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Ma l’anima cos’è? , Centro Culturale Candiani 27 maggio 2011, da Scuola di filosofia per adulti

Ma l’anima cos’è?

                                     Centro Culturale Candiani

                                      27 maggio 2011 ore 15,30

Che la filosofia si prefiguri come una terapia dell’anima è stato acquisito ormai in questi due anni di scuola di filosofia al Candiani. Epperò, riflettendo sull’anima, la filosofia non può affermare con certezza di conoscere la cosa di cui va discorrendo e alla quale affida il compito di rendere più sereno il cammino della vita. Che cos’è l’anima? E se essa è qualcosa, qual è la sua natura: corporale o spirituale? Sopravvive al corpo o muore con esso? E ancora: se l’anima è funzione vitale del corpo con il quale è unita, come si dà questa unione? Il possesso dell’anima è prerogativa solo degli uomini o anche degli altri animali?

Ecco una serie di domande alle quali la filosofia ha cercato nel corso della sua lunga storia di dare risposte, più o meno plausibili e più o meno contraddittorie. Se per la teologia l’esistenza dell’anima e la sua natura spirituale sono indiscutibili, basta affrontare la questione da altri punti di vista perché insorgano perplessità, dubbi e difficoltà teoretiche non da poco. Attualmente nella ricerca filosofica il termine “anima”, che rinvia a una dimensione religiosa e appare arcaico, è stato sostituito con quello di “mente”: ma il problema, a partire dalla distinzione cartesiana tra “sostanza pensante” e “sostanza estesa”, è ancora quello del rapporto mente-corpo. Le neuroscienze indagano sui meccanismi di funzionamento del cervello e forse una cosa come una “mente” la incontrano. Le esperienze cognitive degli animali non possono certo escludere, come pretendeva Cartesio, che essi non possiedano qualcosa che assomiglia a una mente.

Questi sono alcuni dei temi che verranno affrontati nel convegno, che si prefigura, per la qualità dei relatori e per la varietà degli argomenti, molto ricco e intenso.

Maria Giacometti

    Di seguito la registrazione delle relazioni in formato mp3 (per scaricare il files cliccare con il tasto destro sul titolo)         

 Presentazione                                                                    Maria Giacometti, Liceo Foscarini Venezia

Viaggi dell’Anima in alcune mitografie gnostiche               Giuseppe Goisis, Università Ca’ Foscari Venezia

Dixi et salvavi animam meam                                             Augusto Illuminati, Università di Urbino

Il corpo dell’anima. ovvero: come non essere 
materialisti senza diventare spiritualisti  
                        
Luigi Perissinotto, Università Ca’ Foscari Venezia

Discussione prima parte                                                     Maria Giacometti

Cosa ci dicono sulla mente le neuroscienze?                     Carlo Umiltà, Università di Padova

Mente e coscienza negli animali: il confine superabile       Gabriele Bono, Università di Padova

Individui e anime nell’epoca para-antropica                        Luigi Vero Tarca, Università Ca’ Foscari Venezia

Discussione seconda parte                                                 Davide Spanio, Università Ca’ Foscari Venezia

 

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  L’avventura della ragione 2

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   L’avventura della ragione 1

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Il testo della lettera del Papa ad Eugenio Scalfari (le sottolineature in rosso sono mie, PF)

regiatissimo Dottor Scalfari,

è con viva cordialità che, sia pure solo a grandi linee, vorrei cercare con questa mia di rispondere alla lettera che, dalle pagine di Repubblica, mi ha voluto indirizzare il 7 luglio con una serie di sue personali riflessioni, che poi ha arricchito sulle pagine dello stesso quotidiano il 7 agosto.

La ringrazio, innanzi tutto, per l’attenzione con cui ha voluto leggere l’EnciclicaLumen fidei. Essa, infatti, nell’intenzione del mio amato Predecessore, Benedetto XVI, che l’ha concepita e in larga misura redatta, e dal quale, con gratitudine, l’ho ereditata, è diretta non solo a confermare nella fede in Gesù Cristocoloro che in essa già si riconoscono, ma anche a suscitare un dialogo sincero e rigoroso con chi, come Lei, si definisce «un non credente da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazaret».

Mi pare dunque sia senz’altro positivo, non solo per noi singolarmente ma anche per la società in cui viviamo, soffermarci a dialogare su di una realtà così importante come la fede, che si richiama alla predicazione e alla figura di Gesù.

Penso vi siano, in particolare, due circostanze che rendono oggi doveroso e prezioso questo dialogo. Esso, del resto, costituisce, come è noto, uno degli obiettivi principali del Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII, e del ministero dei Papi che, ciascuno con la sua sensibilità e il suo apporto, da allora sino ad oggi hanno camminato nel solco tracciato dal Concilio.

La prima circostanza — come si richiama nelle pagine iniziali dell’Enciclica — deriva dal fatto che, lungo i secoli della modernità, si è assistito a un paradosso: la fede cristiana, la cui novità e incidenza sulla vita dell’uomo sin dall’inizio sono state espresse proprio attraverso il simbolo della luce, è stata spesso bollata come il buio della superstizione che si oppone alla luce della ragione. Così tra la Chiesa e la cultura d’ispirazione cristiana, da una parte, e la cultura moderna d’impronta illuminista, dall’altra, si è giunti all’incomunicabilità.

È venuto ormai il tempo, e il Vaticano II ne ha inaugurato appunto la stagione, di un dialogo aperto e senza preconcetti che riapra le porte per un serio e fecondo incontro.

La seconda circostanza, per chi cerca di essere fedele al dono di seguire Gesù nella luce della fede, deriva dal fatto che questo dialogo non è un accessorio secondario dell’esistenza del credente: ne è invece un’espressione intima e indispensabile. Mi permetta di citarLe in proposito un’affermazione a mio avviso molto importante dell’Enciclica: poiché la verità testimoniata dalla fede è quella dell’amore — vi si sottolinea — «risulta chiaro che la fede non è intransigente, ma cresce nella convivenza che rispetta l’altro. Il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti» (n. 34). È questo lo spirito che anima le parole che le scrivo.

La fede, per me, è nata dall’incontro con Gesù. Un incontro personale, che ha toccato il mio cuore e ha dato un indirizzo e un senso nuovo alla mia esistenza. Ma al tempo stesso un incontro che è stato reso possibile dalla comunità di fede in cui ho vissuto e grazie a cui ho trovato l’accesso all’intelligenza della Sacra Scrittura, alla vita nuova che come acqua zampillante scaturisce da Gesù attraverso i Sacramenti, alla fraternità con tutti e al servizio dei poveri, immagine vera del Signore.

Senza la Chiesa — mi creda — non avrei potuto incontrare Gesù, pur nella consapevolezza che quell’immenso dono che è la fede è custodito nei fragili vasi d’argilla della nostra umanità. Ora, è appunto a partire di qui, da questa personale esperienza di fede vissuta nella Chiesa, che mi trovo a mio agio nell’ascoltare le sue domande e nel cercare, insieme con Lei, le strade lungo le quali possiamo, forse, cominciare a fare un tratto di cammino insieme.

Mi perdoni se non seguo passo passo le argomentazioni da Lei proposte nell’editoriale del 7 luglio. Mi sembra più fruttuoso — o se non altro mi è più congeniale — andare in certo modo al cuore delle sue considerazioni. Non entro neppure nella modalità espositiva seguita dall’Enciclica, in cui Lei ravvisa la mancanza di una sezione dedicata specificamente all’esperienza storica di Gesù di Nazaret.

Osservo soltanto, per cominciare, che un’analisi del genere non è secondaria. Si tratta infatti, seguendo del resto la logica che guida lo snodarsi dell’Enciclica, di fermare l’attenzione sul significato di ciò che Gesù ha detto e ha fatto e così, in definitiva, su ciò che Gesù è stato ed è per noi. Le Lettere di Paolo e il Vangelo di Giovanni, a cui si fa particolare riferimento nell’Enciclica, sono costruiti, infatti, sul solido fondamento del ministero messianico di Gesù di Nazaret giunto al suo culmine risolutivo nella pasqua di morte e risurrezione.

Dunque, occorre confrontarsi con Gesù, direi, nella concretezza e ruvidezza della sua vicenda, così come ci è narrata soprattutto dal più antico dei Vangeli, quello di Marco. Si costata allora che lo “scandalo” che la parola e la prassi di Gesù provocano attorno a lui derivano dalla sua straordinaria “autorità”: una parola, questa, attestata fin dal Vangelo di Marco, ma che non è facile rendere bene in italiano. La parola greca è exousìa, che alla lettera rimanda a ciò che “proviene dall’essere” che si è. Non si tratta di qualcosa di esteriore o di forzato, dunque, ma di qualcosa che emana da dentro e che si impone da sé. Gesù in effetti colpisce, spiazza, innova a partire — egli stesso lo dice — dal suo rapporto con Dio, chiamato familiarmente Abbà, il quale gli consegna questa “autorità” perché egli la spenda a favore degli uomini.

Così Gesù predica «come uno che ha autorità», guarisce, chiama i discepoli a seguirlo, perdona… cose tutte che, nell’Antico Testamento, sono di Dio e soltanto di Dio. La domanda che più volte ritorna nel Vangelo di Marco: «Chi è costui che…?», e che riguarda l’identità di Gesù, nasce dalla costatazione di una autorità diversa da quella del mondo, un’autorità che non è finalizzata ad esercitare un potere sugli altri, ma a servirli, a dare loro libertà e pienezza di vita. E questo sino al punto di mettere in gioco la propria stessa vita, sino a sperimentare l’incomprensione, il tradimento, il rifiuto, sino a essere condannato a morte, sino a piombare nello stato di abbandono sulla croce.

Ma Gesù resta fedele a Dio, sino alla fine.

Ed è proprio allora — come esclama il centurione romano ai piedi della croce, nel Vangelo di Marco — che Gesù si mostra, paradossalmente, come il Figlio di Dio! Figlio di un Dio che è amore e che vuole, con tutto se stesso, che l’uomo, ogni uomo, si scopra e viva anch’egli come suo vero figlio. Questo, per la fede cristiana, è certificato dal fatto che Gesù è risorto: non per riportare il trionfo su chi l’ha rifiutato, ma per attestare che l’amore di Dio è più forte della morte, il perdono di Dio è più forte di ogni peccato, e che vale la pena spendere la propria vita, sino in fondo, per testimoniare questo immenso dono.

La fede cristiana crede questo: che Gesù è il Figlio di Dio venuto a dare la sua vita per aprire a tutti la via dell’amore. Ha perciò ragione, egregio Dott. Scalfari, quando vede nell’incarnazione del Figlio di Dio il cardine della fede cristiana. Già Tertulliano scriveva caro cardo salutis, “la carne (di Cristo) è il cardine della salvezza”. Perché l’incarnazione, cioè il fatto che il Figlio di Dio sia venuto nella nostra carne e abbia condiviso gioie e dolori, vittorie e sconfitte della nostra esistenza, sino al grido della croce, vivendo ogni cosa nell’amore e nella fedeltà all’Abbà, testimonia l’incredibile amore che Dio ha per ogni uomo, il valore inestimabile che gli riconosce.

Ognuno di noi, per questo, è chiamato a far suo lo sguardo e la scelta di amore di Gesù, a entrare nel suo modo di essere, di pensare e di agire. Questa è la fede, con tutte le espressioni che sono descritte puntualmente nell’Enciclica.

Sempre nell’editoriale del 7 luglio, Lei mi chiede inoltre come capire l’originalità della fede cristiana in quanto essa fa perno appunto sull’incarnazione del Figlio di Dio, rispetto ad altre fedi che gravitano invece attorno alla trascendenza assoluta di Dio.

L’originalità, direi, sta proprio nel fatto che la fede ci fa partecipare, in Gesù, al rapporto che Egli ha con Dio che è Abbà e, in questa luce, al rapporto che Egli ha con tutti gli altri uomini, compresi i nemici, nel segno dell’amore. In altri termini, la figliolanza di Gesù, come ce la presenta la fede cristiana, non è rivelata per marcare una separazione insormontabile tra Gesù e tutti gli altri: ma per dirci che, in Lui, tutti siamo chiamati a essere figli dell’unico Padre e fratelli tra di noi.

La singolarità di Gesù è per la comunicazione, non per l’esclusione. Certo, da ciò consegue anche — e non è una piccola cosa — quella distinzione tra la sfera religiosa e la sfera politica che è sancita nel «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare», affermata con nettezza da Gesù e su cui, faticosamente, si è costruita la storia dell’Occidente. La Chiesa, infatti, è chiamata a seminare il lievito e il sale del Vangelo, e cioè l’amore e la misericordia di Dio che raggiungono tutti gli uomini, additando la meta ultraterrena e definitiva del nostro destino, mentre alla società civile e politica tocca il compito arduo di articolare e incarnare nella giustizia e nella solidarietà, nel diritto e nella pace, una vita sempre più umana.

Per chi vive la fede cristiana, ciò non significa fuga dal mondo o ricerca di qualsivoglia egemonia, ma servizio all’uomo, a tutto l’uomo e a tutti gli uomini, a partire dalle periferie della storia e tenendo desto il senso della speranza che spinge a operare il bene nonostante tutto e guardando sempre al di là.

Lei mi chiede anche, a conclusione del suo primo articolo, che cosa dire ai fratelli ebrei circa la promessa fatta loro da Dio: è essa del tutto andata a vuoto? È questo — mi creda — un interrogativo che ci interpella radicalmente, come cristiani, perché, con l’aiuto di Dio, soprattutto a partire dal Concilio Vaticano II, abbiamo riscoperto che il popolo ebreo è tuttora, per noi, la radice santa da cui è germinato Gesù. Anch’io, nell’amicizia che ho coltivato lungo tutti questi anni con i fratelli ebrei, in Argentina, molte volte nella preghiera ho interrogato Dio, in modo particolare quando la mente andava al ricordo della terribile esperienza della Shoah. Quel che Le posso dire, con l’apostolo Paolo, è che mai è venuta meno la fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa, ma anche come umanità. Essi poi, proprio perseverando nella fede nel Dio dell’alleanza, richiamano tutti, anche noi cristiani, al fatto che siamo sempre in attesa, come dei pellegrini, del ritorno del Signore e che dunque sempre dobbiamo essere aperti verso di Lui e mai arroccarci in ciò che abbiamo già raggiunto.

Vengo così alle tre domande che mi pone nell’articolo del 7 agosto. Mi pare che, nelle prime due, ciò che Le sta a cuore è capire l’atteggiamento della Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù. Innanzi tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si gioca la bontà o la malvagità del nostro agire.

In secondo luogo, mi chiede se il pensiero secondo il quale non esiste alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma solo una serie di verità relative e soggettive, sia un errore o un peccato. Per cominciare, io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità “assoluta”, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé: dalla sua storia e cultura, dalla situazione in cui vive, ecc. Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro. Ma significa che essa si dà a noi sempre e solo come un cammino e una vita. Non ha detto forse Gesù stesso: «Io sono la via, la verità, la vita»? In altri termini, la verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa.

Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, per uscire dalle strettoie di una contrapposizione… assoluta, reimpostare in profondità la questione. Penso che questo sia oggi assolutamente necessario per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo che auspicavo all’inizio di questo mio dire. Nell’ultima domanda mi chiede se, con la scomparsa dell’uomo sulla terra, scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio. Certo, la grandezza dell’uomo sta nel poter pensare Dio. E cioè nel poter vivere un rapporto consapevole e responsabile con Lui. Ma il rapporto è tra due realtà. Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza, ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure altissima, frutto del pensiero dell’uomo. Dio è realtà con la “R” maiuscola. Gesù ce lo rivela — e vive il rapporto con Lui — come un Padre di bontà e misericordia infinita. Dio non dipende, dunque, dal nostro pensiero. Del resto, anche quando venisse a finire la vita dell’uomo sulla terra — e per la fede cristiana, in ogni caso, questo mondo così come lo conosciamo è destinato a venir meno —, l’uomo non terminerà di esistere e, in un modo che non sappiamo, anche l’universo creato con lui. La Scrittura parla di «cieli nuovi e terra nuova» e afferma che, alla fine, nel dove e nel quando che è al di là di noi, ma verso il quale, nella fede, tendiamo con desiderio e attesa, Dio sarà «tutto in tutti».

Egregio Dott. Scalfari, concludo così queste mie riflessioni, suscitate da quanto ha voluto comunicarmi e chiedermi. Le accolga come la risposta tentativa e provvisoria, ma sincera e fiduciosa, all’invito che vi ho scorto di fare un tratto di strada insieme. La Chiesa, mi creda, nonostante tutte le lentezze, le infedeltà, gli errori e i peccati che può aver commesso e può ancora commettere in coloro che la compongono, non ha altro senso e fine se non quello di vivere e testimoniare Gesù: Lui che è stato mandato dall’Abbà «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Luca, 4, 18-19).

Con fraterna vicinanza

Francesco

La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono, Lettera agli Ebrei XI/1

La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono

Nuovo testamento: Lettera agli Ebrei XI/1

Fede è sustanza di cose sperate e argomento de le non parventi, Dante Alighieri

« Fede è sustanza di cose sperate
e argomento de le non parventi,
e questa pare a me sua quiditate »

Dante Alighieri, Divina commedia: Paradiso XXIV, 64

Un evidente riferimento tomista alla Lettera agli Ebrei (XI, 1):

Est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium

Gerardo Monizza In principio era il kaos Creazione Innovazione Conoscenza, NodoLibri 2013

In principio era il kaos
Gerardo Monizza
In principio era il kaos
Creazione Innovazione Conoscenza “Il racconto è stato scritto seguendo la traccia dei primi tre capitoli della Bibbia (Genesi 1; 2; 3) molto liberamente interpretati e unendo diverse traduzioni. Il lettore attento si sarà accorto che il finale – soprattutto – è molto differente dalla Vulgata e dunque mi assumo tutta la responsabilità d’aver mutato il presunto desiderio del Grande Architetto Giardiniere e la narrazione fattane – in modo non lineare – dagli Scrittori. Del resto, nei Testi si parla di “un indirizzo obbligato” mentre in questo racconto si narra di creatività, innovazione e conoscenza. Non poteva che finire così”

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Como, 2013
Edizione: NodoLibri
Pp. 48, Illustrazioni: 9, F.to cm. 16×11
Confezione: Brossura fresata
ISBN: 978-88-7185-231-7

Euro: 5.00

Disponibilità libro: In Uscita
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LIBRI DI QUESTO AUTORE
InForme (Lux Bradanini, Giorgio De Giorgi, Gerardo Monizza)
Colpi di remo (Gerardo Monizza)
Di grano antico (Gerardo Monizza)
Madonna de la sanitate (Saveria Masa, Gerardo Monizza, Battista Rinaldi)
Como e la sua storia I (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Como e la sua storia II (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Como e la sua storia III (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Como e la sua storia IV (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Como e la sua storia (2a Ed) (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Grytzko Mascioni. Scrittori a confronto (Gerardo Monizza)
Guida di Teglio (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
InFormeArmoniche (Lux Bradanini, Carlotta Ferrari Valcepina, Gerardo Monizza, Paolo Valcepina)
Enrico Romanò (Gerardo Monizza)
Pace scaduta (Gerardo Monizza)
Doppia spirale (Diego Coletti, Gerardo Monizza)
Como e il viaggio dei Re Magi (Fabio Cani, Gerardo Monizza)
Nove giorni alla Notte (Gerardo Monizza)
In principio era il kaos (Gerardo Monizza)

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Creazione Innovazione Conoscenza

da    NodoLibri

FAMILISMO AMORALE: Edward Banfield

FAMILISMO AMORALE:

massimizzate i vantaggi materiali a breve termine del nucleo familiare; date per scontato che tutti faranno come voi

E. Banfield citato in R. Putnam, LA TRADIZIONE CIVICA NELLE REGIONI ITALIANE, Mondadori, 1993

Umberto Galimberti sul SACRO

audio di Umberto Galimberti sul SACRO:

“Non sopporto i fissati con dio”: Rebecca/Nicole Kidman in RABBIT HOLE di John Cameron Mitchell | da Il Cinema Racconta …

la FEDE e le FEDI spiegate da Emanuele Severino: analisi del tema “argumentum non apparentium”

la fede è

“argumentum non apparentium”

è cioè l’argomento che la volontà umana dà alle cose che non sono di per se stesse evidenti

argomentum

argomentum

argomentum2

argomentum3

argomentum 4

da EMANUELE SEVERINO, Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli Bur

I Comandamenti, undici riflessioni a due voci, Il Mulino

Bollino CACCIARI M., CODA P.
Io sono il Signore Dio tuo
Voci
Bollino NATOLI S., SEQUERI P.
Non ti farai idolo né immagine
Voci
Bollino GALLI C., STEFANI P.
Non nominare il nome di Dio invano
Voci
Bollino DONÀ M., LEVI DELLA TORRE S.
Santificare la Festa
Voci
Bollino LARAS G., SARACENO C.
Onora il padre e la madre
Voci
Bollino CAVARERO A., SCOLA A.
Non uccidere
Voci
Bollino CANTARELLA E., RICCA P.
Non commettere adulterio
Voci
Bollino PRODI P., ROSSI G.
Non rubare
Voci
Bollino PADOVANI T., VITIELLO V.
Non dire falsa testimonianza
Voci
Bollino RAVASI G., TAGLIAPIETRA A.
Non desiderare la donna e la roba d’altri
Voci
Bollino BIANCHI E., CACCIARI M.
Ama il prossimo tuo
Voci

Responsabilità

il fatto, la condizione e la situazione di essere responsabile

derivato dal latino respondere, “rispondere”

Responsabile: che risponde delle proprie azioni e dei propri comportamenti, ne prevede i rischi e gli effetti, rendendone ragione e subendone le conseguenze

La radice ancora più lontana è il sanscrito in cui l’aggettivo ra significa “che acquisisce”, “che possiede”, “che offre”

res112

dal Dizionario etimologico comparato  delle lingue classiche indoeuropee (Sanscrito, Greco, Latino), Palombi editore 2010

Elena Pulcini, Metamorfosi della paura, da Thaumazein 2, 2014

vai a:

 

Elena Pulcini, Metamorfosi della paura, da Thaumazein 2, 2014

“Creatio est productio rei ex nihilo sui et subjecti”, Sant’Agostino

Nel mito di Adamo l’uomo vuole “uccidere dio” per impossessarsene.

Ma è altrettanto vero che, PRIMA ANCORA,  dio è il primo omicida, perchè pretende di creare l’uomo dal niente.

Pretendendo di crearlo afferma il principio che l’uomo era il nulla assoluto.

Creatio est productio rei ex nihilo sui et subjecti ” dice Sant’Agostino

Traduco alla buona: “la creazione è produzione della cosa da un precedente niente sia di se stesso che di ogni oggetto“.

La parola “creazione” vuole, dunque, imporre la totale inesistenza dell’ “essere” (e quindi del mondo) prima della sua produzione da parte di dio.

La nozione di creazione pone l’accento sul NULLA del punto di partenza (“ex nihilo“) dell’azione creatrice.

Ecco perchè Emanuele Severino indica che tutte le religioni partecipano delle visioni nichiliste.

Ben prima di Nietzsche

CULTURA

in Vincenzo Matera ANTROPOLOGIA IN SETTE PAROLE CHIAVE, Sellerio, 2006

pagg. 44-66

ANTROPOLOGIA

in Vincenzo Matera ANTROPOLOGIA IN SETTE PAROLE CHIAVE, Sellerio, 2006

pagg. 13-20

FEDE E VERITA’, Video/Lezione di Emanuele Severino, da Filosofia.rai.it

Emanuele Severino, professore di filosofia teoretica presso l’Università di Venezia, in studio, risponde alle domande degli alunni del liceo Plauto di Roma sul tema “La fede e la verità”:

GLI ABITATORI DEL TEMPO, lezione del filosofo Emanuele Severino, al Teatro Sociale di Bergamo Alta, incontro organizzato e curato dalla associazione Noesis, 3 aprile 2012. AUDIO DELLA LEZIONE MAGISTRALE

martedì sera, 3 aprile 2012,  ho avuto il grande privilegio di essere a Bergamo, ad ascoltare la sapienza filosofica che si esprime attraverso EMANUELE SEVERINO.

Ci sono filosofi che rendono chiaro il sentiero della storia che abbiamo imparato a conoscere nella nostra evoluzione culturale e personale.

Emanuele Severino fa un’altra cosa: spalanca la vista su una strada completamente nuova e diversa

Paolo Ferrario

————————————————————————–

3 aprile 2012, ore 20.00, al Teatro Sociale, Città Alta

Emanuele Severino

GLI ABITATORI DEL TEMPO

Le nostre vite sono le più lunghe della storia dell’umanità e, tuttavia, nella nostra società il tempo non basta mai. Il filosofo Emanuele Severino ci porta in un viaggio non nel tempo, ma nel valore del tempo per gli uomini.

In collaborazione con il XIX Corso di Filosofia, promosso dall’Associazione Culturale Noesis.

VERBA MANENT vuole essere un appuntamento fisso di alto livello culturale che non disdegna, nel suo intento di divulgazione la partecipazione di personaggi noti anche ad un pubblico più popolare. Il programma è suddiviso in slots e verrà aggiornato durante il corso dell’anno

  • Audio della lezione magistrale di Emanuele Severino:

PS l’audio è disturbato: ho dovuto tenerlo in una tasca e non avevo una buona posizione nel teatro.
Quella che segue è una prima bozza della schedatura ricavata dalla trascrizione della lezione.

il tema è: ABITATORI DEL TEMPO

sembra che ogni riflessione che non si riferisca ai problemi concreti in cui ci troviamo infastidisca.

Perchè viviamo dentro la crisi economica, la crisi demografica,  la crisi ecologica, la crisi nucleare

Sembra che di fronte alla pericolosità e incertezza del mondo sia un lusso parlare di Tempo

D’altra parte l’incertezza e il pericolo del mondo bisogna guardarli in faccia, perchè non capiti che, non sapendo dove ci si trova, succeda come a quel tizio che,  stando sulla barca  e non sapendo dove si trova, scende nell’acqua per fare quattro passi ed annega.

E’ essenziale sapere DOVE ci troviamo

Soprattutto è essenziale capire il SENSO dell’incertezza e del pericolo in cui l’uomo in quanto tale si trova.

Perchè il tema gli ABITATORI DEL TEMPO?

Si abita un luogo quando si è protetti da quel luogo e, insieme, lo si protegge e se ne ha cura.

Abitare un luogo, una casa è  esserne protetti e, insieme, averne cura.

E allora cosa vuol dire aver cura del tempo e essere protetti dal tempo?

Perché diciamo di “abitare il tempo”?

la risposta nella sua formulazione più semplice è che:  Abitiamo il tempo per poter vivere.

Andiamo con la mente ai primi passi dell’uomo. Andiamo all’uomo dal punto di vista ontogenetico

Portiamoci agli inizi dell’esser uomo.

L’uomo arcaico ( e dunque ognuno di noi da quando gli è dato essere uomo) vive in una situazione in cui deve smuovere l’ambiente in cui vive.

Di questo possiamo fare esperienza anche noi. Se ci troviamo in situazioni in cui non possiamo smuovere nè la nostra volontà, nè il contesto da cui siamo circondati non riusciamo a vivere.

Vivere significa smuovere ciò che dapprima si crede inflessibile.

L’uomo arcaico dapprima si trova in un ambiente in cui c’è una barriera davanti a lui e dentro di lui che lo irrigidisce nella sua immobilità. E se non vuol morire deve smuovere e flettere l’immobilità da cui è circondato

Vivere è: flettere il proprio ambiente

Dunque c’è una prima forma di terrore per la barriera

Si vive solo se si flettono le barriere.

Questa opera di frazionamento non è soltanto una cosa che possiamo pensare in astratto

Per esempio il pensiero mitico raccoglie un’ampia serie di racconti nei queli il mondo esiste solo se un dio è smembrato

Solo se un dio è smembrato, se c’è questo sacrificio del dio può cominciare ad esistere il mondo.

Lo smembramento del dio corrisponde a ciò che ho chiamato “flessione dell’inflessibile”

Si trovano queste tracce nei miti del Pacifico (la dea Inuele- ?-), del Medio Oriente (kiamat) , dell’Egitto (Osiride), della Grecia ( Dioniso), dell’India (Purusha, Prajapati). Tutti dei che con il loro smembramento rendono possibile la vita dell’uomo

Ma nella nostra cultura c’è l’esempio più significativo: il sacrificio di Cristo. E’ vero che quando Cristo muore il mondo c’è già, però il mondo con quel sacrificio rinasce. e viene rifondato.

La vicenda cristologica riconduce anche al momento originario vetero testamentario: quello in cui il serpente tenta Adamo

“eritis sicut dii”, sarete come dei, se mangerete il frutto proibito

Ma cosa vuol dire essere come dio? vuoldire occupare il suo posto.

Significa detronizzarlo, comunque spartire con lui un regno in cui lui prima era il padrone, il controllore.

Allora il “mangiare il frutto” ha un significato profondo. Se mangiando  il frutto che è stato proibito si è come dio e cioè si uccide dio, allora anche qui abbiamo l’esempio di un tentativo di smembramento che va per il momento a finir male, perchè dio lo punisce.

Ma poi il tentativo è ripreso dall’intervento di  Cristo il quale, per iniziativa divina, rende l’uomo dio.

Tutto questo per richiamare che c’è  un terrore iniziale per l’immobilità cui costringe la barriera che circonda l’uomo all’inizio della nostra storia. E per richiamare che c’è un terrore che scaturisce dalle conseguenze  di questa decisione che ci consente di vivere e di  sopravvivere.

Di nuovo: cosa c’entra l'”abitare il tempo”? Perchè abitare il tempo?

Abitiamo il tempo per vivere. Aristotele dice che il tempo è “il numero del movimento secondo il prima e il poi” (Aristotele, Fisica, D,10 e G,11). Il tempo è  impensabile senza il movimento, senza il divenire che è appunto quel sommovimento, quello smuovere per cui l’uomo comincia a vivere vive solo se flette l’inflessibile.

Abitatori del tempo perchè se non si abita il tempo, pensano gli umani, si muore di fronte alle barriere.

E questo è il primo terrore: il terrore di morire perchè non si è in grado di smuovere il luogo in cui ci si trova.

Vedere l’inflessibile significa vedere la forma originaria del dio.

Proviamo a pensare se ci trovassimo di fronte a un cristallo non scalfibile: non sarebbe possibile alcuna azione.

Allora noi possiamo agire solo se lo frantumiamo, lo smembriamo.

Lo smembramento è ciò che nella definizione aristotelica si chiama DIVENIRE

Il divenire è la forma astratta dell’indicare tutte le situazioni estremamente concrete.

Ma c’è un seconda forma di angoscia da cui è preso l’uomo quando smembra il dio.

La prima è l’angoscia per non poter respirare.

La seconda è che, operando lo smembramento,  si produce proprio quell’incertezza, qualla pericolosità che scaturisce dal divenire delle cose. Nascita, morte, insondabilità della nascita e della morte.

L’uomo per vivere smembra il dio, ma ottiene un ulteriore pericolo che è dato da ciò che egli con lo smembramento ha evocato:  il fluire delle cose, fino a quello che Nietsche chiama il Caos.

C’è una parola interessante con la quale il pensiero indica questa seconda angoscia, l’angoscia per l’imprevedibilità del fluire delle cose.

THAUMA

Ha una gamma di significati straordinari.

Tradotta male con “meraviglia”.

Il significato vero è:

Angosciato terrore del divenire del mondo

Volevamo arrivare qui.

C’è un primo terrore perchè non si riesce a respirare. E’ il terrore provocato dall’inflessibile.

Ma poi c’è il secondo terrore: l’incertezza per la pericolosità del mondo.

E si procede dal terrorizzante e si cerca UN RIMEDIO a ciò che terrorizza.

Il mito: mithos vuol dire “parola”,  “racconto” .

Il modo in cui i greci usano la parola mithos indica il racconto su come stanno le cose.

C’è la capacità del mito di indicare che di fronte al pericolo suscitato dallo smembramento si va alla ricerca di un rimedio che è indicato  dalla parola sacrificio. Che non è il sacrificio del dio, ma è il sacrificio che l’uomo fa in quanto si sente colpevole dello smembramento, della uccisione del padre.

Il tema centrale della angoscia per la vendetta dell’antenato ucciso.

Il concetto che si fa avanti con il sacrificio ha a che fare con la necessità che l’uomo sente di ricostituire le fonti iniziali di potenza che egli ha dovuto smembrare per vivere.

Smembramento

Vita

Colpa

Sentirsi in debito

Rafforzamento della fonte che si è dovuto spezzare per poter vivere.

Stiamo parlando dei modi in cui l’uomo, per vivere, abita il tempo.

Quando si parla di RIMEDIO si intende ciò che consente di sopportare la seconda forma di angoscia, cioè Thauma.

I rimedi nella storia dell’uomo sono raccoglibil in alcuni pochi tratti:

– il racconto mitico

– il Logos, la Ragione

– la Tecnica

La vita è pericolosa, è’ insopportabile, è tragica per il suo fluire, per il suo divenire, per la sua temporalità, per la imprevedibilità del divenire.

Il rimedio, cioè ciò che consente di sopravvivere al Thauma angoscia del divenire, a sopportare l’imprevedibile

Il cristiano autentico è, dopotutto, in pace con se stesso e con le cose: “siamo nelle mani di dio”. Essere nelle mani di dio significa, sentirsi nelle mani di dio, significa avere dinanzi già tutto raccolto , tutto il futuro. Perchè tutto il futuro fa parte del materiale che è nelle mani di dio.

Quindi il dolore, l’angoscia, il pericolo del mondo è reso sopportabile da questo sue essere avvolto dal senso in cui l’uomo è riuscito ad ALLEARSI CON LA POTENZA SUPREMA

Smembramento, colpa, sacrificio: il mito aggiunge la categoria della previsione, che rende sopportabile il dolore.

due modi di abitare il tempo

1 pre- ontologico: non conoscenza delle parole essere e nulla

Il divenire e il tempo conducono nel nulla

2 ontologico

tre forme di rimedio

apparato mitico: vanno e ritornano

ma con il nulla il rimedio comincia ad essere pensato in modo ontologico

si comincia a morire di fronte al nulla

apparato razionale

apparato della scienza e tecnologia

il relativismo è una concezione debole

andare nel sottosuolo

morte di dio: è morto ogni limite

si ripropone il tema dello smembramento di dio

troppo poco il mito

da cui l’alleanza con dio

eschilo

se l’uomo è deicida

il dio è originariamente omicida

giovanni 8/44

la radice dell’omicidio:

fare andare nel nulla

spingere nel nulla da dove non si può tornare

persuasione che le cose siano nulla

dio come satana

dio è il primo tecnico

demiurgo

ergon azione

crazione ex nihilo et subiecti

far uscire dal nulla le cose e la materia

dio pensa la nullità del mondo

pensa la nostra nullità e quella delle cose

poiesis

tecnica la forma più radicale di

se perpetua la scarsità delle merci e si serve della tecnica

… indefinito della potenza

Tecnica deve eliminare la scarsità può farlo finchè non c’è un limite

Il capitale deve aumentare la scarsità

Paradiso della tecnica

Viviamo un periodo intermedio

Quando prevarrà la tecnica

Verso un tempo di benessere

Più cresce la felicità più temiamo di perderla

Ma la tecnica dice che sono un sapere probabilistico e ipotetico

Felicità senza sicurezza

Manca la verità della felicità

Quello sarà il tempo

Le stelle

Un senso diverso

bergamoalta4381

Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva

Simondon si pone la domanda: che cosa è un individuo? Cioè,  cosa distingue una parte dell’essere da tutto il resto? cosa consente qualcosa come l’individuazione, ovvero il fatto di avere un’identità ben distinta? La sua risposta è che un individuo non è un’entità, ma un processo continuo; che un individuo non è fissato mai una volta per tutte, ma che deve divenire, e in un certo senso non smette mai di divenire; e che quindi, dovremmo parlare di individuazioni, piuttosto che di individui come dati una volta per tutte.

Gilbert Simondon, filosofo francese molto caro a Gilles Deleuze, fa giustizia di numerosi luoghi comuni a proposito dell’individuo, muovendosi con agilità tra scienze della natura e scienze umane, biologia e psicologia, teoria dell’informazione e sociologia. A suo giudizio, la singolarità non è un punto di partenza, ma il risultato di un processo complicato, scandito in più fasi e non privo di crisi. Inoltre, Simondon mette in rilievo come in ogni soggetto vivente gli aspetti singolari coesistano con forze anonime, impersonali, «preindividuali». Siamo individui, sì, ma solo in modo parziale e incompleto. Ed ecco la tesi più radicale, quella che ha evidenti conseguenze politiche: secondo il filosofo francese, quando si partecipa a un collettivo, non si attenua la propria individualità; al contrario, la vita di gruppo è l’occasione di una ulteriore, più ampia individuazione. Come dire: si è davvero singolari solo quando si è in molti.

da Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva « Appunti.

Emanuele Severino, RAGIONE, FEDE, VERITA’ (1h 09′) [“Abitatori del tempo” 2008, a cura di R. Lissoni], rintracciato in Filosofia.it

Emanuele Severino
“Ragione, fede, verità”
 (1h 09′)
[“Abitatori del tempo” 2008, a cura di R. Lissoni]

Non tutti hanno il dono del martirio, David Herbert Lawrence

Non tutti hanno il dono del martirio

Davjd Herbert Lawrence

la Chiesa corre il rischio – ma è più di un rischio – di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni “presupposto”».

lei sul «Corriere» replicò al cardinale che aveva proposto di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità»…
«È una considerazione diffusa, nel mondo cattolico. Scola diceva di non condividere la persuasione di Habermas, secondo il quale “una democrazia costituzionale, per giustificarsi, non ha bisogno di un presupposto etico o religioso”. Per Scola invece ne ha bisogno. Né lui né Habermas, però, approfondivano la radice di quella persuasione. Ma proprio questo è il punto da discutere. Così io obiettavo che, impostando il problema del laicismo in quel modo, prendendosela al solito con il “relativismo”, la Chiesa corre il rischio – ma è più di un rischio – di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni “presupposto”».

Scola e la Chiesa non vedono l’autentico pensiero contemporaneo?

«Se è per questo non lo vede neanche il mondo laico, che continua a presentarsi in modo debole, erede com’è di una fortuna che ignora di possedere. Bisogna saper guardare il sottosuolo del pensiero contemporaneo, oltre la superficie. È come quando, nel Simposio di Platone, si dice che Socrate è un sileno: fuori è bruttissimo, è vero, però dentro è Socrate! Il sottosuolo del pensiero contemporaneo – che peraltro non dice affatto l’ultima parola, bisogna andare ben oltre – è una potenza che non viene non dico riconosciuta, ma nemmeno intravista».

Severino: «È stato mio allievo Da laico gli ho dato 30 e lode» – Milano.

Emanuele Severino presenta: IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI. Autobiografia, a CheTempoCheFa, 22 maggio 2011, AUDIO

… ogni istante è impossibile che divenga nulla e vada nel nulla …
… soltanto se qualcosa è eterno può essere ricordato …
… ogni istante è … … la parola “eterno” sta a significare “essere senza diventare nulla” …

… ognuno di noi è un firmamento stellato …. la parola firmamento rimanda alla “fermezza” del firmamento stellato …

da: Emanuele Severino presenta: IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI. Autobiografia, a CheTempoCheFa, 22 maggio 2011 | Politica dei servizi sociali: ricerche in rete.

EMANUELE SEVERINO e GIOVANNI REALE, coordina Armando Torno. Voci di filosofia: DIO, a cura della Fondazione Corriere della Sera, 28 Ottobre 2010

Al Museo Hermann Hesse di Montagnola, nel Canton Ticino: racconto di una giornata « Segni di Paolo del 1948

Carlo Tullio-Altan: Fondamenti della identità nazionale: epos, ethos, logos, genos, topos, oikos

L’identità nazionale di un popolo, oltre ad essere determinata dalle condizioni materiali della sua economia e dall’efficienza e giustizia del sistema di norme di convivenza e di istituzioni, è vissuta anche come un valore simbolico di aggregazione: come Patria.
Il sentimento della identità nazionale, la Patria, di un popolo si fonda sopra la memoria storica del suo passato inteso come epos, sull’insieme delle norme di convivenza e delle istituzioni vissute come valori che diventino parte integrante della coscienza dei cittadini, il suo ethos, sulla lingua parlata in comune, il suo logos, sui vincoli della parentela e della stirpe, il suo genos, sulla terra natale, la madre-patria, il suo topos o il suo oikos, cui un popolo si sente affettivamente legato.
Se noi teniamo presenti questi elementi per quanto riguarda il nostro paese, possiamo rilevare che non è possibile tener conto dei valori del nostro passato, se non in misura assai relativa, perché troppo lontani nel tempo dal nostro presente, ed anche perché noi dimostriamo, con i nostri concreti comportamenti, di provare uno scarso rispetto per il patrimonio artistico di cui siamo immeritatamente gli eredi. Per quanto riguarda l’amore per la nostra lingua comune si osserva che spesso la trascuriamo a favore dei nostri dialetti locali. Per quanto riguarda i rapporti sociali noi privilegiamo diffusamente i legami di famiglia, di parentela, di consorteria, a quelli che dovrebbero legarci alla comunità nazionale, e per finire, noi trascuriamo in modo deplorevole i valori naturali della terra in cui viviamo.
Ma in un punto siamo particolarmente carenti: quello del nostro ethos, e cioè sul terreno dei valori morali e civili della convivenza e della corresponsabilità alle sorti comuni che dovrebbero unirci nella comunità nazionale. Il nostro maggior difetto, come coscienza nazionale democratica sta proprio qui e continua a pesare negativamente sulle sorti del Paese anche dopo la sua unificazione politica….

DA: Carlo Tullio-Altan: Una religione civile per l’Italia d’oggi.

Acculturazione

Remo Cantoni, Antropologia quotidiana, Rizzoli, 1975

11-14

Responsabilità

Leszek Kolakowski, Breviario minimo: piccole lezioni per grandi problemi, Il Mulino
41-45

Dio/Mondo

Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, 2004
p. 160-174

 

Responsabilità/Alterità

Salvatore Natoli, Parole della filosofia o dell’arte di meditare, Feltrinelli, 2004
p. 137-140

 

Dio

Warburton Nigel, Filosofia: i grandi temi, Il Sole 24 Ore, 2007

21-60

 

 

Vito Mancuso, SE LA VITA È SENZA FEDE

A distanza di due anni dal duro attacco contro L’ anima e il suo destino a firma di padre Corrado Marucci, “La Civiltà Cattolica” (quaderno n° 3831) torna a criticare frontalmente il mio pensiero. Lo fa con un articolo più profondo, meno aggressivo e apparentemente meno insidioso del precedente, scritto da padre Giovanni Cucci sul mio ultimo saggio, La vita autentica. Dopo aver presentato finalità e struttura del mio lavoro a cui viene persino riconosciuto che “non mancano osservazioni interessanti e gradevoli”, “La Civiltà Cattolica” scrive che “la conduzione del discorso risulta molto ambigua ed equivoca, per non dire contraddittoria” e giunge a esplicitare la sua critica con questa domanda: “In fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’ autenticità? Le risposte che giungono dal libro non consentono di stabilirlo, poiché si afferma in una pagina quanto viene negato alla pagina successiva”. Sono accuse senza fondamento.

Ma prima di argomentare la mia replica desidero chiarire quello che ritengo il vero obiettivo della rivista dei gesuiti, le cui bozze, com’ è noto, passano al vaglio della Segreteria di Stato vaticana: l’ obiettivo, a mio avviso, consiste nel mostrare ai cattolici che a me non è concesso “presentarsi come un teologo cristiano”. È questo il vero disegno della “Civiltà Cattolica”, e forse di qualcun altro dietro di essa. La questione sollevata è tale da riguardare da vicino ogni uomo pensante: “In fin dei conti, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’ autenticità?”. Padre Cucci, per il quale la risposta è un inequivocabile sì, mi accusa di presentare una risposta “ambigua”, “equivoca”, “contraddittoria”.

Io, al contrario, ritengo di aver espresso il mio pensiero molto chiaramente, oserei dire “papale-papale” se non temessi che qualcuno poi concluda che mi sono montato la testa. Ecco ciò che ho scritto nel mio libro: “Per una vita autentica è necessario credere in Dio? Sono convinto di no“.

Lo ribadisco: un uomo nell’ intimo della sua coscienza può escludere esplicitamente ogni riferimento al divino e al contempo vivere nel modo più autentico, cioè servendo il bene, la giustizia, la ricerca della verità, la bellezza. E viceversa un uomo può professarsi credente, magari rivestirsi di sontuosi paramenti, e tuttavia rappresentare la negazione più drammatica del bene e della giustizia: la storia della Chiesa offre migliaia di esempi al riguardo, non pochi dei quali sono purtroppo ancora attuali ai nostri giorni.

Se qualcuno avesse dei dubbi, provi a pensare da un lato al non credente Primo Levi e dall’ altro a uno dei tanti prelati incriminati per pedofilia, e vedrà che in un istante gli si chiariscono le idee. Il senso del messaggio spirituale di Gesù, del resto, consisteva proprio in questo primato della concretezza etica rispetto alle idee dottrinali proclamate a parole: “Non chi dice ‘ Signore, Signore’ entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre” (Matteo 7,21), prospettiva che Gesù realizzava preferendo ai clericali del suo tempo (scribi, farisei, sacerdoti) altre tipologie più laiche di persone quali pubblicani, prostitute, poveri, pescatori.

Per una vita autentica, caro padre Cucci, la fede in Dio non è necessaria. Poi il mio ragionamento proseguiva così: “Ritengo, però, che non sia possibile una vita pienamente autentica senza credere nel bene e nella giustizia, e che se un uomo crede nel bene e nella giustizia deve poi giustificare a se stesso perché lo fa e provare a pensare quale sia la concezione dell’ essere più ragionevole che giustifica tale suo affidamento esistenziale al bene e alla giustizia”. La vita quotidiana quale ciascuno sperimenta non è tale da mostrare inequivocabilmente il primato del bene e della giustizia, anzi al contrario sono spesso i furbi e gli ingiusti a prevalere. Per praticare il bene e la giustizia e risultare interiormente puliti occorre quindi una certa “fede” in questi valori, senza la quale è quasi inevitabile che la sola verifica sperimentale porti al cinismo, a non credere più a nulla, a sorridere amaramente al solo sentire parlare di etica. Affermo quindi che per una vita autentica, se non è necessaria la fede in Dio,è però necessaria la fede nel bene e nella giustizia quali dimensioni più alte del vivere. Affermo cioè che la pienezza della vita suppone il riconoscimento pratico del primato dell’ etica e che il vero uomo non è il ricco, non è il potente, non è il dotto, non è il pio, ma è il giusto, di quella giustizia che non è fredda legalità ma saggezza del bene. Per essere giusti, però, in un mondo che spesso giusto non è, occorre avere fede nella giustizia (o, che è lo stesso, nell’ armonia dell’ essere). Questo mio ragionamento per “La Civiltà Cattolica” condurrebbe a escludere la possibilità di Dio e di conseguenza a minare il mio statuto di teologo. Le cose però non stanno per nulla così, perché il mio percorso pone semmai le basi per una rinnovata fondazione del discorso teologico, andando a indagare la profondità dell’ essere che il primato dell’ etica (smentito dalla cronaca, ma avvertito dalla coscienza) porta con sé.

È quanto sosteneva già Immanuel Kant nella Critica della ragion pura: “Io avrò fede nell’ esistenza di Dio e in una vita futura, e ho la certezza che nulla potrà mai indebolire questa fede, perché in tal caso verrebbero scalzati quei principi morali cui non posso rinunciare senza apparire spregevole ai miei stessi occhi”. Una coscienza matura non fa il bene perché lo dice il papa, eseguendo quello che dice il papa, all’ insegna della morale eteronoma; la coscienza matura fa il bene autonomamente, lo fa perché sente che è suo dovere farlo, senza temere, quando è il caso, di andare persino contro quello che dice il papa (come quei cattolici che nell’ Ottocento si battevano per la libertà religiosa, condannata aspramente dai papi del tempo). Mi chiedo però di che cosa sia segno questo senso del dovere rispetto al bene che la coscienza avverte dentro di sé, mi chiedo che cosa dica dell’ uomo. E rispondo dicendo che esso è l’ attestazione di una dimensione più profonda dell’ essere, la quale, se risulta così affascinante e normativa per la coscienza retta,è perché ne costituisce l’ origine da cui viene e il fine verso cui tende, ovvero quel “principium universitatis” che Tommaso d’ Aquino in Summa contra gentiles I,1 dice essere il nome filosofico di Dio. “In fin dei conti, per Mancuso, Dio è necessario o no ai fini del discorso sull’ autenticità?”, si chiedeva padre Cucci. Spero che a questo punto il mio pensiero risulti chiaro anche per lui: soggettivamente no (la fede non è necessaria), oggettivamente sì (la giustizia è indispensabile). Questo mio legare Dio all’ oggettività del bene e della giustizia, ben lungi dall’ escluderlo come mi si accusa, riproduce la medesima prospettiva di Gesù: “In quel giorno molti mi diranno: «Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome?». Ma io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’ iniquità»” (Matteo 7,22-23).

È solo la concretezza della giustizia quale forma stabile della nostra più intima energia vitale a condurre in quella dimensione eterna dell’ essere che chiamiamo Dio, mentre non serve a nulla riempirsi la bocca delle più devote professioni di fede se, dentro, si è iniqui (“non vi ho mai conosciuti”). Rimarrebbe da affrontare il discorso altrettanto importante sulla logica alla guida della natura e della storia, se essa sia di tipo personale come vuole padre Cucci, oppure impersonale come sostengo io, e spero di poterlo fare in un prossimo articolo. Per ora concludo dicendo che sarei lieto se “La Civiltà Cattolica” rivedesse il duro e ingiusto giudizio su di me e sul mio piccolo saggio, ma temo che ciò non avverrà. In ogni caso non ho mai aspirato al patentino ufficiale di teologo cattolico-romano, visto che da tempo parlo di una teologia “laica”, cioè abitata dall’ aria pulita della libertà di pensiero, unica condizione, a mio avviso, perché l’ occidente torni a interessarsi della sua religione.

VITO MANCUSO

Repubblica — 26 febbraio 2010

fu chiesto a Jung se credeva in Dio. La sua risposta, "Adesso lo so. Non ho bisogno di credere"

Alla fine degli anni ’70 mi capitò di confidare ad una collega di lavoro (una femminista ed aspirante antropologa) che leggevo con gusto della conoscenza e con significativi riflessi sul corso della mia unica esistenza gli scritti di Carl Gustav Jung.
Mi guardò malamente è disse con disprezzo : ” … un religioso …”
A quell’epoca ero all’avvio del mio processo di analisi (il più fortunoso investimento economico ed esistenziale che ho fatto per significare il corso della vita) e mi sembrava – al contrario della superficiale rappresentazione che ne aveva la collega – che Jung fosse un empirico. Leggendo nelle pieghe della sua magmatica scrittura mi appariva come uno straordinario osservatore dei fatti che metteva sotto osservazione: sia che fossero fatti interni alla psiche o esterni ad essa e rappresentati nei simboli della umanità.
Ne ho oggi conferma illuminante nella nota di un libro bellissimo:

In una famosa intervista della BBC con John Freeman, fu chiesto a Jung se credeva in Dio. La sua risposta, “Adesso lo so. Non ho bisogno di credere“, suscitò molte domande e commenti, Jung proseguì dicendo che non avrebbe mai potuto “credere” alcunchè sulla base dell’autorità e dell’insegnamento della tradizione; la sua era piuttosto una mente scientifica e aveva bisogno di conoscere le cose sulla base di fatti e di prove. Intendeva dire che sapeva di Dio per esperienza personale. Questo genere di “sapere”, tuttavia, è personale e “gnostico”, e non è verificabile o confutabile scientificamente.

in Murray Stein, Trasformazione, compito umano fondamentale, Moretti & Vitali, 2005, nota 1 a pag 119-120

Giovanni Sartori, Una replica ai pensabenisti sull’Islam – Corriere della Sera

… il mio articolo (editoriale del 20 dicembre «La integrazione degli islamici») si limitava a ricordare che gli islamici non si sono mai integrati, nel corso dei secoli (un millennio e passa) in nessuna società non-islamica. Il che era detto per sottolineare la difficoltà del problema. Se poi a Boeri interessa sapere che cosa «ho deciso», allora gli segnalo che in argomento ho scritto molti saggi, più il volume «Pluralismo, Multiculturalismo e Estranei» (Rizzoli 2002), più alcuni capitoletti del libriccino «La Democrazia in Trenta Lezioni » (Mondadori, 2008).

…. ho sempre scritto che le società liberal- pluralistiche non richiedono nessuna assimilazione. Fermo restando che ogni estraneo (straniero) mantiene la sua religione e la sua identità culturale, la sua integrazione richiede soltanto che accetti i valori etico-politici di una Città fondata sulla tolleranza e sulla separazione tra religione e politica. Se l’immigrato rifiuta quei valori, allora non è integrato; e certo non diventa tale perché viene italianizzato, e cioè in virtù di un pezzo di carta ….

io seguo l’interpretazione della civiltà islamica e della sua decadenza di Arnold Toynbee, il grande e insuperato autore di una monumentale storia delle civilizzazioni (vedi Democrazia 2008, pp. 78-80).

nelle scienze sociali lo studioso deve procedere diversamente, deve isolare la variabile a più alto potere esplicativo, che spiega più delle altre. Nel nostro caso la variabile islamica (il suo monoteismo teocratico) risulta essere la più potente. S’intende che questa ipotesi viene poi sottoposta a ricerche che la confermano, smentiscono e comunque misurano. Ma soprattutto si deve intendere che questa variabile «varia», appunto, in intensità, diciamo in grado di riscaldamento. Alla sua intensità massima produce l’uomo- bomba, il martire della fede che si fa esplodere, che si uccide per uccidere (e che nessuna altra cultura ha mai prodotto). Diciamo, a caso, che a questo grado di surriscaldamento, di fanatismo religioso, arrivano uno-due musulmani su un milione. Tanto può bastare per terrorizzare gli infedeli, e al tempo stesso per rinforzare e galvanizzare l’identità fideistica (grazie anche ai nuovi potentissimi strumenti di comunicazione di massa) di centinaia di milioni di musulmani che così ritrovano il proprio orgoglio di antica civi

Ecco perché, allora, l’integrazione dell’islamico nelle società modernizzate diventa più difficile che mai. Fermo restando, come ricordavo nel mio fondo e come ho spiegato nei miei libri, che è sempre stata difficilissima.

l’intero articolo qui:

Giovanni Sartori, Una replica ai pensabenisti sull’Islam – Corriere della Sera

Cultura

Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 37-39

Corpo

Ugo Volli, Parole in gioco. Piccolo inventario delle idee correnti, Editrice Compositori, 2009
p. 31-33

Memoria culturale

Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria, Bruno Mondadori, 2002
p. 316-317

Meme

Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria, Bruno Mondadori, 2002
p. 306-307

Cultura

Nicolas Pethes, Jens Ruchatz, Dizionario della memoria, Bruno Mondadori, 2002
p. 129-130

Matrimonio come percorso di salvezza

Adolf Guggebuhl-Craig, Matrimonio Vivi o morti (1988), Moretti&Vitali, 2000
p. 55-66

Individuazione e matrimonio

Adolf Guggebuhl-Craig, Matrimonio Vivi o morti (1988), Moretti&Vitali, 2000
p. 42-47

Tipi di matrimonio

Adolf Guggebuhl-Craig, Matrimonio Vivi o morti (1988), Moretti&Vitali, 2000
p. 37-38

Zeus-Era, Giove-Giunone: simboli/immagini della vita coniugale

Adolf Guggebuhl-Craig, Matrimonio Vivi o morti (1988), Moretti&Vitali, 2000
p. 19-21

Valori

Carl Schmitt, La tirannia dei valori (1957-1971), Adelphi, 2008

PAURA, in Roberto Esposito, Communitas, Einaudi, 1998

Roberto Esposito, Communitas, Einaudi, 1998
p. 3-31

Malattia

Pier Paolo Portinaro (a cura di), I concetti del male (Paolo Vineis), Einaudi, 2002, p. 132-146

Dio

Pier Paolo Portinaro (a cura di), I concetti del male (Giovanni Filoramo), Einaudi, 2002, p. 91-103

Famiglia

GRAYLING A.C., Il significato delle cose, Il Sole 24 Ore, 2007
p. 240-243

Religione

GRAYLING A.C., Il significato delle cose, Il Sole 24 Ore, 2007
p. 126-136

Religione

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 17-172

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Dio

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 49-51

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Corpo

Umberto Galimberti, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994
p. 40-41

Galimberti Umberto, Parole nomadi, Feltrinelli, 1994. Rielaborazione di articoli pubblicati sul supplemento domenicale de Il Sole 24 Ore nel 1991/1992. Il libro è stato ripubblicato nel 2023 dalla Repubblica

Religione

Fernando Savater, Dizionario filosofico, Laterza,1996
p. 204-218

Malattie

Fernando Savater, Dizionario filosofico, Laterza,1996
p. 134-138

Valori

Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 1996
p. 142-144

Fede

Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 1996
p. 38-41

Dio

Salvatore Natoli, Dizionario dei vizi e delle virtù, Feltrinelli, 1996
p. 26-28

PAURA, in Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009 pag 104-107

Ilvo Diamanti, Sillabario dei tempi tristi, Feltrinelli, 2009
pag 104-107

Max Weber (1864 -1920): ETICA DEI PRINCIPI ed ETICA DELLA RESPONSABILITA’, 1919. Scheda di Paolo Ferrario, redatta nel 2009 per un corso di formazione

Nella sua ormai famosissi­ma conferenza sul tema Politica come professione (tenuta a Mona­co il 28 gennaio 1919, un anno prima della sua morte), Max We­ber trattò in modo disincantato il tema del rapporto fra etica e politica.

La politica è il dominio della forza. Chi ha la «vocazione» per la politica (Beruf in tedesco significa sia professione sia vocazio­ne) sa di dover affrontare aspre lotte. Solo uomini astuti e dal carattere forte potranno affrontare le insidie «diaboli­che» della politica, il cui terre­no proprio è l’uso della forza.

E’ per definire questo carattere che Weber introduce la distin­zione tra

  • etica della convin­zione” — o più precisamente “eti­ca dei princìpi” (Gesinnungsethik)
  • ed “etica della responsabilità” (Verantwortungsethik).

La prima è un’etica assoluta, di chi ope­ra solo seguendo principi rite­nuti giusti in sé, indipendente­mente dalle loro conseguenze. E’ questa un’etica della testimonianza assolutizzata: “avvenga quel che avverrà, io devo comportarmi così”.

La seconda è l’etica veramente pertinente alla politica. L’etica della responsabilità si riferisce alle presumibili conseguenze delle scelte e dei comportamenti che l’individuo ed il suo gruppo di appartenenza mette in atto.

Il pro­blema, scrive Weber, è che «il raggiungimento di fini buoni è accompagnato il più delle vol­te dall’uso di mezzi sospetti», e «nessuna etica può determi­nare quando e in qual misura lo scopo moralmente buono “giustifica” i mezzi e le altre conseguenze moralmente peri­colose». Chi non tiene conto di questo — che dal bene non deriva sempre il bene e dal male non deriva sempre il ma­le — «in politica è un fanciul­lo».

Le due etiche non sono però «antitetiche ma si comple­tano a vicenda, e solo- congiun­te formano il vero uomo, quel­lo che può avere la “vocazione per la politica“», salvo ribadire che tra esse non potrà mai dar­si vera conciliazione né armo­nia a buon mercato.

La lezione di realismo di Weber si spinge così fin den­tro le pieghe dell’etica. Egli afferma che solo un atto di reponsabilità può risolvere, nell’azione, i “dilemmi etici” che il politico, e in generale chiunque abbia responsabilità verso il prossimo, si trova ine­vitabilmente di fronte. I valori sono più d’uno, ognuno ugual­mente importante nella propria sfera, e non sempre sono armo­nizzabili, ma possono scontrar­si ed entrare in conflitto quando è il momento di agire.

Questo è il senso del concetto di “politeismo dei valo­ri“.

Le precedenti annotazioni sono tratte dalle conferenze La scienza come professione e La politica come professione,  pubblicate (con il titolo Il lavoro intellettuale come professione) nei “Saggi” Einaudi, tradotti da Antonio Giolitti e con l’introduzione di Delio Cantimori.

Nel 2001 sono state ripubblicate dalle edizioni Comunità a cura di Pietro Rossi e Francesco Tuccari. Il traduttore Wolfgang Schuchter sostituisce la locuzione “etica dei princìpi” a quella di “etica della convinzione” e così ne spiega la motivazione:

La difficoltà più rilevante riguarda la coppia concettua­le Gesinnungsethik-Verantwortungsethik, che ha un ruolo centrale in Politik als Beruf. mentre il secondo termine trova una ovvia corrispondenza in «eti­ca della responsabilità», la stessa cosa non vale per il primo, data l’assenza in italiano (ma anche nelle altre lingue principali) di un equivalente preciso del tedesco Gesinnung. Esso è stato tradotto da Giolitti con «etica dell’in­tenzione», mentre in seguito si è preferito, sulla scorta della versione ingle­se e di quella francese, renderlo con «etica della convinzione». L’una e l’al­tra soluzione sono però insoddisfacenti, poiché la Gesinnungsethik weberiana non costituisce un’etica della pura intenzione in senso kantiano, né trova la propria base in una semplice «convinzione»: essa riveste per un verso un significato soggettivo, in quanto designa l’incondizionata adesione perso­nale a certi principi che devono guidare l’agire dell’individuo, e per l’altro verso un significato oggettivo, in quanto comporta il riferimento a principi assunti come incondizionatamente validi, che l’individuo assume come pro­pri scopi indipendentemente dalla considerazione dei mezzi necessari e del­le prevedibili conseguenze della loro realizzazione. Si è perciò preferito adot­tare qui un’altra versione (ancorché legata, in parte, a una diversa tradizio­ne di filosofia morale), rendendo Gesinnungsethik con «etica dei principi».

Ma leggiamo direttamente il testo:

L’etica può presentarsi in un ruolo assai deleterio da un punto di vista morale. Facciamo alcuni esempi.

Raramente troverete che un uomo, il quale abbia smes­so di amare una donna per un’altra, non senta il bisogno di giu­stificarsi con se stesso dicendo che la prima non era più degna del suo amore, o che lo aveva deluso, o adducendo altre «ra­gioni» simili. Si tratta di una mancanza di cavalleria che, al sem­plice dato di fatto che egli non la ama più e che la donna deve portarne le conseguenze, aggiunge ancora una parvenza di le­gittimità, in forza della quale egli pretende un diritto e cerca di rovesciare sulla donna, oltre all’infelicità, anche un torto. Si comporta esattamente allo stesso modo il concorrente fortuna­to in amore: il rivale deve valere di meno, altrimenti non sa­rebbe stato sconfitto.

Le cose non vanno ovviamente in modo diverso quando, dopo una qualsiasi guerra vittoriosa, il vinci­tore afferma con una tracotanza priva di dignità: ho vinto per­ché avevo ragione. Oppure, quando qualcuno crolla interior­mente di fronte agli orrori della guerra e, invece di dire sem­plicemente che era troppo, sente il bisogno di giustificare di fronte a se stesso la sua stanchezza della guerra con questo sen­timento: «Non potevo sopportarlo, perché dovevo combattere per una causa moralmente cattiva». E lo stesso accade per chi è sconfitto in guerra. Dopo una guerra, invece di andare in cer­ca del «colpevole» con una vecchia mentalità da donnicciole -quando è stata invece la struttura della società a determinare la guerra – chiunque assuma un atteggiamento virile e sobrio dirà al nemico: «Abbiamo perso la guerra, voi l’avete vinta. Questa è ormai cosa fatta: concedeteci ora di discutere su quali conse­guenze se ne debbano trarre in relazione agli interessi oggetti­vi che erano in gioco e – questa la cosa principale – in rappor­to alla responsabilità di fronte al futuro, che grava special­mente sul vincitore».

Tutto il resto è privo di dignità e ha gravi conseguenze. Una nazione perdona una ferita dei propri inte­ressi, ma non una ferita del proprio onore, e tanto meno una fe­rita inflitta con prepotenza farisaica. Ogni nuovo documento che viene alla luce dopo decenni fa sorgere nuovamente grida di sdegno, l’odio e l’ira, mentre la guerra, una volta terminata, dovrebbe essere almeno moralmente sepolta. Questo è possibile soltanto attraverso l’oggettività e la cavalleria, ma so­prattutto mediante la dignità. E mai attraverso un’« eti­ca», che in verità significa mancanza di dignità da entrambe le parti. Invece di preoccuparsi di ciò che interessa l’uomo politico – il futuro e la responsabilità di fronte a esso – l’etica si occupa della questione della colpa commessa nel passato, una questio­ne politicamente sterile perché indecidibile. Agire in que­sto modo è una colpa politica, se mai ve n’è una. E inol­tre, l’inevitabile travisamento dell’intero problema viene oc­cultato da interessi assai materiali: l’interesse del vincitore al guadagno – morale e materiale – più alto possibile, le speranze dello sconfitto di procurarsi qualche vantaggio attraverso il ri­conoscimento della propria colpa: se vi è mai qualcosa di « v o l g a r e », è proprio questo, ed è la conseguenza di un siffatto modo di utilizzare l’«etica» come pretesto per «mettersi dalla parte della ragione».

Ma qual è dunque il rapporto reale tra etica e politica ? Non hanno niente a che fare l’una con l’altra, come si è talvolta af­fermato? O è vero, al contrario, che la «stessa» etica vale per l’agire politico come per ogni altro agire?

Si è talvolta pensato che tra queste due affermazioni si ponesse un’alternativa: sa­rebbe giusta o l’una o l’altra. Ma è dunque vero che imperativi identici dal punto di vista del contenuto potrebbero esse­re formulati da qualsiasi etica al mondo per rapporti erotici e di affari, familiari e di ufficio, per le relazioni con la moglie, l’erbivendola, il figlio, il concorrente, l’amico, l’imputato? Do­vrebbe essere davvero cosi indifferente per le esigenze etiche nei confronti della politica che questa operi con un mezzo cosi specifico come la potenza, dietro cui vi è la violenza ? Non vediamo che gli ideologi bolscevichi e spartachisti, proprio in quanto fanno uso di questo mezzo della politica, giungono esat­tamente agli stessi risultati di un qualsiasi dittatore milita­re ? In che cosa, se non nella persona di chi detiene il potere e nel suo dilettantismo, si differenzia il potere dei consigli degli operai e dei soldati da quello di un qualsiasi detentore del po­tere del vecchio regime ? E in che cosa, ancora, si distingue la polemica che la maggior parte dei rappresentanti della presun­ta nuova etica ha scatenato contro i suoi avversari da quella di qualsiasi altro demagogo? Ci si dirà: per la nobile intenzione! Bene. Ma qui è dei mezzi che si sta parlando, e anche gli av­versari con cui si combatte pretendono per sé allo stesso iden­tico modo, in piena sincerità da un punto di vista soggettivo, la nobiltà delle proprie intenzioni ultime. «Chi di spada ferisce, di spada perisce», e la lotta è sempre lotta. E dunque, l’etica del sermone della montagna? Con il sermone del­la montagna – vale a dire con l’etica assoluta del Vangelo – si pone una questione assai più seria di quanto credono coloro che oggi citano volentieri questi precetti. Non va presa alla legge­ra. Per essa vale ciò che è stato detto della causalità nella scien­za: non è una carrozza che si possa far fermare a piacere per sa­lirvi o scenderne20. Al contrario: tutto oppure niente, è pro­prio questo il suo senso, se ne deve derivare qualcosa di diverso dalla banalità. Cosi, per esempio, la parabola del gio­vane ricco: «Egli se ne andò triste, poiché possedeva molte ric­chezze». Il precetto evangelico è incondizionato e univoco: dai via ciò che possiedi, semplicemente tutto. L’uomo po­litico dirà: una pretesa insensata dal punto di vista sociale, fin­tantoché non viene realizzata per tutti. E dunque: tassazioni, espropriazioni, confische, in una parola: coercizione e ordine per tutti. Ma il precetto etico non chiede affatto una cosa del genere, ed è questa la sua natura. Oppure: «Porgi l’al­tra guancia». Incondizionatamente, senza chiedere come mai spetti all’altro di colpire. Un’etica della mancanza di dignità, eccetto che per un santo. Questo è il punto: si deve essere san­ti in tutto, quanto meno nella volontà, si deve vivere come Gesù, come gli Apostoli, come San Francesco e i suoi pari, e solamente allora quest’etica è dotata di senso ed è espressio­ne di una dignità. Altrimenti no. Infatti, quando in conseguenza di un’etica acosmica dell’amore si dice: «Non opporti al male con la violenza», per l’uomo politico vale il prin­cipio opposto: devi resistere al male con la violenza, altri­menti sarai responsabile della sua affermazione. Chi intenda agi­re secondo l’etica del Vangelo, si astenga dagli scioperi – poiché essi rappresentano una forma di coercizione – e si iscriva ai sin­dacati gialli. E soprattutto non parli di «rivoluzione». Infatti quell’etica non intende certo insegnare che proprio la guerra ci­vile sia l’unica forma di guerra legittima. Il pacifista che agisca secondo i precetti del Vangelo rifiuterà o getterà via le armi, co­me veniva raccomandato in Germania, in quanto ciò rappresenta un dovere morale, allo scopo di porre fine alla guerra e dunque a ogni guerra. L’uomo politico dirà: l’unico mezzo sicuro per screditare la guerra per un periodo in qualche modo preve­dibile sarebbe stata una pace di status quo. I popoli si sa­rebbero chiesti allora: a che scopo la guerra? Essa sarebbe sta­ta ridotta ad absurdum, ciò che oggi non è più possibile. Infat­ti per i vincitori – o quanto meno per una parte di essi – essa è stata politicamente vantaggiosa. E di ciò è responsabile quella condotta che ci ha reso impossibile ogni resistenza. Quando dunque l’epoca della stanchezza sarà trascorsa, non la guerra, ma la pace sarà screditata: una conseguenza dell’etica assoluta.

Infine: il dovere della verità. E un dovere incondizionato per l’etica assoluta. Se ne è dunque dedotta la conseguenza di pubblicare tutti i documenti, soprattutto quelli che accusano il proprio paese, e sul fondamento di questa pubblicazione unila­terale di riconoscere la propria colpa unilateralmente, senza condizioni, senza riguardo alle conseguenze. L’uomo politico troverà che in tal modo non si è promossa la verità, ma la si è sicuramente oscurata attraverso l’abuso e lo scatenamento del­le passioni; che soltanto una verifica generale, condotta secon­do un piano e attraverso giudici imparziali potrebbe dare buo­ni frutti, e che ogni altro modo di procedere può avere, per la nazione che cosi agisce, conseguenze che si dovranno ancora ri­parare tra decenni. Ma è proprio sulle «conseguenze» che l’e­tica assoluta non si interroga.

Sta qui il punto decisivo. Dobbiamo renderci chiaramen­te conto che ogni agire orientato in senso etico può essere ri­condotto a due massime fondamentalmente diverse l’una dal­l’altra e inconciliabilmente opposte: può cioè orientarsi nel senso di un’«etica dei principi» oppure di un’«etica della responsa­bilità». Ciò non significa che l’etica dei principi coincida con la mancanza di responsabilità e l’etica della responsabilità con una mancanza di principi. Non si tratta ovviamente di questo.

Vi è altresì un contrasto radicale tra l’agire secondo la massima del­l’etica dei principi, la quale, formulata in termini religiosi, re­cita: «Il cristiano agisce da giusto e rimette l’esito del suo agi­re nelle mani di Dio», oppure secondo la massima dell’eti­ca della responsabilità, secondo la quale si deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) del proprio agire. A un sinda­calista convinto che agisca in base all’etica dei principi voi po­trete mostrare in modo assai persuasivo che in conseguenza del suo agire aumenteranno le possibilità della reazione, crescerà l’oppressione della sua classe, verrà rallentata la sua ascesa: ciò non farà su di lui alcuna impressione. Se le conseguenze di un’a­zione derivante da un puro principio sono cattive, a suo giudi­zio ne è responsabile non colui che agisce, bensì il mondo, la stupidità di altri uomini, o la volontà del dio che li ha creati ta­li.

Colui che invece agisce secondo l’etica della responsabilità tiene conto, per l’appunto, di quei difetti propri della media de­gli uomini. Egli non ha infatti alcun diritto – come ha giusta­mente detto Fichte” – di dare per scontata la loro bontà e per­fezione, non si sente capace di attribuire ad altri le conseguen­ze del suo proprio agire, per lo meno fin là dove poteva prevederle. Egli dirà: queste conseguenze saranno attribuite al mio operato. Colui che agisce secondo l’etica dei principi si sente «responsabile» soltanto del fatto che la fiamma del puro prin­cipio – per esempio la fiamma della protesta conto l’ingiustizia dell’ordinamento sociale – non si spenga. Ravvivarla continua­mente è lo scopo delle sue azioni completamente irrazionali dal punto di vista del possibile risultato, le quali possono e devono avere soltanto un valore esemplare.

Ma nemmeno cosi il problema è ancora esaurito. Nessuna etica al mondo prescinde dal fatto che il raggiungimento di fi­ni «buoni» è legato in numerosi casi all’impiego di mezzi eti­camente dubbi o quanto meno pericolosi e alla possibilità, o an­che alla probabilità, che insorgano altre conseguenze cattive. E nessuna etica al mondo può mostrare quando e in che misura lo scopo eticamente buono «giustifichi» i mezzi eticamente peri­colosi e le sue possibili conseguenze collaterali.

Per la politica il mezzo decisivo è la violenza, e quanto sia grande la portata della tensione tra il mezzo e il fine da un pun­to di vista etico lo potete desumere dal fatto, noto a tutti, che i socialisti rivoluzionari (corrente di Zimmerwald) già duran­te la guerra professavano un principio che si potrebbe cosi for­mulare: « Se ci trovassimo a dover scegliere tra un anno di guer­ra ancora e poi la rivoluzione, oppure la pace subito ma senza rivoluzione, noi sceglieremmo ancora qualche anno di guerra! » All’ulteriore domanda: «Che cosa può portare questa rivolu­zione?», qualsiasi socialista dotato di una qualche preparazio­ne scientifica avrebbe risposto che non si poteva parlare di un passaggio a un’economia che si potesse definire socialista nel senso da lui inteso, ma che sarebbe sorta una nuova eco­nomia borghese, la quale avrebbe potuto soltanto far piazza pu­lita degli elementi feudali e dei residui dinastici. Dunque, per questo modesto risultato: «Ancora qualche anno di guerra! » Si potrà certo affermare che in questo caso, anche con una assai salda convinzione socialista, si potrebbe respingere il fine che richiede un tale mezzo. E tuttavia nel bolscevismo e nello spartachismo, e in generale in ogni forma di socialismo rivoluzio­nario, le cose stanno esattamente allo stesso modo, ed è natu­ralmente assai ridicolo quando da questa parte vengono moral­mente rimproverati i «politici della forza» del vecchio regime a causa dell’impiego dell’identico mezzo, per quanto possa es­sere del tutto giustificato il rifiuto dei loro fini.

Qui, in relazione a questo problema della giustificazione dei mezzi attraverso il fine, anche l’etica dei principi sembra in ge­nerale destinata al fallimento. Essa, infatti, ha logicamente sol­tanto la possibilità di respingere ogni agire che faccia uso di mezzi eticamente pericolosi. Logicamente. Nel mondo reale, tuttavia, noi sperimentiamo continuamente che colui il quale agisce in base all’etica dei principi si trasforma improvvisamente nel profeta millenaristico, e che per esempio coloro che hanno appena predicato di opporre «l’amore alla violenza», nell’istante successivo invitano alla violenza – alla violenza ultima , la quale dovrebbe portare all’annientamento di ogni violenza – cosi come i nostri militari dicevano ai soldati a ogni offensiva: questa sarà l’ultima, porterà la vittoria e poi la pace.

Colui che agisce in base all’etica dei principi non tollera l’irrazionalità eti­ca del mondo. Egli è un «razionalista» cosmico-etico. Chi di voi conosce Dostoevskij ricorderà senz’altro l’episodio del Grande Inquisitore, dove il problema è trattato con grande precisione.

Non è possibile mettere d’accordo l’etica dei principi e l’etica della responsabilità oppure decretare eticamente quale fine deb­ba giustificare quel determinato mezzo, quando si sia fatta in generale una qualche concessione a questo principio.

[ …]

Chi vuole fare politica in generale, e soprattutto chi vuole esercitare la politica come professione, deve essere consapevo­le di quei paradossi etici e della propria responsabilità per ciò che a lui stesso può accadere sotto la loro pressione. Lo ripeto ancora: egli entra in relazione con le potenze diaboliche che stanno in agguato dietro a ogni violenza. I grandi virtuosi del­l’amore acosmico per l’uomo e del bene – provengano essi da Nazareth, da Assisi o dai palazzi reali indiani – non hanno ope­rato con il mezzo politico della violenza, il loro regno «non era di questo mondo», e tuttavia agirono e agiscono in questo mondo, e le figure di Platon Karataev e dei santi dostoevskiani sono pur sempre quelle che si adattano meglio a tali modelli. Chi aspira alla salvezza della propria anima e alla salvezza di al­tre anime non le ricerca sul terreno della politica, che si pone un compito del tutto diverso e tale da poter essere risolto sol­tanto con la violenza. Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può tra­sformarsi in un conflitto insanabile.

[ …]

In verità: la politica viene fatta con la testa, ma di certo non con la testa soltanto. In ciò coloro che agiscono in base al­l’etica dei principi hanno pienamente ragione. Ma se si debba agire in base all’etica dei principi o all’etica della respon­sabilità, e quando in base all’una o all’altra, nessuno è in grado di prescriverlo. Si può dire soltanto una cosa: se adesso, in que­sti tempi (come voi pensate) di n o n «sterile» agitazione – ma l’agitazione non è sempre del tutto genuina passione – se ades­so improvvisamente i politici che agiscono in base al­l’etica dei principi si presentassero in massa con la parola d’or­dine: «Non io, ma il mondo è stupido e mediocre, la responsa­bilità per le conseguenze non riguarda la mia persona, ma gli altri, al cui servizio io lavoro, e la cui stupidità o volgarità io sradicherò», io dico allora apertamente che in primo luogo vor­rei interrogarmi sulla sostanza interiore che sta die­tro questa etica dei principi. Ho la sensazione che in nove casi su dieci mi troverei di fronte a degli spacconi che non sentono realmente ciò che assumono su di sé, ma si inebriano di sensa­zioni romantiche. Ciò non mi interessa molto dal punto di vi­sta umano e mi lascia del tutto indifferente. Suscita invece un’e­norme impressione sentir dire da un uomo maturo – non importa se vecchio o giovane anagraficamente – il quale sente realmente e con tutta la sua anima questa responsabilità per le conseguenze e agisce in base all’etica della responsabilità: «Non posso fare altrimenti, di qui non mi muovo». Questo è un at­teggiamento umanamente sincero e che commuove. E infatti una tale situazione deve certamente potersi verificare una volta o l’altra per chiunque di noi non sia privo di una pro­pria vita interiore. Pertanto l’etica dei principi e l’etica della re­sponsabilità non costituiscono due poli assolutamente opposti, ma due elementi che si completano a vicenda e che soltanto in­sieme creano l’uomo autentico, quello che può avere la «vo­cazione per la politica».

[ …]

La politica consiste in un lento e tenace superamento di du­re difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tem­po stesso. E certo del tutto esatto, e confermato da ogni espe­rienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fer­mezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di rea­lizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicu­ro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole of­frirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto que­sto: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica.

Da: Max Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Edizioni di Comunità, 2001, pagg. 97-113


Altre informazioni su questo argomento rintracciabili in rete:

https://tinyurl.com/2p86xbse


La Madre Mediterranea, in Ernst Bernhard, Mitobiografia, Adelphi, 1969

Ernst Bernhard (1896-1965) era un ebreo berlinese che ha introdotto la psicologia di Carl Gustav Jung in Italia, avendo fra i suoi pazienti anche Fellini, la Ginzburg, Manganelli, Silvia Montefoschi

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“La chiave che permette di schiudere l’enigma dell’anima italiana è la constatazione che in Italia regna la Grande Madre mediterranea, la quale non ha perduto nei millenni né di potenza né di influenza. Essa è la premessa archetipica che si ravviva in ogni singola donna italiana se si fa appello alle sue qualità materne.

Nel dominio psichico essa produce prima di tutto una specifica attitudine materna. L’istinto materno la impegna interamente alla cura e alla protezione del bambino, un atteggiamento che si estende all’infinito attraverso meccanismi di proiezione; poiché dovunque essa trovi un oggetto, qualcosa a cui attribuire il significato di ‘figlio’, ivi si fissa, per rivolgerglisi maternamente. Essa accoglie ogni moto del ‘bambino’, afferra tutto, comprende tutto, perdona tutto, sopporta tutto. Quanto più bisognoso il bambino, più sofferente, più povero, più trascurato, tanto più vicino è al suo cuore.

La mancanza di puntualità e di fidatezza degli italiani si fonda in parte su questa fondamentale struttura psichica, poiché a chi è dominato dalla Grande Madre mancano capacità d’astrazione e di disciplina virili, o meglio queste soccombono inesorabilmente quando vengono a conflitto con la Grande Madre. Tutto ciò che è impersonale, per principio, essa cerca di trasformarlo in rapporto personale, attraverso il quale, come è noto, in Italia si può raggiungere quasi tutto.

Niente è più espressivo che l’interiezione “Pazienza!” che l’italiano pronunzia in modo quasi riflessivo quando qualcosa non è andato come doveva, a mo’ di rassegnazione e di conforto insieme, secondo quanto gli suggerisce la Grande Madre consolatrice. … Poiché la rassegnazione contenuta in quel “Pazienza!” ha infine la propria radice in una genuina fiducia nel corso delle cose, in quella sicurezza che al figlio dà protezione materna, che giunge fino a quel ‘completo abbandono alla Provvidenza’ che è uno dei pilastri naturali della religiosità cristiana in Italia.

Ma la Grande Madre mediterranea in Italia è una madre primitiva. Essa vizia per lo più i suoi figli con la massima istintività, e i figli di conseguenza sono esigenti. Ma quanto più li vizia tanto più li rende dipendenti da sé, tanto più naturale le sembra la propria pretesa sui figli e tanto più questi si sentono ad essa legati e obbligati. A questo punto la buona madre nutrice e protettiva si trasforma nel proprio aspetto negativo, nella cattiva madre che trattiene e divora e che con le sue pretese ormai egoistiche impedisce ai figlie il raggiungimento dell’indipendenza e li rende inermi e infelici.

Spesso sono mogli e madri energiche, ricche di meriti, capaci, con un marito per lo più debole, senza interesse o capacità per le cose concrete, che creano e mantengono la posizione della famiglia, che dirigono aziende, fabbriche, alberghi, negozi o perlomeno la carriera del marito … Oppure sono donne sofferenti, malate o malaticce, il più delle volte con un marito estroverso, che sono state impedite nella loro evoluzione spirituale e psichica … Ambedue i tipi di madre, l’attivo come il passivo, hanno un’influenza ugualmente forte sul destino dei componenti della famiglia.

Data la posizione dominante della madre nella psicologia italiana, è naturale che la maggior parte delle nevrosi sia determinata principalmente da complesso materno. Molto spesso noi troviamo nell’uomo turbe di potenza, dongiovannismo, omosessualità, disturbi del lavoro. Nella donna troviamo sfiducia nelle sue qualità femminili, mancanza di fiducia nei decorsi naturali, mestruazione, gravidanza, parto, sviluppo dei bambini con i relativi disturbi: resistenza sessuale, frigidità, lesbismo, ipercompensazione intellettuale. In generale: disturbi dei rapporti fra i sessi, difficoltà nella ricerca del compagno, matrimoni infelici, angosce, depressioni, complessi d’inferiorità e un’infinita schiera di disturbi psicosomatici, dalla frequentissima emicrania alla colite, alla nevrosi cardiaca, all’asma, fino all’ulcera gastrica.

In una civiltà di stampo matriarcale l’elemento maschile rappresenta per definizione il lato indifferenziato, l’Ombra. Poiché la madre rappresenta l’inconscio nel suo aspetto predominante, l’uomo italiano è facilmente esposto ai suoi influssi e dispone di fronte a esso d’un Io relativamente debole; egli si identifica più o meno con l’Anima.

L’’identità con i lato positivo materno è evidente. E’ commovente vedere come i padri italiani sanno trattare coi loro bambini, come li sanno comprendere, proteggere, curare,. Sovente ridiventano bambini essi stessi, figli della Grande Madre, perché in fondo non hanno mai cessato di esserlo, compagni di gioco delle proprie figlie e dei propri figli, proprio come avviene presso i primitivi organizzati patriarcalmente, dove il posto del padre, con i suoi diritti e doveri, è preso dal fratello della madre, dallo zio materno. …

L’elemento maschile indifferenziato tende in linea di massima a fissarsi in una condizione di “figlio di mamma”, sovente nella forma di eterno Puer, cioè in una psicologia di pubertà. Questo produce per un verso l’attaccamento e la venerazione commoventi che l’uomo italiano ha per la propria madre, e con essi il suo tradizionalismo e il suo conservatorismo in tutti i domini, naturalmente anche nei confronti della Chiesa.

Per altro verso questa psicologia di pubertà così caratteristica per l’uomo si manifesta positivamente come ribellione, ardimento, slancio, entusiasmo, intuizione creativa e schietto impulso all’avventura, negativamente come faciloneria, esibizionismo, vanità, gallismo o disprezzo della donna, spesso con tratti manifesti o latenti di omosessualità, e come tendenza a ogni possibile eccesso”

in Ernst Bernhard, Il complesso della Grande Madre. Problemi e possibilità della psicologia analitica in Italia, in Tempo Presente dicembre 1961, ripubblicato in Mitobiografia, Adelphi. 1969, pagg. 168-174

Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975. Presentazione di Paolo Ferrario

Introduzione
Carlo Tullio Altan (1916-2005) è stato uno dei fondatori della antropologia culturale in Italia.
Nella sua biografia intellettuale dice di sé:
Nel ripren­dere in mano i testi che scrissi e pubblicai a partire dal 1943, e nel leggervi le riflessioni che vi erano riportate, tratte an­che da quaderni di appunti andati perduti, constatai un fat­to che mi sorprese alquanto. Si tratta di scritti che da oltre quarant’anni non avevo più ripreso in esame, e di cui avevo quasi del tutto scordato il preciso contenuto. Riletti a tanta distanza di tempo, questi scritti mi rivelarono che molte del­le idee e degli argomenti che mi avrebbero impegnato, con l’apparenza della novità, alcuni decenni dopo, avevano già assunto una prima consapevolezza di se’ in quegli originari e spontanei tentativi di metterli a fuoco. E questo mi ha fat­to tornare alla mente un passo di Ortega y Gasset, che avevo letto allora e che mi era rimasto nella memoria, in cui il filosofo spagnolo sosteneva che le idee prendono possesso di un uomo fra i venticinque e i trentanni, e non lo lasciano più per il resto della sua vita. E penso proprio che, almeno per quanto mi riguarda, questo sia in buona parte accaduto.
In Carlo Tullio – Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano 1992, p. 15

I suoi studi e riflessioni hanno avuto per oggetto
le religioni ed i simboli ( Lo spirito religioso del mondo primitivo, Il Saggiatore, Milano, 1960, Soggetto, simbolo e valore, Feltrinelli, Milano, 1992, Le grandi religioni a confronto, l’età della globalizzazione, Feltrinelli, 2002, Ethnos e Civiltà, Feltrinelli, Milano, 1995),
i fondamenti dell’approccio antropologico alla analisi sociale ( Antropologia funzionale, Bompiani, Milano, 1968; Manuale di Antropologia Culturale, Bompiani, Milano, 1971; Antropologia, storia e problemi, Feltrinelli, Milano, 1983), Le classi sociali e i valori giovanili (con Alberto Marradi, Valori, classi sociali e scelte politiche, Bompiani, Milano, 1976; con Roberto Cartocci, Modi di produzione e lotta di classe in Italia, Mondadori-Isedi, 1979),
la cultura civica degli italiani (La nostra Italia, Feltrinelli, Milano, 1986; Populismo e trasformismo, Feltrinelli, Milano, 1989).
Negli ultimi anni si dedicò all’elaborazione di un idealtipo dell’ethnos, analizzato nelle sue cinque componenti: epos, ethos, logos, genos e topos, allo scopo di trovare una soluzione scientifica sul piano dell’antropologia, al conflitto tra i vari etnocentrismi e l’esigenza di un nuovo ordine internazionale.
Dice di lui Umberto Galimberti: “ La grandezza di Carlo Tullio-Altan non sta tanto nel suo pionierismo, quanto nel fatto che le sue ricerche antropologiche erano guidate da profonde conoscenze filosofiche che facevano riferimento allo strumentalismo deweyano, al materialismo storico, alla fenomenologia, all´esistenzialismo, al neopositivismo, allo strutturalismo, al funzionalismo, perché Tullio-Altan aveva capito che l´uomo è una realtà troppo complessa per essere inquadrata e compresa in una sola idea . Se in occasione della sua morte riprendessimo tra le mani i suoi libri e riflettessimo sulle sue idee, spesso profetiche e anticipatrici, renderemmo a Carlo Tullio-Altan il migliore degli omaggi.”
Nel saggio poco conosciuto, perché diffuso soprattutto fra operatori sociali alla fine degli anni ’60, che presentiamo qui sotto Carlo Tullio – Altan elabora un magistrale modello di analisi dell’ “uomo in situazione” di grande forza analitica, sia per leggere ed interpretare i “segni dei tempi” che attraversiamo, sia per attraversarli come soggetti consapevoli dell’intreccio che contraddistingue la nostra esistenza nel tratto di vita che ci è assegnato.
Paolo Ferrario
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Carlo Tullio – Altan, Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in Psicoterapia e scienze umane n. 1, 1967, ripubblicato nel n. 1, 1975
Il problema di una possibile collaborazione fra psichiatri e studiosi di scienze umane richiede innanzi tutto, per essere risolto, la messa a pun­to di un linguaggio comune, per cogliere certi aspetti della realtà umana che rientrano nella sfera di interesse degli uni e degli altri.
Il fat­to che questo linguaggio non esista ancora, non è casuale. E’ la posizione assai diversa che i due gruppi di studiosi assumono di fronte al feno­meno della malattia mentale che ne è la causa. Gli studiosi di scienze umane, se si esclude una certa parte degli psicologi, non guardano al singolo malato, ma al fenomeno malattia nella sua dimensione sociale e cioè statistica. Ma vi è di più, bisogna ammettere che numerosi stu­diosi di problemi sociali, subiscono, senza avvedersene, un processo di identificazione con il sistema in cui vivono e che studiano, che viene accettato da essi come paradigma, come norma cui assegnano inconsapevolmente un significato assoluto. Una volta assunta questa prospettiva, essi mostrano una sorta di « disattenzione seletti­va » per tutti quei fenomeni di disfunzione del sistema sociale in cui vivono, che in certa mi­sura contraddicono all’ipostasi inconscia che ne hanno fatta. Quando si parla di « società ma­lata », essi obbiettano che non vi è una misura scientifica per definire una distinzione univer­salmente accettabile fra una società sana e una malata. Questo è certamente vero, se questa mi­sura viene ricercata nella forma di una norma costante, di una struttura esemplare, ma allora anche lo psichiatra potrebbe rispondere allo stesso modo, e negare l’esistenza della malattia. E qualcuno di essi lo fa. Se si fa notare che il fenomeno delle malattie mentali ha assunto di­mensioni sociali e che l’influenza di certe varia­bili di classe, di cultura, di genere di vita è sta­tisticamente dimostrabile, in tal caso è il valore dell’analisi statistica ad essere revocato in dub­bio e con argomenti molto convincenti: la dif­formità delle diagnosi, la difficoltà della rac­colta dei dati, le differenze di trattamento dei casi, molti dei quali vengono così a sfuggire al controllo statistico, e via dicendo. Tutto questo, se non altro, dimostra una certa misura di disin­teresse per il fenomeno fastidioso della malattia mentale.
Gli psichiatri si trovano di fronte allo stesso fenomeno in una prospettiva radicalmente di­versa: si trovano di fronte a casi singoli, a individui malati con i quali entrano in un rap­porto diretto, più o meno autentico, in relazio­ne alla loro struttura concettuale, ma comunque sempre individuale, personale, privato. Essi so­no assorbiti dal compito di curare quel certo malato, e tendono in genere a mettere in pa­rentesi la dimensione sociale del caso partico­lare che hanno di fronte, soprattutto quando appartengono ad una rigida scuola organicistica.
Fra gruppi di studiosi così diversamente orien­tati è chiaro che un discorso interdisciplinare si instaura con molta difficoltà, per la mancanza di un comune terreno d’incontro fra la prospet­tiva collettiva scelta dai primi e la prospettiva individuale scelta dai secondi. Il formarsi e dis­solversi di gruppi di studio costituiti su queste basi o meglio su questa carenza di basi comu­ni, è perfettamente spiegabile: in quei gruppi non ci può essere processo di comunicazione, i codici sono troppo diversi. Molti psicoterapeuti tuttavia, trattando, soprat­tutto con il metodo analitico, il caso particolare, si rendono conto che i problemi del malato, quei problemi che, irresoluti, sono spesso la fon­te della malattia, si costituiscono in un contesto sociale e non solo privato, sia esso quello della famiglia, del lavoro o altro. Essi ottengono, at­traverso il discorso del malato, una rappresen­tazione della società ben diversa da quella irenica e paradigmatica che molti sociologi ci of­frono. Certo, l’immagine ottenuta attraverso il discorso del malato è viziata dalla sua stessa malattia, è deformata e non accettabile senza ampie riserve. Nonostante questo il terapeuta si chiede se non vi sia un germe di verità in questo quadro negativo, e per avere maggiori informazioni si rivolge ai suoi colleghi studiosi di scienze sociali. Ma il discorso con quest’ulti­mi è assai difficile, per i motivi che si sono detti: manca ancora una base concettuale adatta alla convergenza delle due tipiche prospettive sotto le quali il fenomeno della malattia viene guar­dato.
« Ciò che è necessario, per costituire lo schema adatto alla collaborazione interdisciplinare, sono due cose che sono estranee alle consuetudini dell’antropologia e della psichiatria… Una è la necessità per lo psichiatra di raccogliere siste­maticamente dati sull’ambiente sociale e cultu­rale e sui sistemi di motivazioni che si disegna­no sempre sullo sfondo dei casi reali. La se­conda è la necessità per l’antropologia di sen­sibilizzarsi non solamente in relazione allo sfon­do culturale dal quale i singoli casi emergono, ma anche alle tipiche modalità del funziona­mento mentale negli esseri umani. Il terreno comune, che possiamo semplicemente chiamare psicodinamica, richiede un’adeguata analisi me­dico-psichiatrica di persone concrete e di casi concreti, stagliati sullo sfondo di una prospet­tiva di comprensione di ordine culturale ». Per realizzare questo proposito, così bene enun­ciato da Opler, l’antropologia offre un modello, o meglio una serie coordinata di modelli con­cettuali operativi.
Il primo di questi modelli è quello ricordato dallo stesso Opler: la cultu­ra. A questo proposito è subito necessario pre­cisare il senso tecnico in cui questo termine vie­ne usato in antropologia, per sgomberare a prio­ri il terreno dalle possibili confusioni. In senso antropologico cultura non significa l’« esser col­to », o quel gruppo di persone che formano l’intellighentzia di un certo paese, i circoli che as­sumono la « cultura » come loro specializzazione professionale, le élites colte di una certa società. Col termine di cultura si intende qualcosa di as­sai più generale. « Mentre il modo di vivere di un popolo può raggiungere una sua coerenza interna e sviluppare in se stesso inconsci ca­noni di scelta, la cultura è sempre uno strumen­to per adattare l’uomo alla natura che gli da modo di metterla sotto controllo, risolvere i pro­blemi dell’attività sociale, dell’economia, della politica, della religione e della filosofia, e di regolare il comportamento » (Opler). In sostanza la cultura è, in senso antropologico, quel com­plesso di nozioni codificate in forma collettiva e sociale che permettono ad un certo gruppo umano di affrontare e risolvere quei problemi di vita che la società stessa, con questi modelli di comportamento ha previsto. Essa quindi com­prende nozioni tecniche elementari, modalità di istituire rapporti interpersonali di ogni ge­nere, oltre al complesso di conoscenze scientifi­che e al patrimonio artistico, filosofico e reli­gioso, cui si riserva in genere la definizione di cultura in senso stretto. Una volta che si assegni alla cultura questa spe­cifica funzione strumentale, che consiste nell’aiutare l’uomo a vivere da uomo, è chiaro che l’interpretazione freudiana ne è una deformazione. La cultura non è fonte di frustrazione, o non dovrebbe esserlo, ma è un sistema per evitare la frustrazione. Se non assolve al suo scopo, in tal caso è necessario ricercarne le cause concrete.
Il secondo modello offerto dall’antropologia cul­turale al discorso interdisciplinare è legato al primo. Esso è il sistema di personalità (o per­sonalità di base, come spesso viene chiamato). Questo si forma nell’uomo attraverso il proces­so dell’inculturazione e cioè dell’acquisizione da parte del singolo di quella porzione della cultu­ra che gli sarà necessaria per affrontare quel ge­nere di vita, che l’appartenenza ad un certo gruppo umano gli offre. Il risultato è quell’ap­parato che la tradizione ha variamente chiama­to coi termini di anima, mente, intelletto, ra­gione o cervello. Esso si costituisce partendo da una base ben istintuale ereditaria assai ridotta e si plasma in relazione alle esperienze gradatamente realizzate dal fanciullo nei rapporti con la madre, con la famiglia, con la scuola e poi, per l’uomo maturo, con la società. Attraverso que­sto processo, le informazioni necessarie alla vita del singolo vengono recepite e registrate in un complesso sistema di cellule che forma il tessu­to corticale del cervello, che è l’organo biolo­gico cui spetta la specifica funzione della me­morizzazione delle informazioni e dell’esecuzio­ne di quelle operazioni interpretative che la situazione di vita del singolo rende via via ne­cessarie. Quest’apparato, se funzionale, riesce a mettere in sintonia il singolo con la sua situa­zione di vita. Esso ha quindi una chiara natu­ra bio-psichica, e cioè una dimensione organica e una socio-culturale. Per intendere bene il modo in cui funziona il sistema di personalità così concepito, è neces­sario tenere sempre presente, come quadro di riferimento, la situazione in cui opera, intesa come un « campo » (Lewin) nel quale molteplici forze interagenti di ordine psichico, sociale, cul­turale e naturale sono anch’esse operanti. Il si­stema di personalità funzionale realizza l’omeostasi psicologica. « Le teorie dell’omeostasi e del­lo squilibrio possono valere pienamente solo se ci si rende conto che l’unico tipo di omeostasi, o della mancanza di essa, che può esistere, è in­cluso nell’ambito dell’intera struttura della per­sonalità, che viene costituita in base a certi con­testi esistenziali ed opera in essi » (Opler).
A questo punto l’antropologia culturale può offrire il suo terzo modello concettuale interdi­sciplinare. Il sistema della società. La cultura, come codice comune ai membri di un gruppo, rende possibile fra di loro la comunicazione, non solo, ma offre loro una comune prospettiva attraverso la quale guardare ai concreti proble­mi di vita, che si fanno così problemi comuni, da risolvere in comune, con comportamenti ade­guati e di conseguenza istituzionalizzati e codi­ficati a questo fine, per economia di sforzi ed efficienza di strutture. Il complesso tessuto socia­le si costituisce su questi presupposti funzionali e forma uno schema nel quale gli individui as­sumono una posizione specifica (uno status) in relazione al compito che essi vi assolvono (il ruolo). Questo tessuto si articola anche in strut­ture particolari, destinate alla formazione dei nuovi modelli culturali e alla loro trasmissione ai singoli. Essa è la matrice del sistema di cultu­ra e di quello di personalità.
Noi disponiamo quindi ora di tre modelli, il primo dei quali, la cultura, ha una dimensione collettiva e sociale, come patrimonio del sape­re di un certo gruppo, e una dimensione psi­cologica e individuale, in quanto si interioriz­za a formare il sistema di personalità di ogni singolo componente di un certo gruppo sociale. Noi abbiamo così modo di far convergere, gra­zie a questo modello concettuale, la prospettiva sociale del sociologo con quella individuale dello psicologo e dello psichiatra. A questo punto però il discorso non è finito. Infatti tutti e tre questi modelli, fra di loro coordinati, sono anche essi da situare in un «campo», onde verificarne la funzionalità, e cioè la rispondenza alle esigenze che essi debbono soddisfare. Questo campo, come quello cui si è accennato a proposito del sistema di persona­lità, è un campo dinamico di forze, o meglio una situazione in cui insorgono problemi, che il sistema di cultura deve prevedere, orientan­do il comportamento dei singoli in modo effi­cace, così da realizzare l’omeostasi degli indivi­dui, e l’armonia sociale che si manifesta nella collaborazione fattiva. Questo accade però solo se la cultura dispone di modelli adatti ad orien­tare il comportamento dei singoli in modo ef­ficace, con le conseguenze che si sono dette. In caso contrario le azioni, guidate da modelli ana­cronistici di comportamento, falliscono, l’equili­brio dei singoli, frustrati dalle esperienze di scacco, è compromesso e la collaborazione so­ciale è sostituita dal marasma e dal caos. In questo caso noi diciamo che il complesso arti­colato dei tre sistemi è disfunzionale in rela­zione alla situazione in cui opera.
Vi sono infatti due ordini di problemi, che ri­guardano i tre sistemi ricordati, quello della loro coerenza interna e quello della loro rispon­denza ai problemi di situazione. I due gruppi di problemi non coincidono in tutto e per tut­to. Se è vero che ogni sistema funzionale dev’es­sere in se stesso coerente così da poter funzio­nare, non ogni sistema in se stesso coerente e quindi funzionale è per ciò stesso funzionale, cioè rispondente alle esigenze del campo situa­zionale. Un esempio chiarissimo è offerto dal sistema di personalità malata, che assume la struttura difensiva del delirio sistematizzato: il sistema di personalità è in tal caso coerentissi­mo in se stesso, ma per nulla rispondente alle esigenze concrete della situazione di vita del malato; le sue operazioni mentali sono compiu­te nel rispetto di una logica ferrea, ma che nul­la ha a che fare con la concretezza dei proble­mi che tale logica dovrebbe affrontare. Gli esem­pi si possono moltiplicare a volontà in ogni campo della vita associata e a tutti i livelli. Questo conferma la necessità di ben distinguere i due gruppi di problemi ricordati, come pro­blemi di funzionamento dei sistemi e come pro­blemi di funzionalità degli stessi, interrelati, ma distinti.
La perdita di funzionalità dei sistemi dipende da due fattori, anche quando il funzionamento degli stessi è intatto. Il primo fattore è dato dalla dinamica del campo situazionale, nel qua­le operano le forze che si sono dette e in base alle quali insorgono sempre nuovi problemi non previsti dalla cultura codificata e tradizionale. Il secondo fattore è dato dalla rigidità dei si­stemi e cioè dalla loro scarsa plasticità, o inef­ficienza in essi delle strutture di autotrasfor­mazione, che ogni sistema deve avere per non perdere contatto con la concretezza della situa­zione in movimento costante. Mettiamo ora a fuoco il sistema di personalità che c’interessa per il nostro discorso interdisciplinare. Ne abbiamo descritto la funzione e il funzionamento. Quando si verifica in esso la condizione di perdita di funzionalità? Questa può andare perduta in relazione ai due gruppi di problemi, di funzionalità e di funzionamen­to, prima distinti. Esaminiamo il primo aspet­to della questione, e cioè il caso in cui la cultu­ra non offra modelli adatti alla situazione mu­tata. In tal caso l’uomo reagisce in due modi opposti: inventa modelli nuovi, in base ai qua­li i nuovi problemi sono individuati e avviati alla soluzione, si decondiziona dai modelli ana­cronistici e si ricondiziona con modelli adegua­ti, oppure rinuncia o si mostra incapace a far­lo. Nel primo caso egli realizza una forma di adattamento attivo, che trasforma lui stesso, la cultura, la società e l’intera situazione in cui vi­ve, nella quale la sua azione innovatrice agisce come potente elemento dinamico. Nel secondo caso egli subisce l’azione frustrante della realtà e si difende sul piano inconscio con la nevrosi. Nel primo caso la funzionalità del sistema di personalità viene costantemente restaurata, nel secondo viene perduta.
Ma la perdita di funzionalità del sistema di personalità può avere origini diverse, e dipen­dere cioè da problemi più ristretti di funziona­mento del sistema stesso di personalità. Questo sistema infatti è una « costruzione » che com­prende una fase di montaggio e necessita di materiale organico da organizzare in un certo modo. La fase di montaggio è realizzata nel de­licatissimo periodo dell’infanzia, e successivo, e può essere caratterizzata da eventi che compro­mettono la formazione del sistema di persona­lità, indipendentemente dal fatto che la cultu­ra disponga o meno di modelli collettivi di comportamento adatti alla situazione sociale. Il risultato, come tutti gli analisti sanno, è un sistema di personalità che funziona male, per­ché i modelli interiorizzati sono stati deformati nella fase di montaggio, e che va risistemato con adatte terapie. Ma il difetto può dipendere anche dal materiale biologico che deve formare la base portante organica del sistema bio-psi­chico della personalità. Questo materiale può recare in sé tare genetiche o venire, in conse­guenza di traumi fisici, processi di intossica­zione o altro, leso in modo irreversibile. Nella tendenza all’autoconservazione, che caratterizza ogni sistema sia esso organico o bio-psichico, o sociale ed economico, il sistema di personalità in crisi per questi motivi si difende con pro­cessi tipici, che sono appunto l’oggetto specifi­co di studio della psichiatria. Sono i sintomi delle diverse forme morbose. Come si vede gli squilibri dovuti al primo grup­po di problemi, quelli che nascono dalla man­canza di modelli sociali di comportamento ade­guato, sono difficilmente curabili dallo psichia­tra. In tali circostanze, quando egli si trova di fronte a fenomeni di vasta disfunzione psichi­ca dovuta a motivi di fondo, socio-culturali, egli deve necessariamente ridursi a fare quello che fa un medico militare, quando accoglie i feriti che gli vengono spediti dalle trincee, e li rimet­te in sesto alla meglio per rimandarli a farsi ac­coppare. E’ triste questo fatto, ma è un fatto. Se vuole intervenire attivamente, infatti, lo psi­chiatra non può più limitarsi a fare lo psichia­tra, ma denunciando la situazione a chiare let­tere, assume la veste del cittadino responsabile, del riformatore sociale e del politico. In questa veste egli può essere un preziosissimo collabora­tore di coloro a cui, nel tessuto sociale, spetta il ruolo specifico di realizzare quei riadattamen­ti culturali e sociali che la situazione dinamica comporta: gli studiosi di scienze umane, per la parte della ricerca, e i politici, per la realizza­zione pratica dei risultati della ricerca stessa. Per quanto riguarda gli squilibri dovuti al se­condo gruppo di problemi, squilibri nel proces­so di inculturazione e di origine organica, ben­ché mai si debba ignorare che si verificano in uomini che hanno necessariamente una dimen­sione socio-culturale, essi sono tuttavia l’ogget­to specifico delle cure psichiatriche in senso stretto. E se si tiene conto del fatto della na­tura bio-psichica del sistema di personalità, è possibile trovare anche un punto d’incontro fra il discorso degli analisti e degli psichiatri di origine organicistica che in realtà non si esclu­dono affatto fra di loro.
Per riassumere questi concetti, che si propon­gono di offrire modelli concettuali per un di­scorso interdisciplinare, mi sia permesso fare ricorso ad uno schema grafico che, con tutte le ovvie limitazioni di questi schemi, può es­sere un utile strumento per visualizzare e me­morizzare il discorso che si è fatto. (Vedi sche­ma 1).
In questo schema è rappresentato l’insieme dei tre sistemi della cultura, personalità e società, innestati nel terreno bio-fisico che ne è la base portante. Il sistema di personalità incorpora una certa porzione di sapere collettivo (cultura) che lo fornisce dei modelli operativi adatti ad inserirsi positivamente nella vita sociale. In condizione di omeostasi, quando i tre sistemi sono coordinati, integrati e funzionali, l’azione in cui si manifesta il comportamento dell’indivi­duo può essere rappresentata dal vettore A + : azione compiuta con successo e attraverso la quale l’individuo assolve al suo ruolo sociale. In questo secondo schema rappresentiamo invece la condizione dei sistemi in contrasto con la situazione dinamica, e cioè integrati, coordinati, ma non funzionali. (Vedi schema 2).
In questo caso l’azione dell’individuo, guidata da modelli anacronistici, va incontro alla con­dizione di scacco X e si riflette negativamente sul sistema di personalità con il vettore A – .
A questo punto la reazione dell’individuo può as­sumere una caratteristica opposta. L’individuo può reagire creando un nuovo modello, proces­so raffigurato dal vettore che muove da 0, si volge verso l’alto e ritorna nella sfera della cul­tura. Questo nuovo modello è in condizione di orientare un nuovo tipo d’azione, guidata da un nuovo tipo di esperienza, che non solo s’in­serisce nel contesto sociale, ma lo trasforma, por­tando più innanzi i confini del sistema (vettore A +).
L’altro genere di reazione, caratterizzata dal rifiuto della sfida posta dalla situazione, si manifesta in un comportamento regredito, di­fensivo a livello inconscio (vettore B). E’ la rea­zione nevrotica, in conseguenza di fattori socio­culturali e di situazione. Lo stesso schema può essere usato per la rappresentazione grafica dei fenomeni di disfunzione del sistema di personalità non dovuti a cause socio-culturali e collet­tive, e cioè alla carenza di modelli adatti alla vita in trasformazione, ma a un difetto di fun­zionamento del sistema di personalità dovuto al processo educativo, o a lesioni o insufficienze organiche. In tal caso non si può avere il vet­tore ascendente da O, che indica l’operazione di invenzione di nuovi modelli, ma solo il vet­tore discendente B, che consegue alla serie di frustrazioni rappresentate dal vettore A -, e che si manifesta nella fenomenologia morbosa. Que­sta fenomenologia ha la stessa apparenza di quella derivante da origini socio-culturali col­lettive. Ed infatti essa è una manifestazione di difesa contro un’unica condizione, che è quella dell’ansietà, che si crea sia in un caso come nel­l’altro. Ma mentre le prime forme non possono trovare soluzione se non attraverso operazioni di rinnovamento culturale (vettore A + ascen­dente), le seconde possono essere curate indivi­dualmente con diverse possibilità di successo. A questo proposito, sia detto per inciso, l’antropologia culturale può fornire talune conoscen­ze circa la funzione di pratiche e rituali propri di gruppi arcaici, che non sono senza valore nell’interpretare certi comportamenti tipici dei ma­lati.
I concetti espressi in forma assai sintetica e sche­matica nelle pagine che precedono ci permet­tono di impostare un discorso più concreto sulla distinzione fra individuo normale e ammalato di mente. L’uomo « sano » di mente è colui il quale si mo­stra capace di adattamento attivo alla situazio­ne in cui vive. Egli è cioè dotato di modelli ade­guati ai suoi problemi, attraverso i quali li rico­nosce, o è in grado di reagire attivamente di fronte all’ignoto creandone di nuovi attraverso i quali dargli un nome, e lo viene così a co­noscere. La sola frustrazione di cui soffre è quel­la normale a tutti, che deriva da due necessarie condizioni della vita umana: la prima è data dal carattere generale e medio dei modelli cul­turali, che non si adattano mai del tutto, come un vestito su misura, a chi li adotta, perché co­stui ha una sua base genetica e una sua storia particolare che lo fa essere un unicum, e l’al­tra è data dalla dinamica della situazione, che crea le sfasature di cui si è detto, fra modelli e problemi, frustrazione questa dalla quale ha vi­ta il pensiero nuovo. Se questa dose normale di frustrazione è una malattia, ebbene allora essa è una malattia veramente connessa con l’esser uomo. Ma è una malattia di cui si guarisce ad ogni istante. E il risultato di questa guarigione è ciò che chiamiamo l’« io », se consideriamo che esso non in altro consiste se non nel felice ri­sultato di un’operazione attraverso la quale con l’ausilio dei modelli cognitivi e operativi di cui è costituito, l’uomo pone sotto controllo la situazione in cui vive, se ne costituisce sog­getto, e ne fa l’oggetto della sua conoscenza e della sua azione efficace. Un sistema di perso­nalità di questo tipo apporta caratteristiche fe­lici all’uomo che ne è il portatore: questi ap­pare sereno, fiducioso, dotato di senso critico in modo costruttivo e di gusto per la vita, è di­sponibile, aperto e facile nello stabilire rappor­ti interpersonali fecondi, accessibile alla critica altrui, dotato di un profondo senso di solida­rietà umana.
II sistema di personalità che rende un uomo incapace di adattamento attivo è ciò che finisce col fare di quell’uomo un malato. In tal caso, e per i più diversi motivi, il sistema si mostra disfunzionale, e finisce, per autodifendersi, col farsi fine a se stesso ed ergersi come uno scher­mo contro la realtà, vietando all’io di manife­starsi nel modo che si è detto sopra. Invece di legare l’uomo al mondo, lo isola, usando tutte le possibili tecniche che sono i sintomi della malattia. L’uomo, anche quando non giunge al vero e proprio stadio morboso, si mo­stra insicuro, indisponibile, egocentrico, auto­ritario, intollerante e incapace di stabilire rap­porti umani fecondi. La vera e propria malat­tia appare con il manifestarsi aperto e chiaro dei sintomi dati dalle difese inconsce.
Si può fare lo stesso discorso per la società? Io non lo ritengo impossibile, ma inutile, perché sarebbe un discorso troppo generale e vago. Si può parlare di società « facili » o « difficili » o « dure » come dicono gli Arsenian in un loro la­voro, società che offrono all’uomo condizioni più o meno favorevoli per un adattamento attivo.
Un’analisi dei motivi di queste diverse condi­zioni è certamente utilissima, purché sia fatta su basi empiriche e su dati concreti, che riveli­no i motivi patogenici che esse contengono. Questo è proprio il compito che spetta agli stu­diosi di scienze sociali e agli antropologi culturali in particolare. Le conclusioni delle loro ricerche potranno anche venire sintetizzate sot­to generiche definizioni come quelle ricordate, ma ciò non porta avanti la ricerca. In genere le società che producono un maggior numero di disadattati sono quelle ad elevato ritmo di tra­sformazione, e ciò accade per lo sforzo* che esse impongono ai singoli per realizzare un adatta­mento attivo alla situazione dinamica. Ma non per questo tali società sono da dire malate, ben­sì rischiose, impegnative, o « dure », per ricor­dare il termine cui si è accennato, ma nelle qua­li vale tuttavia la pena di vivere.
Ha invece più senso forse l’uso del termine di società « malata » per indicare alcune società ri­gide, nelle quali i canali di autotrasformazione si sono bloccati, per la resistenza del sistema ai mutamenti imposti dalla situazione, che si pon­gono come fini a se stesse e sviluppano sul piano collettivo singolari forme di comportamento re­gredito, che riprendono temi propri di società molto arcaiche. I rituali nazisti, ad esempio, e il connesso culto del sangue tedesco, le opera­zioni di aggressività distruttiva proiettata su de­terminati gruppi etnici, sono fenomeni che danno da pensare e sembrano quasi giustificare l’uso del termine malattia. Per quanto riguarda il Terzo Reich, si è trattato di una forma di to­tale disfunzionalità (incoerenza con la situa­zione storica) di un intero sistema socio-cultu­rale, che non per questo ha cessato di essere funzionante, ma lo era in base ad una logica di tipo delirante collettivamente accettata come valida. Questi casi meriterebbero una maggiore attenzione da un punto di vista della ricerca di psicopatologia sociale.
Queste note hanno un taglio particolare, e met­tono in parentesi una gran quantità di elementi di specifico interesse psicologico e psichiatrico. Il quadro delineato del sistema di personalità non accenna ai fattori dell’istinto, tempera­mento, affettività e via dicendo, né alla dina­mica interna di questi elementi. Ma ciò è stato fatto di proposito per offrire ai colleghi stu­diosi uno schema di discussione estremamente semplificato, onde servire come base per possi­bili convergenze, dalle quali il quadro dei pro­blemi possa risultare più chiaro e completo at­traverso un organico lavoro di gruppo. Si è voluto cioè proporre solo un minimo denomi­natore comune concettuale per un discorso interdisciplinare ancora tutto da fare.