vedevano solo le luci dei fari delle macchi­ne sull’asfalto bagnato.

Forse era stato solo un sogno, pensai. Rimasi lì fermo a guardare la pioggia. Mi sembrava di essere tornato il ragazzi­no di dodici anni che nelle giornate piovose restava spesso a fissare immobile l’acqua che scendeva. Quando guardavo la pioggia, senza pensare a nulla, avevo l’impressione che il mio corpo si sciogliesse e che il mondo reale si allontanasse da me. Sentivo che la pioggia aveva un particolare potere sulle persone, quasi ipnotico.

Ma non era stato un sogno. Tornato nel locale, vidi che dove si era seduta Shimamoto c’erano ancora il suo bicchiere e il posacenere. Dentro erano rimasti i mozziconi di sigaretta che lei aveva spento delicatamente, sporchi di rossetto. Mi sedetti accanto al suo sgabello e chiusi gli occhi. A poco a poco, l’eco della musica cominciò a svanire e rimasi solo. In quella velluta­ta oscurità, la pioggia continuava a cadere silenziosa.

A Sud del confine, a Ovest del sole, pag. 92-99

libri di Grazia Apisa Gloria

Ha pubblicato racconti, favole e poesie:

“Il linguaggio dei sogni”, (Genova, 1994) con la Nuova Editrice Genovese;

“Stelle d’Igea”, favole ispirate ad un sogno (Genova, 1994);

“Scacco matto alla ragione – La strada di San Diego – due racconti e 11 poesie” (Genova, 1994);

“Ti amo – Dalla dialettica al dialogo” (Genova, 1994);

“Luce bianca nel sentiero” (Genova, 1994) con la Silver Press;

“Senza Traccia” (Genova, 1995),

“Il fiore del gelsomino” (Genova, 2007),

“La strada Bianca” (Genova, 2007),

“Quell’Aprile antico” (Genova, 2007),

“L’infinito e il suo sogno” (Genova, 2007),

“Nell’attimo eterno” (Genova 2008),

“Il Dio di luce” (Genova, 2008),

“Nella città della luce e del sogno” (Genova, 2008),

“Mi chiederai di nascere” (Genova 2008),

“L’incontro” (Genova, febbraio 2009) con la Golden Press..

Filosofia e tragedia – Letture

Letture:

Sergio Givone, Oltre il cristianesimo secolarizzato, pp.109-121 di Filosofia ’86 (a cura di Gianni Vattimo), Laterza 1987 – sul rapporto tra cristianesimo e tragedia.

Sergio Givone, Il pensiero tragico (1996)

Sergio Givone, Tragedia e modernità (1999)

Pier Aldo Rovatti, L’esistenza tragica (2000)

Dario Del Corno, La tragedia greca (2000)

Dario Del Corno, Mito e teatro nel rito tragico (1999)

Carlo Galli, Legge e coscienza morale (1999)

Carlo Galli, Il principio di responsabilità (2000)

Fausto Petrella, Capaci di intendere e di volere (2000)

Sergio Givone, Il libero arbitrio (2000)

Sergio Givone, Le forme del male (1998)

Sergio Givone, Che cos’è il male? (1998)

 

Hannah Arendt, La responsabilità personale sotto la dittatura (a questo indirizzo trovate alcune  pagine del saggio, pubblicato da MicroMega nel 1991, in formato pdf)

“La responsabilità personale sotto la dittatura” di Hannah Arendt indica chiaramente il più grande “no” che occorre pronunciare. Le nazioni non ne sono capaci. Per questo, abbiamo avuto le tragedie dei totalitarismi di destra e di sinistra. E’ tragedia il consenso dato senza che nemmeno venisse richiesto. Un tempo credevo che solo i popoli sono morali, gli individui mai. Ora penso che c’è salvezza solo se i singoli dicono tanti “no”.

PIETRO CITATI, PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO, da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

 
PERCHÉ AMO LA TV DEL TENENTE COLOMBO 

 


di PIETRO CITATI 

L´estate scorsa, la televisione italiana ci ha offerto un dono inconsueto. Nelle sere di sabato e di domenica, alle 19.35, cominciava la proiezione di un film della serie del Tenente Colombo, che accompagna da molti anni la nostra vita. Confesso di avere una passione infantile per le vicende del piccolo tenente spiegazzato: passione che Federico Fellini condivideva. Qualsiasi cosa accadesse, qualsiasi invito allettante mi venisse rivolto, non abbandonavo la poltrona o la seggiola davanti alla televisione, sebbene avessi visto dieci volte quel film e mi ricordassi quasi a memoria ogni particolare. Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple – con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale – mi affascina fino a questo punto.
Tutti conoscono la trovata fondamentale dell´intera serie. Gli sceneggiatori del Tenente Colombo, tra i quali si nasconde una mente sottilissima, hanno capovolto la struttura del giallo tradizionale. Se in un testo di Conan Doyle o di Agata Christie o su Nero Wolfe la scoperta del colpevole avviene puntualmente alla fine del libro, qui, pochi minuti dopo l´inizio, il mistero è già rivelato: sappiamo chi è la vittima e chi il colpevole, e per quali ragioni e in quali circostanze la vittima è stata uccisa. Suppongo che, nei primi tempi, questo capovolgimento abbia turbato il mondo degli appassionati. Se il mistero era rivelato subito, rischiava di venire abolito. Ma la straordinaria bravura degli sceneggiatori del Tenente Colombo, ha fatto sì che questo pericolo venisse cancellato. Non ho quasi mai seguito un giallo con tanta partecipazione e tensione.
Le vicende del tenente Colombo, il suo sospetto improvviso, i minimi indizi, le oscure certezze, le nebbie, le sorprese, le distrazioni, le convinzioni rafforzate, i suoi inganni, le sue finte ingenuità, le sue astuzie, le sue truffe, producono a volte una suspense quasi insostenibile.
Nei gialli di tipo «matematico», ai quali la serie del Tenente Colombo appartiene, il protagonista è di solito avvolto da un profumo alto-borghese, o intellettuale, o lievemente snobistico. Coltissimo e squisitissimo, Sherlock Holmes ha modi alla Oscar Wilde. Anche in Miss Marple, per non dire in Hercule Poirot, si avverte una buona famiglia e ottimi studi. Invece, il tenente Colombo, italo-americano, fa parte di una razza lungamente vilipesa e talvolta calunniata. La sua famiglia è modestissima: ha frequentato una scuola di infimo ordine; la sua cultura deriva dalla televisione popolare. Ha visto qualche musical con un biglietto omaggio. I ricchi protagonisti-colpevoli guardano con disprezzo il suo impermeabile stazzonato, a volte sovrapposto a un mediocre vestito da sera, la camicia e i vestiti di cattiva qualità, la cravatta sfilacciata e male annodata (c´è sempre una signora elegante che gliene regala una nuova), le scarpe sformate, la vecchia automobile scoppiettante, il cane sgraziato, la passione per il popolarissimo chili, l´incapacità di bere e mangiare con eleganza. Appena egli entra in una casa ricca o nel negozio di un grande sarto, rivela la sua natura di paria. I salotti, gli specchi, le porte decorate, gli armadi sontuosi, gli enormi mazzi di fiori o l´enorme apparecchio televisivo, l´educata pelouse suscitano la sua candida ammirazione infantile, a volte ostentata con nascosta ironia.
Gli appassionati dei gialli sostengono che uno scrittore o un regista non deve mai ripetere le proprie trovate perché annoia il pubblico. Anche qui, l´occulto responsabile della serie del Tenente Colombo ha capovolto ogni abitudine. Tutto, nella figura del piccolo tenente, è ripetizione. In ogni film, ripete i suoi tic. Fa la parte del tonto, finge di non capire, è troppo umile, permette che il ricco colpevole lo disprezzi o lo insulti, si meraviglia, guida la solita vecchissima macchina, si occupa con amore del grosso cane, ammira sciocchi libri alla moda, segue i successi musicali, allude di continuo a una signora Colombo che non vedremo mai, finge continuamente di avere dimenticato una domanda (la più importante), per ricomparire subito dopo dietro una porta suscitando sospetto e inquietudine, fruga nelle tasche alla ricerca di un importantissimo biglietto perduto… Il suo volto conosce poche espressioni. Nulla, in lui, sembra imprevisto. Ma questa serie incessante di ripetizioni è divertentissima. Ci affezioniamo alle sue abitudini. Se osasse cambiare impermeabile, ci offenderemmo, come se ognuno dei suoi tic contenesse un segreto straordinario.
Malgrado le apparenze, il tenente Colombo è un genio. Cinque minuti dopo essere arrivato sulla scena, comprende chi è il colpevole. Parlare di istinto, o di abilità o di consuetudine poliziesca, è troppo poco. Egli possiede una specie di intuito medianico, che gli rivela l´assassino. Non sappiamo come né perché, né su quali indizi si basi, ma una cosa si ripete sempre: egli non ha dubbi né esitazioni. Egli sa. Appena ha ricevuto l´illuminazione, non si preoccupa di nulla d´altro. Non guarda le cose, trascura piste apparentemente importantissime, si distrae, sogna, fantastica. Quando ha trovato la vera pista, mette in moto il suo formidabile istinto per tutto ciò che è microscopico. Annusa eventi minimi: un residuo di sigaretta, una minima discordanza temporale, un fiammifero, l´orma di una scarpa, una coincidenza falsa, il filo di un abito, un capello tinto, una sensazione improbabile, un posteggio misteriosamente asciutto. Quando ha accumulato una quantità sufficiente di dettagli (qualche volta basta uno solo), il colpevole gli cade tra le braccia, come se non potesse resistere al fascino del suo seduttore.
Il tenente Colombo sembra buonissimo. Non ha mai, o quasi mai, rancori verso i colpevoli, anche se questi lo disprezzano o lo trattano male. Non si offende. Non alza la voce. Non si dà arie. Se cattura il colpevole, lo fa sopratutto per obbedire al suo dovere di poliziotto, e alle volte sembra dispiaciuto, come se il suo compito gli pesasse. Qualche assassina, specie se bella e ingegnosa, lo commuove. Quanto alla sua vita famigliare, di cui non sappiamo quasi nulla, immaginiamo che sia un marito eccellente e pieno d´attenzioni. Forse è un po´ succube della moglie. Con la sua vasta parentela italo-americana, è certo tollerantissimo. Eppure, qualcosa ci induce in sospetto. Con i suoi piccoli tocchi, con le sue microscopiche invenzioni egli irretisce i colpevoli. E chi irretisce, se dobbiamo ascoltare il nostro sentimento profondo, non è mai del tutto innocente. Così, alla fine, abbiamo la sensazione che il colpevole, per quanto coperto di crimini, sia la vittima: la mosca o il topo, caduti nella rete del ragno-Colombo o nelle grinfie del gatto-Colombo. Se ci identifichiamo con lui, sia pure con cautela, affondiamo in quella parte occulta della nostra anima, che ha bisogno del male, coltiva il male, e mentre lo circuisce e lo avvolge, si immerge nella tenebra dell´universo.
Sembra contento di sé. È povero, ma non gli dispiace di esserlo. Non lo sorprendiamo mai a sognare promozioni: se diventasse colonnello di polizia, dovrebbe abbandonare le sue care indagini, con tutti quei bellissimi particolari, dove egli ficca voluttuosamente le mani. È tenente, e vuole restare tenente per tutta la vita. Non desidera possedere le ricche case e i giardini che intravede, ogni volta che il delitto lo introduce nel mondo della ricchezza: l´unico dove il delitto prospera con gioia ed orgoglio. Quando va nei ristoranti alla moda, con il suo patetico cravattino a farfalla, rimpiange le modeste trattorie, i bar, il piatto di chili e le uova sode. Nessuno potrebbe attribuirgli melanconie e inquietudini. Forse non prova sentimenti: forse la moglie, che non si vede mai, non esiste affatto, e il suo proclamato sentimento coniugale è una pura istituzione pubblica. Ama appassionatamente soltanto il suo mestiere di poliziotto: non c´è una goccia di sangue, in lui, che non agogni misteri da risolvere, assassinii da rivelare, tenebre da illuminare, ordine da ristabilire.
Davanti al tenente Colombo, tutti i colpevoli, persino i più astuti e malvagi, sono indifesi; e qualche volta ci sentiamo inteneriti da un vago sentimento di pietà verso di loro. Se essi accettano il suo gioco teatrale, se credono che egli sia ingenuo come finge di essere, oppure si rivolgono alla autorità suprema (i sindaci, i governatori, i capi della polizia), allora sono perduti senza rimedio. Le fauci apertissime del gatto-Colombo li attendono. Ma non sono sicuri nemmeno se comprendono che egli è una avversario pericolosissimo. Come salvarsi da lui? Come proteggersi da qualcuno che combina l´istinto medianico con la raffinatezza razionale, che gioca con la sopraragione, o l´antiragione, e la ragione? Il povero colpevole si nasconde in un angolo; e finalmente capisce che il piccolo elfo italiano ha giocato con lui, con inimitabile grazia, la parte terribile del destino.

da LA REPUBBLICA, 9 gennaio 2008

Martin Buber – Confessioni estatiche (Adelphi, 1987)

Confessioni estatiche.

Martin Buber – Confessioni estatiche (Adelphi, 1987)
Pubblicato originariamente nel 1909 e rivisto nel 1921, il volume rappresenta un’antologia unica nel panorama della letteratura mistica. Buber raccoglie testimonianze eterogenee – da Plotino a Ramakrishna, da Simeone il Nuovo Teologo a figure meno note come la pastorella Alpais o la serva Armelle – unificandole attraverso il filo rosso dell’esperienza estatica vissuta come incontro sovrumano1.

Struttura e intento
Buber evita classificazioni gerarchiche o interpretazioni riduttive (psicologiche, fisiologiche), privilegiando la vox humana che tenta di dire l’indicibile16. L’opera si configura come un dialogo trans-storico dove mistici di epoche e culture diverse «parlano una sola voce», quella dell’uomo di fronte all’abisso del divino1.

Influenza culturale
Il libro ha segnato intellettuali come Jorge Luis Borges, che dichiarò: «Tutto ciò che so sull’estasi l’ho imparato da questo libro»6, e Robert Musil, il quale attinse alle Confessioni per i dialoghi mistici tra i protagonisti de L’uomo senza qualità1. Pietro Citati lo definisce «il più bel breviario di mistica» per la capacità di coniugare rigore e potenza visionaria6.

  1. https://www.adelphi.it/libro/9788845902437
  2. https://www.paolinestore.it/confessioni-estatiche.html
  3. https://shop.cavouresoterica.it/products/confessioni-estatiche-martin-buber
  4. https://www.ibs.it/confessioni-estatiche-libro-martin-buber/e/9788845925368
  5. https://www.libreriadelsanto.it/reparti/libri/autori-e-personaggi/autori/buber-martin/427.html
  6. https://www.adelphi.it/libro/9788845925368
  7. https://www.lafeltrinelli.it/confessioni-estatiche-con-saggio-di-libri-vintage-martin-buber/e/2562817141423
  8. https://www.ebay.it/itm/295453381901

Sulla personalità di LUCIEN GOLDMANN; Alcune note su LUCIEN GOLDMANN; Bibliografia essenziale di LUCIEN GOLDMANN, in Utopia n. 9/10, settembre / ottobre 1971

Paolo Ferrario, La Scarpinata, il mondo visto dalla poesia, in ul Tivan, 10 giugno 1967. Recensione del libro di Marisa Zoni

vai a

Giuseppe Berto, Il male oscuro, Rizzoli, 1964

Vladimir Majakovskij, Gente che non ho mai visto: Mussolini, 1923 (trovata nel libro: Metrica dei giorni, poesie per un anno, Palomar edizioni, 1999, pagina 531)

Ovunque si getti lo sguardo, i giornali
son pieni
              del nome di Mussolini.
A quelli che non l’hanno mai visto
                                                   lo descrivo io, Mussolini.
Punto per punto,
                         tratto per tratto.
Genitori di Mussolini,
                                 non sforzatevi di criticarmi!
Non gli somiglia?
                           La copia più esatta
                                                       è la sua politica.
Mussolini
               ha un orribile
                                    aspetto.
Nude le estremità,
                            nera la camicia,
sulle braccia
                   e sulle gambe
                                        migliaia
di peli
         a ciuffi.
Le braccia
                arrivano ai calcagni
                                              e scopano per terra.
Nell’insieme
                   Mussolini
                                  ha l’aspetto di scimpanzé
Non ha faccia :
                       al suo posto
ha un enorme
                     marchio da brigante.
Quante narici
                     ha ogni uomo!
                                           È inutile!
Mussolini
               in tutto,
                           ne ha una sola,
e anche questa
                      gli è stata spaccata
                                                   esattamente in due
alla spartizione
                        del bottino.

….

vai alla intera poesia:

https://incidenze.blogspot.com/2012/10/gente-che-non-ho-mai-visto-mussolini-di.html

Orazio, poeta romano, nato l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa

Orazio, il cui nome completo è Quinto Orazio Flacco, è stato un illustre poeta romano, nato l’8 dicembre del 65 a.C. a Venosa, una colonia romana situata nell’attuale Basilicata. Figlio di un liberto che divenne esattore delle tasse, Orazio crebbe in una condizione economica relativamente agiata, che gli permise di ricevere un’ottima educazione[1][3][6].

Formazione e Carriera Militare

Dopo aver completato i suoi studi a Roma, Orazio si trasferì ad Atene per approfondire la filosofia e la poesia greca. Durante questo periodo, si arruolò nell’esercito di Bruto per combattere contro le forze di Ottaviano nella battaglia di Filippi nel 42 a.C., dove il suo schieramento subì una pesante sconfitta. Dopo la battaglia, Orazio tornò in Italia grazie a un’amnistia, ma scoprì che il podere paterno era stato confiscato[2][3][4][6].

Inizio della Carriera Poetica

Costretto a cercare un impiego, Orazio divenne segretario di un questore e iniziò a scrivere poesie. La sua carriera poetica decollò quando nel 38 a.C. fu presentato a Mecenate da Virgilio e Vario. Grazie al supporto di Mecenate, Orazio poté dedicarsi completamente alla scrittura[1][3][4][6].

Opere e Temi

Le sue opere più significative includono le Satire, gli Epodi e le Odi.

Le Satire riflettono una critica sociale e morale della sua epoca, mentre le Odi esprimono temi di bellezza, amore e natura, con celebri espressioni come “Carpe Diem” e “Hic et nunc” che invitano a vivere il presente[2][3][4].

Orazio è noto per il suo concetto di aurea mediocritas, che promuove un equilibrio tra gli estremi della vita.

Ultimi Anni e Eredità

Orazio ricevette da Mecenate un piccolo possedimento in Sabina nel 33 a.C., dove trascorse gran parte della sua vita in tranquillità, lontano dalla frenesia di Roma. Morì nel 8 a.C., lasciando un’eredità duratura nella letteratura latina e influenzando generazioni di poeti successivi con il suo stile lirico e i suoi temi universali[1][3][4][6].

La figura di Orazio è quindi emblematica non solo della letteratura romana, ma anche della cultura dell’epoca augustea, rappresentando un ponte tra la tradizione greca e quella latina.

Citations:
[1] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-biografia-opere.html
[2] https://knowunity.it/knows/latino-orazio-6e46154a-ad79-4b6c-9e03-2858c00baf66
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Quinto_Orazio_Flacco
[4] https://sapere.virgilio.it/scuola/superiori/letteratura-storia-filosofia/letteratura-romana/orazio-vita-e-opere-del-poeta-romano
[5] https://www.skuola.net/letteratura-latina-eta-augustea/orazio-vita-opere.html
[6] https://www.sololibri.net/orazio-vita-opere-pensiero.html
[7] https://www.sapere.it/sapere/strumenti/studiafacile/letteratura-latina/augusto/orazio/La-vita.html
[8] https://www.treccani.it/enciclopedia/quinto-orazio-flacco_(Enciclopedia-dei-ragazzi)/