lunghissimo applauso al professor Emanuele Severino che ha tenuto la sua lezione magistrale: su “verità e natura umana”. articolo di Chiara Dini

È stato accolto da un lunghissimo applauso l’arrivo del professore Emanuele Severino che ha tenuto oggi pomeriggio la sua lezione magistrale sotto la tensostruttura allestita in piazzale Avanzini per permettere al Festival Filosofia di proseguire nonostante la pioggia; in tantissimi ad ascoltare le sue parole su “verità e natura umana”.
Il professore è andato subito al sodo: “La natura oggi subisce due tipi di violazioni, quella per l’attuale produzione della ricchezza (che porta alla distruzione della terra) e quella che riguarda la violazione delle leggi che regolano la vita dell’uomo. Queste violazioni sono abbastanza recenti, per capire la natura inviolata bisogna fare un passo indietro, ai tempi del mito, alla presenza del pensiero mitico dello smembramento originario del dio e del sacrificio successivo nel quale si cerca di ricostruire la potenza originaria del Dio”. Secondo Severino, l’essere umano è una volontà e vive in quanto organizza il complesso dei fattori per determinare i mondo.
“Noi vogliamo trasformare il mondo – ha continuato – ma il nostro essere volontà sbatte contro qualcosa di inflessibile, che poi si ci renderà conto essere la natura. Noi viviamo perché in un qualche modo flettiamo premendovi contro la barriera dell’inflessibile”. A questo punto l’illustre filosofo, passando attraverso l’origine e l’etimologia delle parole ha affrontato il concetto del bisogno di “rafforzare Dio” perché indebolito dalla creazione del mondo.
“Il sacrificio si presenta come la condotta morale degli uomini rispetto alla legge divina, il Dio si sgretola, ma il rafforzamento è quello delle leggi da lui costituite; il comportamento etico dell’uomo è il rafforzamento della legislazione di Dio sul mondo. C’è quindi la presenza nell’uomo di una ragione capace di comprendere l’ordinamento inflessibile del mondo; è il pensiero filosofico che svela la legislazione divina. La politica, così come viene intesa dalla tradizione occidentale, è l’adeguazione dello stato alla verità della natura, ad un ordine necessario e non più flesso. L’etica è adeguamento della vita dell’individuo alla legislazione universale”. Etica e politica hanno nel linguaggio evangelico un nome preciso: Cesare. Gesù dice “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”. In queste parole è sottointeso che a Cesare (Stato e ragione naturale) non va dato nulla che sia contro il Dio cattolicamente inteso, significa che Cesare deve avere i connotati di quel dio cristiano, ma uno stato cristiano ha una legge solo in quanto la sua violazione implica una sanzione non ultraterrena, ma terrestre.

“Questo quadro dell’episteme è andato distrutto dalla storia per motivi che non vedo ancora adeguatamente discussi dalla cultura tradizionale, da quella cristiana.Se prima si pensava conto che solo lo squartamento di Dio rendeva il mondo possibile (quindi il mondo esisteva perché esisteva Dio), ora ci si rende conto che non è più così. Se esistesse un Dio che avesse riempito tutto con la sua legge non ci sarebbe spazio per la dinamicità del volere, per la dinamicità del mondo. Se si coglie la potenza del sottosuolo del pensiero filosofico del nostro tempo allora bisogna dire che Dio è morto perché è morta la verità assoluta della natura intesa come legislazione inflessibile alla quale ci si deve piegare. E allora di fronte alla volontà dell’uomo cade ogni barriera. La civiltà della tecnica che va profilandosi dopo il periodo di crisi del capitalismo riuscirà a dare all’uomo quella quantità di benessere e di felicità, ma sarà priva dell’assicurazione assoluta che la felicità possa essere duratura. Non è solo da guardare negativamente: significa un passaggio verso un senso radicalmente altro della verità e della natura, portandosi verso una dimensione che va oltre l’anima del pianeta. A questo consiste il compito supremo del pensiero”.

da Standing ovation per Emanuele Severino.

Emanuele Severino, Sul “destino” della verità

Estratto audio dal corso “Fede, volontà, destino” (Università Vita – Salute S.Raffaele di Milano a.a. 2005-2006).Nelle lezioni conclusive del corso Emanuele Severino afferma che ciò di cui il linguaggio parla, quando vuole testimoniare la verità, è “già” manifesto ovunque sia un apparire del mondo. Il “destino” appare ovunque ci sia un ascolto. Ma parlare della verità significa alterarla.

Più specifici, meno divulgativi e trasmessi con un linguaggio più complesso, questi estratti provengono dalle lezioni universitarie di Severino e propongono passi importanti della sua riflessione filosofica.
Questo brano audio è tratto dal corso “Fede, volontà, destino” tenuto da Emanuele Severino nell’anno accademico 2005-2006 al S.Raffaele di Milano. (Ed.Mimesis)

Emanuele Severino, lezione su VERITA’ E NATURA UMANA, Festival della Filosofia, 18 settembre 2011

Audio: 

Emanuele Severino, Verità e natura umana.Mp3

Estratto della parte finale della lezione:

Emanuele Severino, la terra frantumata

quando la legna brucia e appare la cenere …

quando la legna brucia e appare la cenere non appare la legna che diventa cenere

o l’essere cenere da parte della legna,

ma appare prima quell’identico che è la legna,

poi quell’altro identico che è la legna che brucia

e infine quell’altro identico che è la cenere.

L’identità della legna e della cenere non appare,

e non appare nemmeno l’identità come risultato di un processo,

quindi non appare nemmeno questo processo, ossia il divenire

da NICHILISMO, TÉCHNE E POESIA NEL PENSIERO DI EMANUELE SEVERINO.

Emanuele Severino, Fato e libertà, 2010 | Ritiri Filosofici

Il 19 settembre 2010 il sito Ritiri filosofici  ha seguito la lezione magistrale di Emanuele Severino a Carpi su Fato e Libertà, nell’ambito del Festival della Filosofia 2010 e ne ha curato la trascrizione integrale, che potete leggere andando alla seguente pagina::

Emanuele Severino, Verità e natura umana, 2011, Festival Filosofia

Domenica 18 Settembre 2011

Sassuolo, ore 15.00

Verità e natura umana

Festival Filosofia – Verità e natura umana.

Emanuele Severino, RAGIONE, FEDE, VERITA’ (1h 09′) [“Abitatori del tempo” 2008, a cura di R. Lissoni], rintracciato in Filosofia.it

Emanuele Severino
“Ragione, fede, verità”
 (1h 09′)
[“Abitatori del tempo” 2008, a cura di R. Lissoni]

Acqua e Filosofia – L’acqua e il principio, Lectio Magistralis di Emanuele Severino, al Festival dell’acqua, Genova 2011

Genova, mercoledì 7 settembre 2011

ore 18,15 – Facoltà di Architettura
Acqua e Filosofia – L’acqua e il principio

Lectio Magistralis di Emanuele Severino (filosofo ed editorialista)

Festival dell’acqua e Notte bianca, Genova 2011: il programma da Mentelocale.it | Genius Loci, lo spirito del luogo.

Emanuele Severino su IL LAMPO E IL TUONO

Emanuele Severino, sul volere

Emanuele Severino, intervista di Corrado Benigni sull’autobiografia Il mio ricordo degli eterni, in il Riformista 3 agosto 2011, da Pagina 3 di Radio3

Emanuele Severino su Parmenide

Parmenide
1. Professor Severino, quali possono essere  i motivi che ci spingono oggi a interessarci della filosofia greca e in particolare di un filosofo come Parmenide?         

vai alla intervista 

INTERVISTE FILOSOFICHE.

Emanuele Severino, Ontologia: riflessione sul senso dell’essere e del niente

 

“Ontologia”, questo termine così tecnico, vuol dire riflessione sul senso dell’essere e del niente. Queste due parole, “essere” e “niente”, sembrano estranee al linguaggio nostro di tutti i giorni, ai nostri interessi, all’articolazione concreta del sapere scientifico; eppure queste due categorie costituiscono l’ambito all’interno del quale tutta la storia dell’Occidente è cresciuta, e si tratta anche di comprendere che queste categorie sorgono per la prima volta con i Greci. Questo è importante perché i Greci non solo portano alla luce una teoria, cioè una comprensione del mondo che non era mai apparsa, ma anche una comprensione del mondo che consente di porsi come la prima grande forma di rimedio contro il dolore. Quindi, secondo al mia opinione è errato insistere e considerare il pensiero greco, sin dalle sue origini, come una mera elaborazione teorica che non abbia il compito di prendere posizione rispetto a ciò che vi è di più angosciante nell’esistenza, e cioè il dolore. Io credo che la nostra riflessione potrebbe procedere cercando di vedere quali sono i rapporti tra le categorie dell’ontologia greca e il dolore dell’esistenza

da INTERVISTE FILOSOFICHE.

Emanuele Severino: il diventar altro e il lampo e il tuono

Gabriele De Ritis su “Noelle, i cigni e il cerchio dell’apparire”

qui il mio audio, da cui è partito Gabriele per il suo bellissimo messaggio:

Non una figura incappucciata 

dove la scala curva nell’oscurità
rattrappita sotto un mantello fluttuante!
Non occhi gialli nella stanza di notte,
che fissano da una superficie di ragnatela grigia!
E non il battito d’ala di un condor,
quando il ruggito della vita inizia
come un suono mai udito prima!
Ma in un pomeriggio di sole,
in una strada di campagna,
dove erbacce viola fioriscono
lungo una staccionata sconnessa,
e il campo è stato spigolato, e l’aria è ferma,
vedere contro la luce del sole qualcosa di nero,
come una macchia con un bordo iridescente –
questo è il segnale per occhi di seconda vista…
e io vidi quello.

EDGAR LEE MASTERS

Occorre esercizio di vera umiltà per riuscire a cogliere l’evidenza che si mostra lungo il nastro discontinuo degli eventi.

L’umile splendore della vita quotidiana è tutto nel suo apparire, e se il suo scomparire ci induce nella tentazione di far precipitare nel nulla la sua effimera bellezza per la nostra pretesa di assoluto, ‘dimenticare’ quella bellezza per l’incapacità di salvarne la necessaria caducità è proprio l’errore che commettiamo noi, gli umani.

Angustia della mente, apatia dei sensi, aridità del cuore, malinconia d’amore, fascino della dissolvenza cos’altro sono se non questa nostra incapacità di aprirci a nuove evidenze?

Se non impareremo a ringraziare per le piccole cose, come potremo affidarci ancora ad esse quando si sottrarranno alla vista, rendendoci scemi di memoria, se non avremo appreso il bene ricevuto?

L’arte più difficile è riuscire a tenere insieme presenza e assenza, a partire dalla capacità di cogliere nella mera presenza un modo di darsi della cosa che troverà compiutamente il suo senso nel successivo ritrarsi, nel suo modo di scomparire.

Ogni cosa è veramente illuminata dalla luce del passato, dei ricordi, della memoria.

Se lasceremo precipitare nella dimenticanza l’apparizione di Noelle e della famiglia di cigni sul lago, che ne sarà di noi e dei nostri giorni? Riusciremo a comprendere perché il sole continua a sorgere per noi e perché le creature ci sorridono ancora, per il loro semplice apparire, se non sapremo andare oltre questo loro apparire, che non è mai semplice, perché ogni volta di nuovo si richiederà piuttosto la semplicità dello sguardo, il nitore di uno sguardo che salva le apparenze comprendendole tutte nel cerchio del loro apparire?

Fino a quando continueremo a sognare la «terra senza il male» non onoreremo la vita che è tutta buona e santa, a dispetto del fulmine e del tuono e di tutto ciò che si abbatte sulle nostre povere dimore, alla maniera di Eros, l’immensurabile, che mette scompiglio nel nostro cuore, impedendoci di vedere il lago e i cigni e Noelle e tutto il resto.

Gabriele

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……. Avvengono Miracoli,
se siamo disposti a chiamare miracoli
quegli spasmodici trucchi di radianza.
L’attesa è ricominciata
La lunga attesa dell’angelo.
Di quella sua rara, rarefatta discesa.

Silvia Plath – da “La cornacchia nel tempo piovoso”

L’apparire del mondo: dialogo con Emanuele Severino, di Leonardo Messinese … – Google Libri

vai a: L’apparire del mondo: dialogo con … – Google Libri.

‪Emanuele Severino: A vuole B. Si può voler qualcosa solo in quanto il senso del qualcosa che è voluto ci appare davanti ‬‏

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Diotima423  così riassume  il ragionamento condotto da Severino:
1) La manifestazione dei significati (di ciò che ci appare) determina l’ambito in cui si creano le azioni umane destinate a perseguire quel risultato. Quel certo significato determina, guida, configura l’ambito in cui si agisce e dà senso a tutte le azioni umane prodotte in relazione a quel significato. Per es., il falegname per trattare il legno deve sapere che tratta il legno e non il ferro, e tiene anche conto di che tipo di legno sta trattando, compirà dunque azioni pertinenti al risultato CON quel tipo di legno. L’apparire del senso determina l’ambito dell’azione.
2) Quanto più ampio è il senso tanto più ampio è il campo dell’agire che è determinato da quel senso.
3) Qual è dunque il significato più ampio? Rispetto a cui tutti gli altri significati sono sotto insiemi, quello il cui significato guida OGNI azione, ogni agire immaginabile? Quello in base al quale SIAMO ed AGIAMO? Il senso dell’esser COSA. Il tavolo, la sedia, ma anche Dio. Una qualsiasi COSA. Un CHE, una parola ha significati diversi a seconda delle lingue in cui si esprime a seconda del periodo storico.
4) I greci portano alla luce un senso dell’esser cosa in cui la cosa è qualcosa che provvisoriamente si salva dal nulla

Intervista a Emanuele Severino. 
L’ossimoro del capitalismo ecologista, Il manifesto, 3 luglio 2011



«Simone Weil diceva che nel socialismo gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologica. Si tratta di capire perché è un’illusione» Emanuele Severino: «Tecnologia e ideologie all’ultimo round di uno sviluppo insostenibile»Con il professor Emanuele Severino affrontiamo l’analisi sulla crescita produttiva, l’obiettivo più tenacemente auspicato e perseguito da economisti, imprenditori, governi, politici di ogni colore, e di conseguenza da tutti invocato anche nel discorrere più feriale.

«Questo continuo parlare della crescita come di cosa ovvia è in buona parte dovuto all’ignoranza. Sono decenni che si va intravvedendo l’equazione tra crescita economica e distruzione della terra. Comunque, è tutt’altro che condivisibile l’auspicio di una crescita indefinita.»

Professore, sta dicendo che l’economia è una scienza consapevole delle conseguenze negative della crescita?

«Ha incominciato a diventarne consapevole: l’auspicio di una crescita indefinita va ridimensionandosi. Anche nel mondo dell’intrapresa capitalistica – la forma ormai pressocchè planetaria di produzione della ricchezza – ci si va rendendo conto del pericolo di una crescita illimitata; (anche se poi si fa ben poco per controllarla). Vent’anni fa, quando lei scrisse quel suo bel libro che interpellava numerosi economisti a proposito del problema dell’ambiente, la maggior parte degli intervistati affermava che quello del rapporto tra produzione economica ed ecologia era un falso problema. Oggi non pochi economisti sono molto più cauti e anche le dichiarazioni dei politici sono diverse da venti o trent’anni.»

Però non fanno che invocare crescita, senza nemmeno nominarne i rischi.

«In periodo di crisi economica, di fronte al pericolo immediato di una recessione, è naturale che si insista sulla necessità della crescita. Purtroppo però lo si fa riducendo il problema alle sue dimensioni tattiche, ignorandone la dimensione strategica.»

E intanto si verificano tremendi disastri. Dal Golfo del Messico a Fukushima.

«Certo. Ma vorrei precisare che prendere atto della gravità di fenomeni come questi significa capire che essi non sono dovuti alla tecnica in quanto tale, non sono disfatte della tecno-scienza, ma dell’organizzazione ideologica della scienza e della tecnica. Sono disfatte, cioè, del capitalismo (fermo restando che l’economia pianificata di tipo sovietico era ancora più dannosa per l’ambiente).»

La mia impressione però è che quanti insistono a invocare crescita, continuino a ignorare che tutto quanto vediamo, tocchiamo, usiamo, è «fatto» di natura; e che dunque disponiamo di materia prima in quantità date, e non dilatabili a richiesta. I grandi industriali che si confrontano a Davos, Cernobbio, spesso neanche citano il problema.

«Ma è un atteggiamento normale dell’uomo quello di preoccuparsi soprattutto dei problemi immediati, lasciando sullo sfondo quelli che non sembrano urgenti, ma che spesso sono quelli decisivi. Quando la barca fa acqua la prima preoccupazione è tappare la falla, poi si pensa a dove approdare. Certo, ci sono quelli che stando nella barca non pensano mai a trovare il porto, e quindi, nel complesso diventa inutile tappare le falle. »

Il problema esiste da decenni… Il deperimento dell’equilibrio ecologico è stato clamorosamente denunciato dagli anni ’50, ma nelle scelte politiche è stato completamente ignorato.

«Ecco, forse su quel “completamente” si può non essere d’accordo. Penso ad esempio a Clinton, consigliato da Al Gore: nel suo primo discorso da presidente ha parlato agli Americani della necessità e convenienza di una crescita economica sostenibile… Una dichiarazione di intenti che in qualche modo anche Obama ha fatto propria.»

Anche celebri economisti (Stiglitz, Krugman, Fitoussi…) riconoscono la gravità della situazione ambientale, ma non accennano a soluzioni che mettano in discussione il capitalismo

«È proprio questa la situazione. Ma occorre anche dire che oggi, in un mondo conflittuale, dove nessuno intende rinunciare al potere, una politica economica meno «produttivistica» significherebbe mettersi dalla parte dei perdenti, indebolirsi anche sul piano militare, essere condizionati da Paesi come l’Iran o la Cina. E sembra difficile anche rinunciare alla base economica richiesta dall’armamento nucleare. Oggi infatti, a differenza di quanto spesso si continua a credere, la potenza nucleare appare decisiva anche nella lotta contro il terrorismo. È un problema enorme, che si tende a non affrontare nemmeno là dove si è consapevoli che la crescita incontrollata distrugge la terra. Per arrivare a un impegno adeguato per la soluzione di tale problema dovranno accadere disastri giganteschi.»

Mi domando però fino a quando questa realtà potrà reggere, di fronte a una natura devastata da un agire economico fondato su una crescita produttiva che non prevede limiti.

«È da guardare con diffidenza – ma non voglio sembrare cinico – l’intellettuale che dice alle grandi potenze mondiali: «Dovreste mettervi in discussione». Le grandi potenze non cambiano le loro scelte perché gli intellettuali dicono qualcosa che va contro i loro interessi. Ce la vede lei una Cina che rinuncia a una politica economica vincente, e al proprio tete-à-tete attuale con Stati Uniti, Russia, Europa, per rispetto dell’ambiente? E ormai anche in Europa la vita va avanti alimentata dalle centrali nucleari. E continueranno ad andare avanti così. Non basta quello che sta succedendo: solo un disastro di proporzioni senza precedenti, dicevo, potrebbe convincere l’ordinamento capitalistico a cambiar strada in modo radicale.»

Inevitabilmente? In base alla natura umana? Alla storia?

«In base alla priorità che per lo più vien data ai problemi immediati. Ma c’è un’altra inevitabilità, ancora più perentoria: quella del tramonto del capitalismo. Diciamolo in quattro parole. Un’azione è definita dal proprio scopo. Anche l’agire capitalistico è quindi definito dal suo scopo, cioè dall’incremento indefinito del profitto privato. Quando il capitalismo, di fronte a grandi disastri planetari dovuti al suo agire, assumerà come scopo non più l’incremento del profitto ma la salvaguardia della terra, allora non sarà più capitalismo. Inevitabilmente: o il capitalismo volendo avere come scopo il profitto distrugge la terra, la propria “base naturale”, e quindi sé stesso, oppure assume come scopo la salvaguardia della terra, e allora anche in questo caso distrugge egualmente sé stesso. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.»

Lei è uno dei pochissimi che fanno previsioni del genere. Le stesse sinistre – quel poco che ne rimane – sembrano aver definitivamente rinunciato all’idea di superare il capitalismo. In fatto di ambiente non hanno alcuna politica propria, anche se gli spetterebbe, perché in fondo a pagare le conseguenze dello sconquasso ecologico sono soprattutto le classi più deboli.

«Quando parlo di declino del capitalismo, parlo infatti di qualcosa che presuppone anche il declino del marxismo, dell’umanesimo marxista, dell’umanesimo di sinistra. Non è che la sinistra sia in una posizione avvantaggiata rispetto al capitalismo. Ma il discorso va completato. Sia il capitalismo, sia il marxismo e le sinistre mondiali – ma anche i totalitarismi e le teocrazie, e la democrazia, e anche le religioni e ogni “visione del mondo” e “ideologia” – si sono illusi e si illudono tutt’ora di servirsi della tecnica. Ma che cosa vuol dire questo? Che la tecnica è il mezzo con cui tutte quelle forze intendono realizzare i propri scopi (per esempio la società giusta, senza classi, oppure l’incremento del profitto privato, oppure l’eguaglianza democratica). Anche la sinistra è cioè sullo stesso piano del capitalismo per quanto riguarda il rapporto con la forza emergente della modernità, cioè la tecno-scienza. Simon Weil diceva che il socialismo è quel reggimento politico in cui gli individui sono in grado di controllare la macchina tecnologico-statale-militare-burocratico-finanziaria: l’«individuo» – come il «capitalista» – si illude di poter controllare l’apparato tecnologico. Si tratta di capire perché è un’illusione. »

Una prospettiva che dovrebbe poter contenere tutti i possibili…

«Invece andiamo verso un tempo in cui il mezzo tecnico, essendo diventato la condizione della sopravvivenza dell’uomo – ed essendo anche la condizione perché la Terra possa esser salvata dagli effetti distruttivi della gestione economica della produzione – è destinato a diventare la dimensione che va sommamente e primariamente tutelata; e tutelata nei confronti di tutte le forze che vogliono servirsene. Sommamente tutelata, non usata per realizzare i diversi scopi «ideologici», per quanto grandi e importanti siano per chi li persegue. Ciò significa che la tecnica è destinata a diventare, da mezzo, scopo. Quando questo avviene, capitalismo, sinistra mondiale, democrazia, religione, ogni «ideologia» e «visione del mondo», ogni movimento e processo sociale, diventano qualcosa di subordinato; diventano essi un mezzo per realizzare quella somma tutela della potenza tecnica, che è insieme l’incremento indefinito di tale potenza.. Perciò spesso dico che la politica vincente, la «grande politica», sarà delle forze che capiranno che non ci si può più servire della tecnica. La grande politica è la crisi della politica che vuole servirsi della tecnica. Non si tratta di un processo di «deumanizzazione», o «alienazione», come invece spesso si ripete, dove l’uomo diventerebbe uno «schiavo» della tecnica; perché in tutta la cultura – anche in quella che alimenta ogni più convinto umanesimo – l’uomo è sempre stato inteso come essere tecnico. Le sto descrivendo il futuro: non prossimo, ma neanche remoto. In questo senso appunto parlo da decenni di inevitabilità del tramonto del capitalismo.»

Mi permetta un’obiezione. Già oggi la tecnica sembra imporsi come scopo. Dando prove quanto meno discutibili.

«No, perché come dicevo prima, ciò che dà cattiva prova di sé è la gestione ideologica della tecnica è il modo, ad esempio, in cui in Giappone sono state organizzate le centrali nucleari. E lì non c’entra la tecnoscienza, ma la gestione capitalistica di essa, che per il profitto ha sottovalutato la pericolosità di quel tipo di centrali. Debbo però aggiungere che la tecnica destinata al dominio non è la tecnica tecnicisticamente o scientisticamente intesa, ma quella che riesce a sentire la forza della voce essenziale della filosofia del nostro tempo, la quale dice che non possono esistere limiti assoluti all’agire dell’uomo).
E resta il fatto che molti istituti scientifici, anche di largo prestigio, vivono in quanto finanziati da grandi potentati economici… E questo in qualche misura significa condizionarli…»

«Certo, questa è la situazione attuale. Ma la tendenza globale è un’altra. Condizionarli significa indebolirli. È quindi inevitabile che, a un certo momento, chi condiziona si renda conto di non poter più continuare a farlo, perché, alla fine, condizionare (e quindi subordinare e pertanto indebolire) la tecnica per promuovere sé stessi significa indebolire se stessi…»

Si diceva che le sinistre – a parte l’impegno per la difesa del lavoro – non dicono, né propongono cose gran che diverse dalla destra. Il marxismo un tempo aveva uno sguardo ben più ampio. Dopotutto non a caso l’inno dei lavoratori era l’Internazionale. Tentare di guardare un po’ più lontano, cercare di allargare lo stesso discorso sul lavoro, non potrebbe portare a una proposta alternativa?

«Questo allargamento va imponendosi da solo. Infatti non si può separare il lavoro dalla tecnica (ma dal capitalismo sì, come dal marxismo). Un po’ da tutte le parti politiche oggi si sente dire a proposito dei problemi più importanti: “Non è questione né di destra né di sinistra, è una questione tecnica”. È un piccolo indizio del processo in cui le soluzioni tecniche prevalgono su quelle politiche e “ideologiche”».

Mi riesce difficile seguirla, la tecnica viene solitamente vista come uno strumento usato dal capitalismo.

«Questo è lo stato attuale che il mondo capitalistico vorrebbe perpetuare. Ma la tecnica non è il capitalismo. Il servo non è il padrone. Ed è già accaduto che i servi si liberassero dei padroni. La liberazione decisiva, rispetto alla quale si è ancora ciechi, è la liberazione della tecnica dal capitale.»

In definitiva Lei vede il capitalismo sopraffatto dalla tecnica…

«Sì. O meglio: è la logica del discorso a vederla.»

È insomma l’intero sistema produttivo che di fatto agisce contro la salvezza dell’umanità… Non crede che in tutto ciò esista qualche responsabilità anche da parte delle sinistre? Dopotutto erano nate per combattere il capitale, no?

«Ma il discorso che vado facendo da molto tempo indica qualcosa che sta al di sopra delle esortazioni, delle mobilitazioni, dei progetti, della volontà politica. Riguarda un movimento che procede per conto proprio, guidando e animando la volontà, così come, si sa, la struttura del capitale domina e anima la volontà dei singoli capitalisti. Marx diceva appunto che i capitalisti sono le prime vittime del capitale. Ecco, si tratta di capire il modo in cui la tecnica prende il posto del capitale.»

Lei si riferisce a un movimento, o una tendenza, in qualche modo, come dire…, operante e avvertibile? Oppure si tratta per ora soltanto di un’ipotesi filosofica?

«È una tendenza che è operante e avvertibile proprio nel modo adeguato (e dunque non «soltanto» ipotetico) di fare filosofia. Per essenza la filosofia si riferisce all’autenticamente operante e avvertibile.»

Sono tante ormai le persone che si preoccupano per il futuro di un mondo per mille versi sempre più problematico e rischioso… Per lo più si tratta di giovani, consapevoli e impegnati… A tutti costoro che cosa si sentirebbe di consigliare?

«Per ora siamo gettati nell’errore; ma proprio per questo c’è molto da fare. C’è da favorire il processo che porta l’errore a maturazione. Per questo parlavo prima della “grande politica”. Per praticarla è necessario incominciare a guardare in faccia il senso essenziale della storia dell’Occidente, il senso cioè della volontà di potenza: il senso del fare».

la Chiesa corre il rischio – ma è più di un rischio – di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni “presupposto”».

lei sul «Corriere» replicò al cardinale che aveva proposto di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità»…
«È una considerazione diffusa, nel mondo cattolico. Scola diceva di non condividere la persuasione di Habermas, secondo il quale “una democrazia costituzionale, per giustificarsi, non ha bisogno di un presupposto etico o religioso”. Per Scola invece ne ha bisogno. Né lui né Habermas, però, approfondivano la radice di quella persuasione. Ma proprio questo è il punto da discutere. Così io obiettavo che, impostando il problema del laicismo in quel modo, prendendosela al solito con il “relativismo”, la Chiesa corre il rischio – ma è più di un rischio – di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni “presupposto”».

Scola e la Chiesa non vedono l’autentico pensiero contemporaneo?

«Se è per questo non lo vede neanche il mondo laico, che continua a presentarsi in modo debole, erede com’è di una fortuna che ignora di possedere. Bisogna saper guardare il sottosuolo del pensiero contemporaneo, oltre la superficie. È come quando, nel Simposio di Platone, si dice che Socrate è un sileno: fuori è bruttissimo, è vero, però dentro è Socrate! Il sottosuolo del pensiero contemporaneo – che peraltro non dice affatto l’ultima parola, bisogna andare ben oltre – è una potenza che non viene non dico riconosciuta, ma nemmeno intravista».

Severino: «È stato mio allievo Da laico gli ho dato 30 e lode» – Milano.

Emanuele Severino: de-stino indica lo stare assolutamente incondizionato

La parola de-stino indica lo stare: lo stare assolutamente incondizionato.

Il destino è l’apparire di ciò che non può essere in alcun modo negato, rimosso, abbattuto, ossia l’apparire della verità incontrovertibile.

… Al di là di ciò che crede di essere, l’uomo è l’apparire del destino.

in Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli, 2011, p.46/47

Emanuele Severino: il comandamento “ricordati di santificare le FESTE”

 

Emanuele Severino al Festival Filosofia – Modena Carpi Sassuolo

Emanuele Severino, Dolore e contraddizione

Le persone si stanno sempre più rendendo conto che per sopravvivere è necessario conoscere il senso del tempo e il senso del luogo in cui ci troviamo.

Il nostro essere qui dice che un popolo per sopravvivere deve conoscere il significato fondamentale del proprio tempo. E lo deve conoscere per salvarsi, per porre rimedio al pericolo della vita.

La vita è pericolosa perché è dolorosa

….

Emanuele Severino: Natura e fede secondo Malick: il film come una tragedia greca

Dice Leopardi che, nelle «opere di genio», «l’ anima riceve vita, se non altro passeggiera, dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua della cose e sua propria» (Zibaldone, 261). Una vita illusoria, ma che, sia pure per poco, rende possibile la sopravvivenza dell’ uomo. Un tema centrale, questo, del pensatore-poeta che ha aperto la strada all’ intera cultura del nostro tempo. La prima «opera di genio» è quella dei popoli più antichi: la festa, che è l’ immagine della vita e dunque della morte. L’ immagine si libra al disopra del mondo: gli uomini festivi si identificano ad essa e si sentono quindi salvi dalla morte. Più tardi la festa arcaica si dissolve e le sue membra diventano religione, tecnica profana, arte. Oggi la festa si celebra soprattutto in quelle sue deformanti e impallidite derivazioni che sono le folle delle partite sportive, della musica rock, delle visite dei pontefici romani e, in minor misura, del cinema. Si dice che nei precedenti film di Terrence Malick emerga l’ indifferenza della natura rispetto alle vicende umane: al loro orrore come ai pochi momenti di felicità. Ancora più crudele la natura, nei film di questo regista, quando il massacro è circondato dalla struggente bellezza della terra, di cieli all’ alba e al tramonto, di fiumi, di mari. Se si uccidono dinanzi a una natura che mostra a sua volta il proprio volto terribile, gli uomini possono sentire che in qualche modo essa partecipa ai loro tormenti. In ogni caso, non li rende sopportabili. Ma questa interpretazione va nella direzione sbagliata. Per lo meno è unilaterale. Certo, il timore è l’ inseparabile compagno dell’ uomo. Il dolore e la morte ne sono la radice. Ma, per quanto vissuta nei suoi derivati, la festa non ha cessato di illudere gli uomini. In questa direzione va detto che nei film di Malick la bellezza della natura non è l’ indifferenza, incapace di rendere sopportabile il dolore, ma è la forza con cui l’ immagine festiva, facendo sentire la morte, dà vita all’ «anima»

….

leggi tull’ l’articolo qui: Natura e fede secondo Malick: il film come una tragedia greca.

Emanuele Severino, la radice di ogni potenza consiste nel credere che le cose non siano eterne

Emanuele Severino • Noi siamo eterni e mortali perché l’eterno entra ed esce dall’apparire

Emanuele Severino • Noi siamo eterni e mortali perché l’eterno entra ed esce dall’apparire.

CARLO TULLIO-ALTAN: Epos; Ethos; Logos ; Genos; Topos

Carlo Tullio-Altan, professore ordinario di antropologia culturale dell`Università di Trieste, intervistato sul tema dell’identità etnica, sottolinea la componente simbolica, a suo parere non sempre adeguatamente tenuta presente dagli storici, che fonda il senso di appartenenza ad un popolo. Tullio-Altan approfondisce il concetto di “motore mitico” usato dallo storico e sociologo Anthony Smith per designare il nucleo di valori simbolici che definiscono il senso di partecipazione dei singoli alla comunità, e ne distingue le componenti essenziali in

 epos (la memoria storica), 

ethos (le norme consuetudinarie e istituzioni trasfigurate in valori), 

logos (il linguaggio comune), 

genos (il senso di appartenenza a una discendenza ancestrale, a un ceppo comune),

 topos (il territorio comune)

Emanuele Severino presenta: IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI. Autobiografia, a CheTempoCheFa, 22 maggio 2011, AUDIO

… ogni istante è impossibile che divenga nulla e vada nel nulla …
… soltanto se qualcosa è eterno può essere ricordato …
… ogni istante è … … la parola “eterno” sta a significare “essere senza diventare nulla” …

… ognuno di noi è un firmamento stellato …. la parola firmamento rimanda alla “fermezza” del firmamento stellato …

da: Emanuele Severino presenta: IL MIO RICORDO DEGLI ETERNI. Autobiografia, a CheTempoCheFa, 22 maggio 2011 | Politica dei servizi sociali: ricerche in rete.

Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa

Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa
Autori e curatori: Riccardo Bernardini
Contributi: Maurizio Gasseau, Hans Thomas Hakl, S.A.R. Irene dei Paesi Bassi Principessa di Orange-Nassau e di Lippe-Biesterfeld, Fabio Merlini, Gian Piero Quaglino
Collana: Psicoterapie
Argomenti: Psicopatologie e tecniche per l’intervento clinico – Psicologia analitica
Livello: Testi per psicologi clinici, psicoterapeuti
Dati: pp. 464,     1a edizione  2011  (Cod.1250.168)
Jung a Eranos. Il progetto della psicologia complessa
Tipologia: Edizione a stampa 
Prezzo: € 44,00
Disponibilità: Buona
Codice ISBN 13: 9788856834499 
Tipologia: E-book 
Prezzo: € 35,00
Possibilità di stampa:  No 
Possibilità di copia:  No 
Possibilità di annotazione:  Si 
Portabilità:  Si 
Ottimizzazione:  per PC, Mac, NoteBook, NetBook
Codice ISBN 13: 9788856850123 
Formato: PDF per Digital Editions
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In breve Il libro, di impostazione storiografica e basato su documentazione finora inedita, ricostruisce la formazione e gli sviluppi del pensiero junghiano partendo dai Colloqui di Eranos, la straordinaria sequenza di convegni interdisciplinari, inaugurata nel 1933, in cui Jung delineò più chiaramente l’idea di psicologia complessa.
 
Presentazione
del volume:
Eranos, la straordinaria sequenza di convegni interdisciplinari inaugurata nel 1933, Jung delineò più chiaramente l’idea di psicologia complessa: si trattava, ancor prima che di una scuola di psicoterapia, del disegno di una vera e propria psicologia generale, con cui le altre scienze – dalla storia delle religioni alla filosofia, dalla teologia all’antropologia, dalla storia dell’arte alle scienze naturali – avrebbero potuto dialogare. Il fatto che, nel pensiero contemporaneo, l’espressione psicologia analitica sia sempre stata privilegiata rispetto a quella di psicologia complessa sembra suggerire che l’insegnamento attuale appanni, in qualche modo, un aspetto di ciò che Jung intendeva realizzare e che, viceversa, era centrale nel programma di Eranos: un ambizioso, irripetuto e, per molti aspetti, ancora attuale modello di studio comparato dell’anima umana, a cui sarà necessario ritornare e da cui sarà forse possibile ripartire per ogni futuro serio tentativo di dialogo interdisciplinare.
Il libro, di impostazione storiografica e basato su documentazione fino a questo momento inedita, ricostruisce la partecipazione di Jung a Eranos proprio alla luce del progetto di psicologia complessa. Nel primo capitolo, in particolare, vengono esplorati i territori del contributo teorico di Jung a Eranos. Nel secondo capitolo è ripercorso l’itinerario intellettuale junghiano lungo un ventennio di conferenze. Nel terzo capitolo, infine, vengono ritrovate le tracce delle pionieristiche iniziative promosse da Jung a lato dei convegni, rilette come altrettanti passaggi fondativi della psicologia complessa.

Riccardo Bernardini è professore a contratto di Psicologia analitica e di Psicologia della formazione presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino. Tra le sue pubblicazioni, Carl Gustav Jung a Eranos 1933-1952 (con G.P. Quaglino e A. Romano, 2007), The Spirit of Eranos (con J. van Praag, 2007) e Il sogno. Dalla psicologia analitica allo psicodramma junghiano (curato con M. Gasseau, 2009). È collaboratore scientifico della Fondazione Eranos, per cui è co-curatore della collana Eranos Yearbooks, e di Vivenzia, la scuola di formazione di sé fondata da Gian Piero Quaglino e Claudia Piccardo.

Indice
Fabio Merlini, Gian Piero Quaglino, Maurizio Gasseau, Hans Thomas Hakl, Prefazioni
Ringraziamenti
Indice delle abbreviazioni
Territori. Il contributo junghiano a Eranos
(La parola eranos; Eranos come fenomeno storico-culturale; L’idea di psicologia complessa; La collaborazione di Jung con Eranos; Il rapporto tra Jung e Olga Fröbe-Kapteyn; Jung e l’ermeneutica di Eranos)
Itinerario. Le conferenze di Jung a Eranos
(Empiria del processo d’individuazione, 1933; Gli archetipi dell’inconscio collettivo, 1934; Simboli onirici del processo d’individuazione, 1935; Le rappresentazioni di liberazione in alchimia, 1936; Le ‘Visioni’ di Zosimo, 1937; L’aspetto psicologico della Grande Madre, 1938; Psicologia del rinascere, 1939; Sulla psicologia dell’idea della Trinità, 1940; Il simbolo della trasformazione nella massa, 1941; Lo spirito Mercurio, 1942; Il ‘Codex Palatinus Latinus 1993’ di Opicino de Canistris, 1943; 1944; Sulla psicologia dello spirito, 1945; Lo spirito della psicologia, 1946; 1947; La totalità dell’uomo, 1948; 1949; 1950; Sulla sincronicità, 1951; 1952)
Tracce. Jung e l’Archivio di Eranos
(L’interesse di Olga Fröbe-Kapteyn per il simbolismo; La nascita dell’Archivio di Eranos; Le esposizioni dell’Archivio di Eranos; La ‘prima’ Bollingen Foundation e l’Archivio di Eranos; I sospetti di spionaggio; La ‘seconda’ Bollingen Foundation e l’Archivio di Eranos; L’Istituto di Eranos per la ricerca sul simbolismo; La cessione dell’Archivio di Eranos)
Conclusione
S.A.R. Irene dei Paesi Bassi, Postfazione
Bibliografia
Indice dei nomi.

EMANUELE SEVERINO: PARMENIDE. AFORISMI

Vai a: EMANUELE SEVERINO: PARMENIDE. AFORISMI.

LA CASA ERA SILENZIO, di Stevens Wallace, Lettura di Domenico Pelini

Ascolta la lettura di Domenico Pelini: 

La casa era silenzio e il mondo era calma

LA CASA ERA SILENZIO, di Stevens Wallace

La casa era silenzio e il mondo era calma
Il lettore divenne il libro; e la notte estiva

Era il sentire del libro
La casa era silenzio e il mondo era calma

Le parole furono dette come se il libro non ci fosse
Se non che il lettore era chino sulla pagina,

Voleva stare chino, voleva molto tanto essere
Lo studioso a cui il suo libro dice il vero, a cui

La notte estiva è come una perfezione del pensiero.
La casa era silenzio perchè così doveva essere.

Il silenzio era parte del senso, parte della mente:
Il passaggio che conduce la perfezione alla pagina.

E il mondo era calmo. La verità in un mondo calmo.
In cui non c’è altro senso,essa stessa

E’ calma, essa stessa è estate e notte, essa stessa
E’ il lettore che a tarda ora chino legge.

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PS L’audio è tratto da: http://www.youtube.com/watch?v=y08EWMVM5l4

Emanuele Severino, Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, Rizzoli, 2011. Con la sua dedica: “al prof. Paolo con amicizia”

rico et1736rico et1737Emanuele Severino, Il Mio ricordo degli eterni, Rizzoli

“RICORDARE È ERRARE.
UN LIBRO DI MEMORIE È UN ERRARE.”

Dalla filosofia alla musica, dalle battaglie contro i dogmatismi agli affetti più cari: le avventure di vita e di pensiero di uno dei maggiori filosofi italiani del nostro tempo.

Un bambino di appena quattro anni nascosto sotto il tavolo di una grande cucina, nell’attesa degli eventi che diventeranno poi la sua vita. È questa la prima immagine che appare a Emanuele Severino quando, errando tra i ricordi, riavvolge i fili della propria esistenza. Errando, appunto, perché il ricordo è di per sé falso e distratto.
Tra aneddoti e suggestioni, riaffiorano l’infanzia a Brescia e gli anni della guerra; la scomparsa prematura di suo fratello Giuseppe, arruolatosi come “volontario” sul fronte francese, e l’incontro con Esterina, “la ragazza più bella di Brescia”, che sarebbe diventata sua moglie e che è lo sfondo di queste pagine; gli studi universitari a Pavia e l’insegnamento alla Cattolica di Milano, a seguito del “maestro” Gustavo Bontadini; la controversia con la Chiesa, che nel 1970 proclamò l’insanabilità delle posizioni del filosofo con quelle della dottrina cattolica, e l’evoluzione del suo pensiero; il rapporto con i figli Anna e Federico e quello con i suoi allievi; la stesura delle sue opere e le conversazioni filosofi che con gli amici, come il sindaco di Brescia Bruno Boni, la cui ultima volontà fu di avere nella bara una copia di Essenza del nichilismo.
E i viaggi, quasi tutti con Esterina: in giro per l’Italia e per il mondo; il primo da sposati, nel ’51, in una Germania ancora distrutta, o l’ultimo, nel 2009, nell’Avana di Fidel Castro.
Il mio ricordo degli eterni è lo sguardo dell’autore che per la prima volta si posa, delicato e ironico, su frammenti della sua vita, illuminando via via luoghi, volti ed esperienze, perché “ciò che se ne va scompare per un poco. Ma poi, tutto ciò che è scomparso riappare”.

Emanuele Severino

EMANUELE SEVERINO, accademico dei Lincei, professore emerito dell’Università Ca’ Foscari di Venezia insegna tuttora all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. È autore di opere fondamentali tradotte in varie lingue.

 

da: Il Mio ricordo degli eterni – Emanuele Severino – Libro – RIZZOLI.

vai anche a:

https://antemp.com/2011/05/24/emanuele-severino-presenta-il-mio-ricordo-degli-eterni-autobiografia-a-chetempochefa-22-maggio-2011/

Wallace Stevens , The snow man. Lettura di Domenico Pelini

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Emanuele Severino sulla logica sacrificale

 l’intervista di Armando Torno al filosofo Emanuele Severino: “«È comprensibile che gli americani e soprattutto i newyorkesi festeggino la morte di Osama Bin Laden. Ma è anche vero che questo comportamento è un retaggio dell’uomo primitivo. Al centro della festa arcaica, infatti, c’è il sacrificio, l’uccisione della vittima sacrificale ed espiatoria, che a volte è un essere umano, ritenuto colpevole, responsabile dei mali del gruppo sociale. In questo senso sono d’accordo con la dichiarazione della Chiesa che “di fronte alla morte di un uomo, un cristiano non si rallegra mai”» .

Dopo una breve pausa, Severino prosegue: «Ma non sono d’accordo con René Girard, per il quale il cristianesimo sarebbe estraneo alla logica sacrificale. Perché è vero che Gesù, a differenza delle altre vittime, è considerato, nel cristianesimo, innocente; ma è anche vero che, per il cristianesimo, Gesù ha preso su di sé tutti i peccati del mondo e quindi è diventato il sommamente colpevole, che viene sacrificato, dalla giustizia divina, proprio in quanto colpevole e non in quanto innocente. Nella Seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo Paolo dice: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccatore in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio”(5,21). E la cristianità festeggia la morte di Gesù, ovviamente lontano in modo abissale dalle vittime per se stesse colpevoli. Siamo in piena logica sacrificale»”. 

da: EDICOLA. Il (nuovo) mondo senza Bin Laden (03/05/2011) | Vita.it.

Emanuele Severino individua il tratto comune del pensiero occidentale: credere che le cose non siano eterne, che tutto provenga e ritorni al nulla

Emanuele Severino parla del senso greco della “verità” analizzando le parole aletheia (ἀλήθεια) ed epistème (επιστήμη)

Emanuele Severino sul “far diventar altro”

SENECA: De brevitate vitae

I. La maggior parte dei mortali, o Paolino, si lagna per la cattiveria della natura, perché siamo messi al mondo per un esiguo periodo di tempo, perché questi periodi di tempo a noi concessi trascorrono così velocemente, così in fretta che, tranne pochissimi, la vita abbandoni gli altri nello stesso sorgere della vita. Né di tale calamità, comune a tutti, come credono, si lamentò solo la folla e il dissennato popolino; questo stato d’animo suscitò le lamentele anche di personaggi famosi.

Da qui deriva la famosa esclamazione del più illustre dei medici, che la vita è breve, l’arte lunga; di qui la contesa, poco decorosa per un saggio, dell’esigente Aristotele con la natura delle cose, perché essa è stata tanto benevola nei confronti degli animali, che possono vivere cinque o dieci generazioni, ed invece ha concesso un tempo tanto più breve all’uomo, nato a tante e così grandi cose.

Noi non disponiamo di poco tempo, ma ne abbiamo perduto molto. La vita è lunga abbastanza e ci è stata data con larghezza per la realizzazione delle più grandi imprese, se fosse impiegata tutta con diligenza; ma quando essa trascorre nello spreco e nell’indifferenza, quando non viene spesa per nulla di buono, spinti alla fine dall’estrema necessità, ci accorgiamo che essa è passata e non ci siamo accorti del suo trascorrere. È così: non riceviamo una vita breve, ma l’abbiamo resa noi, e non siamo poveri di essa, ma prodighi.

Come sontuose e regali ricchezze, quando siano giunte ad un cattivo padrone, vengono dissipate in un attimo, ma, benché modeste, se vengono affidate ad un buon custode, si incrementano con l’investimento, così la nostra vita molto si estende per chi sa bene gestirla. II. Perché ci lamentiamo della natura delle cose? Essa si è comportata in maniera benevola: la vita è lunga, se sai farne uso.

C’è chi è preso da insaziabile avidità, chi dalle vuote occupazioni di una frenetica attività; uno è fradicio di vino, un altro languisce nell’inerzia; uno è stressato da un’ambizione sempre dipendente dai giudizi altrui, un altro è sballottato per tutte le terre da un’avventata bramosia del commercio, per tutti i mari dal miraggio del guadagno; alcuni tortura la smania della guerra, vogliosi di creare pericoli agli altri o preoccupati dei propri; vi sono altri che logora l’ingrato servilismo dei potenti in una volontaria schiavitù; molti sono prigionieri della brama dell’altrui bellezza o della cura della propria; la maggior parte, che non ha riferimenti stabili, viene sospinta a mutar parere da una leggerezza volubile ed instabile e scontenta di sé; a certuni non piace nulla a cui drizzar la rotta, ma vengono sorpresi dal destino intorpiditi e neghittosi, sicché non ho alcun dubbio che sia vero ciò che vien detto, sotto forma di oracolo, nel più grande dei poeti: “Piccola è la porzione di vita che viviamo”. Infatti tutto lo spazio rimanente non è vita, ma tempo. I vizi premono ed assediano da ogni parte e non permettono di risollevarsi o alzare gli occhi a discernere il vero, ma li schiacciano immersi ed inchiodati al piacere. Giammai ad essi è permesso rifugiarsi in se stessi; se talora gli tocca per caso un attimo di tregua, come in alto mare, dove anche dopo il vento vi è perturbazione, ondeggiano e mai trovano pace alle loro passioni. Pensi che io parli di costoro, i cui mali sono evidenti? Guarda quelli, alla cui buona sorte si accorre: sono soffocati dai loro beni. Per quanti le ricchezze costituiscono un fardello! A quanti fa sputar sangue l’eloquenza e la quotidiana ostentazione del proprio ingegno! Quanti sono pallidi per i continui piaceri! A quanti non lascia un attimo di respiro l’ossessionante calca dei clienti! Dunque, passa in rassegna tutti costoro, dai più umili ai più potenti: questo cerca un avvocato, questo è presente, quello cerca di esibire le prove, quello difende, quello è giudice, nessuno rivendica per se stesso la propria libertà, ci si consuma l’uno per l’altro. Infòrmati di costoro, i cui nomi si imparano, vedrai che essi si riconoscono da questi segni: questo è cultore di quello, quello di quell’altro; nessuno appartiene a se stesso. Insomma è estremamente irragionevole lo sdegno di taluni: si lamentano dell’alterigia dei potenti, perché questi non hanno il tempo di venire incontro ai loro desideri. Osa lagnarsi della superbia altrui chi non ha tempo per sé? Quello almeno, chiunque tu sia, benché con volto arrogante ma qualche volta ti ha guardato, ha abbassato le orecchie alle tue parole, ti ha accolto al suo fianco: tu non ti sei mai degnato di guardare dentro di te, di ascoltarti. Non vi è motivo perciò di rinfacciare ad alcuno questi servigi, poiché li hai fatti non perché desideravi stare con altri, ma perché non potevi stare con te stesso.

III. Per quanto siano concordi su questo solo punto gli ingegni più illustri che mai rifulsero, mai abbastanza si meraviglieranno di questo appannamento delle menti umane: non tollerano che i propri campi vengano occupati da nessuno e, se sorge una pur minima disputa sulla modalità dei confini, si precipitano alle pietre ed alle armi: permettono che altri invadano la propria vita, anzi essi stessi vi fanno entrare i suoi futuri padroni; non si trova nessuno che sia disposto a dividere il proprio denaro: a quanti ciascuno distribuisce la propria vita! Sono avari nel tenere i beni; appena si giunge alla perdita di tempo, diventano molto prodighi in quell’unica cosa in cui l’avarizia è un pregio. E così piace citare uno dalla folla degli anziani: “Vediamo che sei arrivato al termine della vita umana, hai su di te cento o più anni: suvvia, fa un bilancio della tua vita. Calcola quanto da questo tempo hanno sottratto i creditori, quanto le donne, quanto i patroni, quanto i clienti, quanto i litigi con tua moglie, quanto i castighi dei servi, quanto le visite di dovere attraverso la città; aggiungi le malattie, che ci siamo procurati con le nostre mani, aggiungi il tempo che giacque inutilizzato: vedrai che hai meno anni di quanti ne conti. Ritorna con la mente a quando sei stato fermo in un proposito, quanti pochi giorni si sono svolti così come li avevi programmati, a quando hai avuto la disponibilità di te stesso, a quando il tuo volto non ha mutato espressione, a quando il tuo animo è stato coraggioso, che cosa di positivo hai realizzato in un periodo tanto lungo, quanti hanno depredato la tua vita mentre non ti accorgevi di cosa stavi perdendo, quanto ne ha sottratto un vano dispiacere, una stupida gioia, un’avida bramosia, una piacevole discussione, quanto poco ti è rimasto del tuo: capirai che muori anzitempo”. Dunque qual è il motivo? Vivete come se doveste vivere in eterno, mai vi sovviene della vostra caducità, non ponete mente a quanto tempo è già trascorso; ne perdete come da una rendita ricca ed abbondante, quando forse proprio quel giorno, che si regala ad una certa persona od attività, è l’ultimo. Avete paura di tutto come mortali, desiderate tutto come immortali. Udirai la maggior parte dire: “Dai cinquant’anni mi metterò a riposo, a sessant’anni mi ritirerò a vita privata”. E che garanzia hai di una vita tanto lunga? Chi permetterà che queste cose vadano così come hai programmato? Non ti vergogni di riservare per te i rimasugli della vita e di destinare alla sana riflessione solo il tempo che non può essere utilizzato in nessun’altra cosa? Quanto tardi è allora cominciare a vivere, quando si deve finire! Che sciocca mancanza della natura umana differire i buoni propositi ai cinquanta e sessanta anni e quindi voler iniziare la vita lì dove pochi sono arrivati! IV. Vedrai sfuggire di bocca agli uomini più potenti e più altolocati parole con le quali aspirano al tempo libero, lo lodano e lo antepongono a tutti i loro beni. Talvolta desiderano scendere giù da quel loro piedistallo, se la cosa potesse avvenire in tutta sicurezza; infatti, anche se niente preme e turba dall’esterno, la fortuna crolla su se stessa. Il divo Augusto, al quale gli dei concessero più che a chiunque altro, non cessò di augurarsi il riposo e di chiedere di essere sollevato dagli impegni pubblici; ogni suo discorso ricadeva sempre su questo, la speranza del tempo libero: alleviava le sue fatiche con questo conforto, per quanto illusorio tuttavia piacevole, che un giorno sarebbe vissuto per se stesso. In una lettera inviata al senato, dopo aver promesso che il suo riposo sarebbe stato non privo di decoro ne in contrasto con la sua gloria passata, ho trovato queste parole: “Ma queste cose sarebbe più bello poterle mettere in pratica che prometterle. Tuttavia il desiderio di quel tempo tanto desiderato mi ha condotto, poiché finora la gioia della realtà si fa attendere, a pregustare un po’ di piacere dalla dolcezza delle parole.” Così grande cosa gli sembrava il tempo libero, che, poiché non poteva goderne, se lo pregustava con l’immaginazione. Colui che vedeva tutto dipendere da lui solo, che stabiliva il destino per gli uomini e i popoli, pensava a quel felicissimo giorno in cui avrebbe abbandonato la propria grandezza. Conosceva per esperienza quanto sudore costano quei beni rifulgenti per tutta la terra, quante nascoste fatiche celano. Costretto a combattere con armi dapprima con i concittadini, poi con i colleghi, infine con i parenti, versò sangue per terra e per mare: dopo essere passato in guerra attraverso la Macedonia, la Sicilia, l’Egitto, la Siria e l’Asia e quasi tutte le coste, volse contro gli stranieri gli eserciti stanchi di strage romana. Mentre pacificava le Alpi e domava i nemici mischiati in mezzo alla pace e all’impero, mentre spostava i confini oltre il Reno, l’Eufrate ed il Danubio, proprio a Roma si affilavano contro di lui i pugnali di Murena, di Cepione, di Lepido, di Egnazio e di altri. Non era ancora sfuggito alle insidie di costoro e la figlia e tanti giovani nobili legati dal vincolo dell’adulterio come da un giuramento ne atterrivano la stanca età e ancor più e di nuovo una donna era da temere con un Antonio. Aveva tagliato via queste ferite con le stesse membra: altre ne rinascevano; come un corpo pieno di troppo sangue, sempre si crepava in qualche parte. E così anelava al tempo libero, nella cui speranza e nel cui pensiero si placavano i suoi affanni: questo era il voto di colui che poteva render gli altri paghi dei loro voti. V. Marco Cicerone, sballottato tra i Catilina e i Clodii e poi tra i Pompei e i Crassi, quelli avversari manifesti, questi amici dubbi, mentre fluttuava assieme allo Stato e lo sorreggeva mentre andava a fondo, alla fine sopraffatto, non calmo nella buona sorte e incapace di sopportare quella cattiva, quante volte impreca contro quel suo stesso consolato, lodato non senza ragione ma senza fine! Che dolenti parole esprime in una lettera ad Attico, dopo aver vinto Pompeo padre, mentre in Spagna il figlio rimetteva in sesto le armate scompaginate! “Mi domandi” dice “cosa faccio qui? Me ne sto mezzo libero nel mio podere di Tuscolo”. Poi aggiunge altre parole, con le quali rimpiange il tempo passato, si lamenta del presente e dispera del futuro. Cicerone si definì semilibero: ma perdiana giammai un saggio si spingerà in un aggettivo così mortificante, giammai sarà mezzo libero, sarà sempre in possesso di una libertà totale e assoluta, svincolato dal proprio potere e più in alto di tutti. Cosa infatti può esserci sopra uno che è al di sopra della fortuna? VI Livio Druso, uomo rude ed impulsivo, avendo rimosso le nuove leggi e i disatri dei Gracchi, pressato da una grande aggregazione dell’Italia intera, non prevedendo l’esito degli avvenimenti, che non poteva gestire e ormai non era libero di abbandonarli una volta iniziati, si dice che maledicendo la sua vita, irrequieta fin dagli inizi, abbia detto che solo a lui neppure da bambino erano toccate vacanze. Infatti osò ancor minorenne e poi adolescente raccomandare gli imputati ai giudici e interporre i suoi buoni uffici nel foro con tanta efficacia che alcune sentenze siano risultate da lui estorte. Dove non sarebbe sfociata una così prematura ambizione? Capiresti che una così precoce audacia sarebbe andata a finire in un grave danno sia pubblico che privato. Perciò tardi si lamentava che non gli fossero state concesse vacanze fin da piccolo, litigioso e di peso per il foro. Si discute se si sia tolto la vita; infatti, ferito da un improvviso colpo all’inguine, si accasciò, e vi è chi dubita che la sua morte sia stata volontaria, ma nessuno che essa sia stata opportuna. È del tutto inutile ricordare i tanti che, pur apparendo felicissimi agli occhi degli altri, testimoniarono in se stessi il vero ripudiando ogni azione della loro vita; ma con tali lamentele non cambiarono né gli altri né se stessi: infatti, una volta che le parole siano volate via, gli affetti ritorneranno secondo il consueto modo di vivere. Perdiana, ammesso pure che la vostra vita superi i mille anni, si ridurrebbe ad un tempo ristrettissimo: questi vizi divoreranno ogni secolo; in verità questo spazio che, benché la natura faccia defluire, la ragione dilata, è ineluttabile che presto vi sfugga: infatti non afferrate né trattenete o ritardate la più veloce di tutte le cose, ma permettete che vada via come una cosa inutile e recuperabile. VII. Tra i primi annovero senz’altro coloro che per nessuna cosa hanno tempo se non per il vino e la lussuria; nessuno infatti è occupato in maniera più vergognosa. Gli altri, anche se sono ossessionati da un effimero pensiero di gloria, tuttavia sbagliano con garbo; elencami pure gli avari, gli iracondi o coloro che perseguono ingiusti rancori o guerre, tutti costoro peccano più virilmente: la colpa di coloro che sono dediti al ventre e alla libidine è vergognosa. Esamina tutti i giorni di costoro, vedi quanto tempo perdano nel pensare al proprio interesse, quanto nel tramare insidie, quanto nell’aver timore, quanto nell’essere servili, quanto li tengano occupati le proprie promesse e quelle degli altri, quanto i pranzi, che ormai sono diventati anch’essi dei doveri: vedrai in che modo i loro mali o beni non permettano loro di respirare. Infine tutti convengono che nessuna cosa può esser ben gestita da un uomo affaccendato, non l’eloquenza, non le arti liberali, dal momento che un animo intento a più cose nulla recepisce più in profondità, ma ogni cosa respinge come se fossa introdotta a forza. Nulla è di minor importanza per un uomo affaccendato che il vivere: di nessuna cosa è più difficile la conoscenza. Dappertutto vi sono molti insegnanti delle altre arti, e alcune di esse sembra che i fanciulli le abbiano così assimilate da poterle anche insegnare: tutta la vita dobbiamo imparare a vivere e, cosa della quale forse ti meraviglierai, tutta la vita dobbiamo imparare a morire. Tanti uomini illustri, dopo aver abbandonato ogni ostacolo e aver rinunziato a ricchezze, cariche e piaceri, solo a questo anelarono fino all’ultima ora, di saper vivere; tuttavia molti di essi se ne andarono confessando di non saperlo ancora, a maggior ragione non lo sanno costoro. Credimi, è tipico di un uomo grande e che si eleva al di sopra degli errori umani permettere che nulla venga sottratto dal suo tempo, e la sua vita è molto lunga per questo, perché, per quanto si sia protratta, l’ha dedicata tutta a se stesso. Nessun periodo quindi restò trascurato ed inattivo, nessuno sotto l’influenza di altri; e infatti non trovò alcunché che fosse degno di essere barattato con il suo tempo, gelosissimo custode di esso. Perciò gli fu sufficiente. Ma è inevitabile che sia venuto meno a coloro, dalla cui vita molto tolse via la gente. E non credere che essi una buona volta non capiscano il proprio danno; certamente udirai la maggior parte di quelli, sui quali pesa una grande fortuna, tra la moltitudine dei clienti o la gestione delle cause o tra le altre dignitose miserie esclamare di tanto in tanto: “Non mi è permesso vivere.” E perché non gli è permesso? Tutti quelli che ti chiamano a sé, ti allontanano da te. Quell’imputato quanti giorni ti ha sottratto? Quanti quel candidato? Quanti quella vecchia stanca di seppellire eredi? Quanti quello che si è finto ammalato per suscitare l’ingordigia dei cacciatori di testamenti? Quanti quell’influente amico, che vi tiene non per amicizia ma per esteriorità? Passa in rassegna, ti dico, e fai un bilancio dei giorni della tua vita: vedrai che ne sono rimasti ben pochi e male spesi. Quello, dopo aver ottenuto le cariche che aveva desiderato, desidera abbandonarle e ripetutamente dice: “Quando passerà quest’anno?” Quello allestisce i giochi, il cui esito gli stava tanto a cuore e dice: “Quando li fuggirò?” Quell’avvocato è conteso in tutto il foro e con grande ressa tutti si affollano fin oltre a dove può essere udito; dice: “Quando verranno proclamate le ferie?” Ognuno consuma la propria vita e si tormenta per il desiderio del futuro e per la noia del presente. Ma quello che sfrutta per se stesso tutto il suo tempo, che programma tutti i giorni come una vita, non desidera il domani né lo teme. Cosa vi è infatti che alcuna ora di nuovo piacere possa apportare? Tutto è noto, tutto è stato assaporato a sazietà. Per il resto la buona sorte disponga come vorrà: la vita è già al sicuro. Ad essa si può aggiungere, ma nulla togliere, e aggiungere così come del cibo ad uno ormai sazio e pieno, che non ne desidera ma lo accoglie. Perciò non c’è motivo che tu ritenga che uno sia vissuto a lungo a causa dei capelli bianchi o delle rughe: costui non è vissuto a lungo, ma è stato in vita a lungo. E così come puoi ritenere che abbia molto navigato uno che una violenta tempesta ha sorpreso fuori dal porto e lo ha sbattuto di qua e di là e lo ha fatto girare in tondo entro lo stesso spazio, in balia di venti che soffiano da direzioni opposte? Non ha navigato molto, ma è stato sballottato molto. VIII. Mi stupisco sempre quando vedo alcuni chiedere tempo e quelli, a cui viene richiesto, tanto accondiscendenti; l’uno e l’altro guardano al motivo per il quale il tempo viene richiesto, nessuno dei due alla sua essenza: lo si chiede come se fosse niente, come se fosse niente lo si concede. Si gioca con la cosa più preziosa di tutte; (il tempo) invece li inganna,poiché è qualcosa di incorporeo, perché non cade sotto gli occhi, e pertanto è considerato cosa di poco conto, anzi non ha quasi nessun prezzo. Gli uomini accettano assegni annui e donativi come cose di caro prezzo e in essi ripongono le loro fatiche, il loro lavoro e la loro scrupolosa attenzione: nessuno considera il tempo: ne fanno un uso troppo sconsiderato, come se esso fosse (un bene) gratuito. Ma guarda costoro (quando sono) ammalati, se il pericolo della morte incombe molto da vicino, avvinghiati alle ginocchia dei medici, se temono la pena capitale, pronti a sborsare tutti i loro averi pur di vivere: quanta contraddizione si trova in essi. Che se si potesse in qualche modo mettere davanti (a ciascuno) il numero di anni passati di ognuno, così come quelli futuri, come trepiderebbero coloro che ne vedessero restare pochi, come ne risparmierebbero! Eppure è facile gestire ciò che è sicuro, per quanto esiguo; si deve invece curare con maggior solerzia ciò che non sai quando finirà. E non v’è motivo che tu creda che essi non sappiano che cosa preziosa sia:: sono soliti dire, a coloro che amano più intensamente, di essere pronti a dare parte dei loro anni. Li danno e non capiscono: cioè li danno in modo da sottrarli a se stessi senza peraltro incrementare quelli. Ma non si accorgono proprio di toglierli; perciò per essi è sopportabile la perdita di un danno nascosto. Nessuno (ti) restituirà gli anni, nessuno ti renderà nuovamente a te stesso; la vita andrà per dove ha avuto principio e non muterà né arresterà il suo corso; non farà alcun rumore, non lascerà nessuna traccia della propria velocità: scorrerà silenziosamente; non si estenderà oltre né per ordine di re né per favor di popolo: correrà così come ha avuto inizio dal primo giorno, non cambierà mai traiettoria, mai si attarderà. Cosa accadrà? Tu sei tutto preso, la vita si affretta: nel frattempo si avvicinerà la morte, per la quale, volente o nolente, bisogna avere tempo. IX. Cosa potresti immaginare di più insensato di quegli uomini che menano vanto della propria lungimiranza? Sono affaccendati in modo molto impegnativo: per poter vivere meglio organizzano la vita a scapito della vita. Fanno progetti a lungo termine; d’altra parte la più grande sciagura della vita è il suo procrastinarla: innanzitutto questo fatto rimanda ogni giorno, distrugge il presente mentre promette il futuro. Il più grande ostacolo al vivere è l’attesa, che dipende dal domani, (ma) perde l’oggi. Disponi ciò che è posto in grembo al fato e trascuri ciò che è in tuo potere. Dove vuoi mirare? Dove vuoi arrivare? Sono avvolti dall’incertezza tutti gli avvenimenti futuri: vivi senza arrestarti. Ecco, grida il sommo poeta [Virgilio, Georgiche] e come ispirato da bocca divina eleva un carme salvifico: “I primi a fuggire per gli infelici mortali sono i giorni migliori della vita.” Dice: “Perché esiti? Perché indugi? Se non te ne appropri, (i giorni migliori) fuggono.” E pure quando te ne sarai impossessato, essi fuggiranno: pertanto bisogna combattere con il farne rapidamente uso (lett.: la rapidità del farne uso) contro la velocità del tempo e attingerne rapidamente come da un torrente impetuoso e che non scorre per sempre. Anche ciò è molto bello, che per rimproverare un indugio senza fine, dica non “il tempo migliore”, ma “i giorni migliori.” Perché tu, tranquillo e indifferente in tanto fuggire del tempo prefiguri per te una lunga serie di mesi e di anni, a seconda che appaia opportuno alla tua avidità? (Virgilio) ti parla di un giorno e di un giorno che fugge. Vi è dunque dubbio che i migliori giorni fuggano ai mortali sventurati, cioè affaccendati? Sui loro animi ancora infantili preme la vecchiaia, alla quale giungono impreparati ed indifesi; nulla infatti fu previsto: improvvisamente e senza aspettarselo si imbatterono in essa, non si accorgevano che essa si avvicinava giorno dopo giorno. Allo stesso modo che un discorso o una lettura o un pensiero alquanto intenso trae in inganno chi percorre un cammino e si accorge di essere giunto prima di essersi avvicinato (alla meta), così questo viaggio della vita, costante e velocissimo, che percorriamo con la stessa andatura da svegli e da addormentati, non si manifesta agli affaccendati se non alla fine. X Se volessi dividere ciò che ho esposto e le argomentazioni, mi verrebbero in aiuto molte cose attraverso le quali posso dimostrare che la vita degli affaccendati è molto breve. Soleva affermare Fabiano [Papirio Fabiano, filosofo neopitagorico, molto stimato da Seneca], il quale non fa parte di questi filosofi cattedratici ma di quelli genuini e vecchio stampo, che contro le passioni bisogna combattere d’istinto, non di sottigliezza, e respingerne la schiera (delle passioni) non con piccoli colpi ma con un assalto: infatti esse devono essere pestate, non punzecchiate. Tuttavia, per rinfacciare ad esse il loro errore, bisogna non tanto rimproverarle ma ammaestrarle. La vita si divide in tre tempi: passato, presente e futuro. Di questi il presente è breve, il futuro incerto, il passato sicuro. Solo su quest’ultimo, infatti, la fortuna ha perso la sua autorità, perché non può essere ridotto in potere di nessuno. Questo perdono gli affaccendati: infatti non hanno il tempo di guardare il passato e, se lo avessero, sarebbe sgradevole il ricordo di un fatto di cui pentirsi. Malvolentieri pertanto rivolgono l’animo a momenti mal vissuti e non osano riesaminare cose, i cui vizi si manifestano ripensandole, anche quelli che vengono nascosti con qualche artificio del piacere presente. Nessuno, se non coloro che hanno sempre agito secondo la propria coscienza, che mai si inganna, si rivolge volentieri al passato; chi ha desiderato molte cose con ambizione, ha sprezzato con superbia, si è imposto senza regola né freno, ha ingannato con perfidia, ha sottratto con cupidigia, ha sprecato con leggerezza, ha paura della sua memoria. Eppure questa è la parte del nostro tempo sacra ed inviolabile, al di sopra di tutte le vicende umane, posta al di fuori del regno della fortuna, che non turba né la fame, né la paura, né l’assalto delle malattie; essa non può essere turbata né sottratta: il suo possesso è eterno e inalterabile. Soltanto a uno a uno sono presenti i giorni e momento per momento; ma tutti (i giorni) del tempo passato si presenteranno quando tu glielo ordinerai, tollereranno di essere esaminati e trattenuti a tuo piacimento, cosa che gli affaccendati non hanno tempo di fare. È tipico di una mente serena e tranquilla spaziare in ogni parte della propria vita; gli animi degli affaccendati, come se fossero sotto un giogo, non possono piegarsi né voltarsi. La loro vita dunque precipita in un baratro e come non serve a nulla, qualsiasi quantità tu possa ficcarne dentro, se non vi è sotto qualcosa che la raccolga e la contenga [come un recipiente senza fondo], così non importa quanto tempo è concesso, se non vi è nulla dove posarsi: viene fatto passare attraverso animi fiaccati e bucati. Il presente è brevissimo, tanto che a qualcuno sembra inesistente; infatti è sempre in corsa, scorre e si precipita; smette di esistere prima di giungere, e non ammette indugio più che il creato o le stelle, il cui moto sempre incessante non rimane mai nello stesso luogo. Dunque agli affaccendati spetta solo il presente, che è così breve da non poter essere afferrato e che si sottrae a chi è oppresso da molte occupazioni. XI. Vuoi dunque sapere quanto poco tempo (gli affaccendati) vivano? Vedi quanto desiderano vivere a lungo. Vecchi decrepiti mendicano con suppliche l’aggiunta di pochi anni: fingono di essere più giovani; si lusingano con la bugia e illudono se stessi così volentieri come se ingannassero al tempo stesso il destino. Però quando qualche infermità (li) ammonisce del loro stato mortale, come muoiono terrorizzati, non come uscendo dalla vita, ma come se ne fossero tirati fuori! Van gridando di essere stati stolti, tanto da non aver vissuto e se in qualche modo vengono fuori da quella malattia, di voler vivere in pace; allora pensano a quante cose si siano procurate invano, e delle quali non avrebbero fatto uso, come nel vuoto sia caduta ogni loro fatica. Ma per chi la vita trascorre lungi da ogni faccenda, perché non dovrebbe essere di lunga durata? Nulla di essa è affidato (ad altri), nulla è sparpagliato qua e là, nulla perciò è affidato alla fortuna, nulla si consuma per noncuranza, nulla si dissipa per prodigalità, nulla è superfluo: tutta (la vita), per così dire, produce un reddito. Per quanto breve, dunque, è abbondantemente sufficiente, e perciò, quando che venga il giorno estremo, il saggio non esiterà ad andare incontro alla morte con passo fermo. XII. Chiedi forse chi io definisco affaccendati? Non pensare che io bolli come tali solo quelli che soltanto cani aizzati riescono a cacciar fuori dalla basilica [il centro degli affari], quelli che vedi esser stritolati o con maggior lustro nella propria folla [di clienti] o più vergognosamente il quella [dei clienti] altrui, quelli che gli impegni spingono fuori dalle proprie case per schiacciarli con gli affari altrui, o che l’asta del pretore fa travagliare con un guadagno disonorevole e destinato un giorno ad incancrenire [si riferisce alla vendita all’asta dei bottini di guerra e degli schiavi, il cui commercio era ritenuto disonorevole]. Il tempo libero di alcuni è tutto impegnato: nella loro villa o nel loro letto, nel bel mezzo della solitudine, benché si siano isolat da tutti, sono fastidiosi a se stessi: la loro non deve definirsi una vita sfaccendata ma un inoperoso affaccendarsi. Puoi chiamare sfaccendato chi dispone in ordine con minuziosa pignoleria bronzi di Corinto, pregiati per la passione di pochi, e spreca la maggior parte dei giorni tra laminette rugginose? Chi in palestra (infatti, che orrore!, neppur romani sono i vizi di cui soffriamo) siede come spettatore di ragazzi che lottano? Chi divide le mandrie dei propri giumenti in coppie di uguale età e colore? Chi nutre gli atleti (giunti) ultimi? E che? Chiami sfaccendati quelli che passano molte ore dal barbiere, mentre si estirpa qualcosa che spuntò nell’ultima notte, mentre si tiene un consulto su ogni singolo capello, mentre o si rimette a posto la chioma in disordine o si sistema sulla fronte da ambo i lati quella rada? Come si arrabbiano se il barbiere è stato un po’ disattento, come se tosasse un uomo! Come si irritano se viene tagliato qualcosa dalla loro criniera, se qualcosa è stato mal acconciato, se tutto non ricade in anelli perfetti! Chi di costoro non preferisce che sia in disordine lo Stato piuttosto che la propria chioma? Che non sia più preoccupato della grazia della sua testa che della sua incolumità? Che non preferisca essere più elegante che dignitoso? Questi tu definisci sfaccendati, affaccendati tra il pettine e lo specchio? Quelli che sono dediti a comporre, sentire ed imparare canzoni, mentre torcono in modulazioni di ritmo molto modesto la voce, di cui la natura rese il corretto cammino il migliore e il più semplice, le cui dita cadenzanti suonano sempre qualche carme dentro di sé, e di cui si ode il silenzioso ritmo quando si rivolgono a cose serie e spesso anche tristi? Costoro non hanno tempo libero, ma occupazioni oziose. Di certo non annovererei i banchetti di costoro tra il tempo libero, quando vedo con quanta premura dispongono l’argenteria, con quanta cura sistemano le tuniche dei loro amasi [giovani che si vendevano per libidine], quanto siano trepidanti per come il cinghiale vien fuori dalle mani del cuoco, con quanta sollecitudine i glabri [schiavi che si facevano depilare per assumere un aspetto femmineo] accorrono ai loro servigi ad un dato segnale, con quanta maestria vengano tagliati gli uccelli in pezzi non irregolari, con quanto zelo infelici fanciulli detergano gli sputi degli ubriachi: da essi si cerca fama di eleganza e di lusso e a tal punto li seguono le loro aberrazioni in ogni recesso della vita, che non bevono né mangiano senza ostentazione. Neppure annovererai tra gli sfaccendati coloro che vanno in giro sulla portantina o sulla lettiga e si presentano all’ora delle loro passeggiate come se non gli fosse permesso rinunziarvi, e che un altro deve avvertire quando si devono lavare, quando devono nuotare o cenare: e a tal punto illanguidiscono in troppa fiacchezza di un animo delicato, da non potersi accorgere da soli se hanno fame. Sento che uno di questi delicati – se pure si può chiamare delicatezza il disimparare la vita e la consuetudine umana – , trasportato a mano dal bagno e sistemato su una portantina, abbia detto chiedendo: “Sono già seduto?”. Tu reputi che costui che ignora se sta seduto sappia se è vivo, se vede e se è sfaccendato? Non è facile dire se mi fa più pena se non lo sapeva o se fingeva di non saperlo. Certamente di molte cose soffrono in realtà la dimenticanza, ma di molte anche la simulano; alcuni vizi li allettano come oggetto di felicità; sembra che il sapere cosa fai sia tipico dell’uomo umile e disprezzato; ora va e credi che i mimi inventano molte cose per biasimare il lusso. Certo trascurano più di quanto rappresentano ed è apparsa tanta abbondanza di vizi incredibili in questo solo secolo, che ormai possiamo dimostrare la trascuratezza dei mimi. Vi è qualcuno che si consuma a tal punto nelle raffinatezze da credere ad un altro se è seduto! Dunque costui non è sfaccendato, dagli un altro nome: è malato, anzi è morto; sfaccendato è quello che è consapevole del suo tempo libero. Ma questo semivivo, a cui è necessaria una spia che gli faccia capire lo stato del suo corpo, come può costui essere padrone di alcun momento? XIII. Sarebbe lungo enumerare uno ad uno coloro la cui vita consumarono gli scacchi o la palla o la cura del corpo con il sole. Non sono sfaccendati quelli i cui piaceri costano molta fatica.. Infatti di essi nessuno dubiterà che non fanno nulla con fatica, che si tengono occupati in studi di inutili opere letterarie, le quali ormai anche presso i Romani sono un cospicuo numero. Fu malattia dei Greci questo domandarsi quanti rematori abbia avuto Ulisse, se sia stata scritta prima l’Iliade o l’Odissea e inoltre se fossero dello stesso autore, e poi altre cose di questo genere che, se le tieni per te per nulla sono utili ad una silenziosa conoscenza, se le divulghi non sembrerai più istruito ma più importuno. Ecco che ha invaso anche i Romani un vano desiderio di apprendere cose superflue. In questi giorni ho sentito un tizio che andava dicendo quali cose ognuno dei generali romani ha fatto per primo: per primo Duilio vinse in una battaglia navale, per primo Curio Dentato introdusse gli elefanti nella sfilata del trionfo. Ancora queste cose, anche se non mirano ad una vera gloria, almeno trattano esempi di opere civili: questa conoscenza non sarà di utilità, perlomeno è tale da tenerci interessati dalla splendida vanità delle cose. Perdoniamo anche ciò a chi si chiede chi per primo convinse i Romani a salire su una nave – è stato Claudio, proprio per questo chiamato Codice [”caudica” era una barca, ricavata in un tronco, detto “caudex”], perché l’aggregato di parecchie tavole era chiamato “codice” presso gli antichi, per cui i pubblici registri si dicono “codici” e anche ora le navi, che trasportano le derrate lungo il Tevere, per antica consuetudine vengono chiamate “codicarie” – ; certamente anche ciò ha importanza, che Valerio Corvino per primo debellò Messina e fu il primo della gente Valeria ad esser chiamato Messana, avendo trasferito nel suo nome quello della città conquistata, e poi fu detto Messalla avendone il popolo poco alla volta alterato le lettere: ma permetterai anche che qualcuno si occupi del fatto che Lucio Silla per primo presentò nel circo leoni sciolti, quando normalmente venivano esibiti legati, essendo stati inviati dal re Bocco [re della Mauritania] degli arcieri per ucciderli? E si perdoni pure questo: forse che serve a qualcosa di buono che Pompeo per primo abbia allestito nel circo una battaglia di diciotto elefanti opposti come in combattimento a dei condannati? Il primo della città e tra i primi degli antichi, come si tramanda, di eccezionale bontà, considerò un genere di spettacolo degno di esser ricordato il far morire degli uomini in una maniera nuova. “Combattono all’ultimo sangue? È poco. Sono dilaniati? È poco: vengano schiacciati dall’enorme mole degli animali!”. Era meglio che queste cose andassero nel dimenticatoio, affinché in seguito nessun potente imparasse ed invidiasse una cosa del tutto disumana. Quanta nebbia mette avanti alle nostre menti una grande fortuna! Egli allora ritenne di essere al di sopra della natura, esponendo a bestie nate sotto un cielo straniero tante schiere di infelici, organizzando combattimenti tra animali tanto dissimili, spandendo molto sangue al cospetto del popolo Romano, che presto lo avrebbe costretto a versarne di più [si riferisce alla guerra civile di Pompeo contro Cesare]; ma poi, ingannato dalla perfidia alessandrina [il tradimento del faraone Tolomeo, fratello di Cleopatra], si offrì per essere ucciso dall’ultimo schiavo [l’eunuco Achillas, che pugnalò Pompeo a tradimento], capendo solo allora l’inutile vanagloria del proprio soprannome [Magno]. Ma per tornar lì da dove principiai e per dimostrare nella stessa materia il vacuo zelo di certuni, quello stesso narrava che Metello, dopo aver sconfitto in Sicilia i Cartaginesi, fu il solo tra quelli che ottennero il trionfo tra tutti i Romani ad aver condotto davanti al cocchio centoventi elefanti prigionieri; che Silla fu l’ultimo dei Romani ad aver ampliato il pomerio [spazio di terreno, consacrato e lasciato libero, all’interno e all’esterno della cinta muraria di Roma], che mai fu esteso, per antica consuetudine, con l’acquisizione di terreno provinciale, ma italico. Sapere ciò è più utile (che sapere) che il monte Aventino si trova fuori dal pomerio, come quegli asseriva, per uno dei due motivi: o perché la plebe da lì aveva fatto la secessione [nel 494 a.C.], o perché mentre in quel luogo Remo prendeva gli auspici, gli uccelli non avevano dato buoni presagi, e via dicendo altre cose innumerevoli, che o sono farcite di bugie o sono simili a bugie. Infatti, anche ammesso che essi dicano tutto ciò in buona fede, che scrivano cose che sono in grado di dimostrare, tuttavia di chi queste cose faranno diminuire gli errori? Di chi freneranno le passioni? Chi renderanno più saldo, chi più giusto, chi più altruista? Talora il nostro Fabiano diceva di dubitare se fosse meglio non accostarsi a nessuno studio piuttosto che impelagarsi in questi. XIV Soli tra tutti sono sfaccendati coloro che si dedicano alla saggezza, essi soli vivono; e infatti non solo custodiscono bene la propria vita: aggiungono ogni età alla propria; qualsiasi cosa degli anni prima di essi è stata fatta, per essi è cosa acquisita. Se non siamo persone molto ingrate, quegli illustrissimi fondatori di sacre dottrine sono nati per noi, per noi hanno preparato la vita. Siamo guidati dalla fatica altrui verso nobilissime imprese, fatte uscire fuori dalle tenebre verso la luce; non siamo vietati a nessun secolo, in tutti siamo ammessi e, se ci aggrada di venir fuori con la grandezza dell’animo dalle angustie della debolezza umana, vi è molto tempo attraverso cui potremo spaziare. Possiamo discorrere con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, vincere con gli Stoici la natura dell’uomo, andarvi oltre con i Cinici. Permettendoci la natura di estenderci nella partecipazione di ogni tempo, perché non (elevarci) con tutto il nostro spirito da questo esiguo e caduco passar del tempo verso quelle cose che sono immense, eterne e in comune con i migliori? Costoro, che corrono di qua e di là per gli impegni, che non lasciano in pace se stessi e gli altri, quando sono bene impazziti, quando hanno quotidianamente peregrinato per gli usci gli tutti e non hanno trascurato nessuna porta aperta, quando hanno portato per case lontanissime il saluto interessato [del cliente verso il patrono, ricompensato in cibarie], quanto e chi hanno potuto vedere di una città tanto immensa e avvinta in varie passioni? Quanti saranno quelli di cui il sonno o la libidine o la grossolanità li respingerà! Quanti quelli che, dopo averli tormentati a lungo, li trascureranno con finta premura! Quanti eviteranno di mostrarsi per l’atrio zeppo di clienti e fuggiranno via attraverso uscite segrete delle case, come se non fosse più scortese l’inganno che il non lasciarli entrare! Quanti mezzo addormentati e imbolsiti dalla gozzoviglia del giorno precedente, a quei miseri che interrompono il proprio sonno per aspettare quello altrui, a stento sollevando le labbra emetteranno con arroganti sbadigli il nome mille volte sussurrato! Si può ben dire che indugiano in veri impegni coloro che vogliono essere ogni giorno quanto più intimi di Zenone, di Pitagora, di Democrito e degli altri sacerdoti delle buone arti, di Aristotele e di Teofrasto. Nessuno di costoro non avrà tempo, nessuno non accomiaterà chi viene a lui più felice ed affezionato a sé, nessuno permetterà che qualcuno vada via da lui a mani vuote; da tutti i mortali possono essere incontrati, di notte e di giorno. XV. Nessuno di essi ti costringerà a morire, tutti (te lo) insegneranno; nessuno di essi logorerà i tuoi anni o ti aggiungerà i propri; di nessuno di essi sarà pericoloso il parlare, di nessuno sarà letale l’amicizia, di nessuno sarà dispendiosa la considerazione. Otterrai da loro qualsiasi cosa vorrai; non dipenderà da essi che tu non assorba quanto più riceverai. Che gioia, che serena vecchiaia attende chi si rifugia in seno alla clientela di costoro! Avrà con chi riflettere sui più piccoli è sui più grandi argomenti, chi consultare ogni giorno su se stesso, da chi udire il vero senza oltraggio, da chi esser lodato senza servilismo, a somiglianza di chi conformarsi. Siamo soliti dire che non era in nostro potere scegliere i genitori che ci sono toccati in sorte: ma ci è permesso nascere secondo la nostra volontà. Vi sono famiglie di eccelsi ingegni: scegli in quale (di esse) vuoi essere accolto; non solo sarai adottato nel nome, ma anche negli stessi beni, che non dovranno essere custoditi né con avarizia né con grettezza: (i beni) diverranno più grandi quanto a più li distribuirai. Costoro ti indicheranno il cammino verso l’eternità e ti eleveranno in quel luogo dal quale nessuno viene cacciato via. Questo è il solo modo di estendere lo stato mortale, anzi di mutarlo in stato immortale. Onori, monumenti, tutto ciò che l’ambizione ha stabilito con decreti o ha costruito con le opere, presto va in rovina, nulla non distrugge e trasforma una lunga vecchiaia; ma non può nuocere a quelle cose che la saggezza ha consacrato; nessuna età (le) cancellerà o (le) sminuirà; quella seguente e poi quelle sempre successive apporteranno qualcosa in venerabilità, poiché appunto da vicino domina l’invidia, più schiettamente ammiriamo quando (l’invidia) e situata in lontananza. Dunque molto si estende la vita del saggio, non lo angustia lo stesso confine che (angustia) gli altri: lui solo è svincolato dalle leggi della natura umana, tutti i secoli gli sono soggetti come a un dio. Passa un certo tempo: lo tiene legato col ricordo; è pressante: se ne serve; sta per arrivare: lo anticipa. Gli rende lunga la vita la raccolta di ogni tempo in uno solo. XVI. Molto breve e travagliata è la vita di coloro che sono dimentichi del passato, trascurano il presente, hanno timori sul futuro: quando saranno giunti all’ultima ora, tardi comprendono, infelici, di essere stati a lungo affaccendati, pur non avendo combinato nulla. E non vi è motivo di credere che si possa provare che essi abbiano una lunga vita col fatto che invochino spesso la morte: li tormenta l’ignoranza in sentimenti incerti, che incorrono in quelle stesse cose che temono; perciò invocano spesso la morte, perché (la) temono. Non è neppure prova credere che vivano a lungo il fatto che spesso il giorno sembri ad essi eterno, che mentre arriva l’ora convenuta per la cena si lamentino che le ore scorrano lentamente; difatti, se talora le occupazioni li abbandonano, ardono abbandonati nel tempo libero e non sanno come disporne e come impiegarlo. E così si rivolgono a qualsiasi occupazione e tutto il tempo che intercorre è per essi gravoso, proprio così come, quando è stato fissato un giorno per uno spettacolo di gladiatori, o quando si attende il momento stabilito di qualche altro spettacolo o piacere, vogliono saltare i giorni di mezzo. Per essi è lungo ogni rinvio di una cosa sperata: ma è breve e rapido quel tempo che amano, e molto più breve per colpa loro; infatti passano da un posto all’altro e non possono fermarsi in un’unica passione. Per essi non sono lunghi i giorni, ma odiosi; ma invece come sembrano brevi le notti che trascorrono nel vino o nell’amplesso delle meretrici! Dsi qui anche la follia dei poeti, che alimentano con le (loro) favole gli errori umani: secondo loro pare che Giove, sedotto dall’amplesso [lett.: addolcito dal piacere], abbia raddoppiato (il tempo di) una notte [è il mito di Alcmena, cui Giove si era presentato sotto le sembianze del marito Anfitrione: raddoppiò la durata della notte, frutto della quale sarebbe stato poi Ercole]. Cosa altro è alimentare i nostri vizi che attribuire ad essi gli dei quali autori e dare al male giustificata licenza mediante l’esempio della divinità? Possono a costoro non sembrare brevissime le notti che acquistano a caro prezzo? Perdono il giorno nell’attesa della notte, la note per paura del giorno. XVII. Gli stessi loro piaceri sono ansiosi ed inquieti per vari timori e subentra l’angosciosa domanda di chi è al massimo del piacere [lett.: di chi massimamente gioisce]: “Fino a quanto ciò (durerà)?”. Da questo stato d’animo dei re piansero la propria potenza, né li consolò la grandezza della propria fortuna, ma li atterrì la fine imminente. Avendo dispiegato l’esercito attraverso enormi spazi di territori e non abbracciandone il numero ma la dimensione, l’orgogliosissimo re dei Persiani [Serse] versò lacrime, perché di lì a cento anni nessuno di tanta gioventù sarebbe sopravvissuto: ma ad essi stava per affrettare il destino proprio lui che (li) piangeva e che ne avrebbe perduti altri in mare, altri in terra, altri in battaglia, altri in fuga ed in breve tempo avrebbe portato alla rovina quelli per i quali temeva il centesimo anno. E pure le loro gioie non sono forse ansiose? Non appoggiano infatti su solide basi, ma sono turbate dalla stessa nullità dalla quale traggono origine. Quali perciò credi che siano i periodi tristi per loro stessa ammissione, quando anche questi (periodi), nei quali si inorgogliscono e si pongono al di sopra dell’umanità, sono poco veritieri? Tutti i beni più grandi sono ansiogeni e non bisogna fidarsi di nessuna fortuna meno che di quella più favorevole: è necessaria nuova felicità per preservare la felicità e si devono fare voti proprio per i voti che si sono esauditi. Infatti tutto quel che avviene per caso è instabile; ciò che assurgerà più in alto, più facilmente (cadrà) in basso. Certamente le cose caduche non fanno piacere a nessuno: è dunque inevitabile che sia penosissima e non solo brevissima la vita di coloro che si procacciano con grande fatica cose da possedere con fatica maggiore. Faticosamente ottengono ciò che vogliono, ansiosamente gestiscono ciò che hanno ottenuto; mentre nessun calcolo si fa del tempo che non tornerà mai più: nuove occupazioni subentrano a quelle vecchie, una speranza risveglia la speranza, un’ambizione l’ambizione. Non si cerca la fine delle sofferenze, ma si cambia la materia. Le nostre cariche ci hanno tormentato: ci tolgono più tempo quelle altrui; abbiamo smesso di penare come candidati: ricominciamo come elettori; abbiamo rinunziato al fastidio dell’accusare: cadiamo (in quello) del giudicare; ha cessato di essere giudice: diventa inquisitore; è invecchiato nell’amministrazione a pagamento dei beni altrui: è tenuto occupato dai propri averi. Il servizio militare ha congedato Mario: (lo) affatica il consolato. Quinzio [Cincinnato] si affanna ad evitare la carica di dittatore [lett.: la dittatura]: sarà richiamato dall’aratro. Scipione marcerà contro i Cartaginesi non ancora maturo per tanta impresa; vincitore di Annibale [a Zama, nel 202 a.C.], vincitore di Antioco [re di Siria, a Magnesia nel 190 a.C.], orgoglio del proprio consolato, garante di quello fraterno [Lucio], se non vi fosse stata opposizione da parte sua, sarebbe collocato accanto a Giove [Scipione rifiutò che la sua statua fosse posta nel tempio di Giove Capitolino]: sommosse civili coinvolgeranno (lui) salvatore dei cittadini e dopo gli onori pari agli dei, rifiutati da giovane, ormai vecchio (lo) compiacerà l’ostentazione di un orgoglioso esilio. Non mancheranno mai motivi lieti o tristi di preoccupazione; la vita si trascinerà attraverso le occupazioni: giammai si vivrà il tempo libero, sempre verrà desiderato. XVIII. Allontànati dunque dalla folla, carissimo Paolino, e ritirati alfine in un porto più tranquillo, spintovi non a causa della durata della vita. Pensa quanti flutti hai affrontato, quante tempeste private hai sopportato, quante (tempeste) pubbliche ti sei attirato; già abbastanza il tuo valore è stato dimostrato attraverso faticosi e pesanti esempi: sperimenta cosa (il tuo valore) può fare senza impegni. La maggior parte della vita, di certo la migliore, sia pur stata dedicata alla cosa pubblica: prenditi un pò di tempo pure per te. E non sto ad invitarti ad una pigra ed inerte inattività, non perché tu immerga quanto c’è in te di vigorosa indole nel torpore e nei piaceri cari al volgo: questo non è riposare; troverai attività più importanti di tutte quelle finora valorosamente trattate, che portai compiere appartato e tranquillo. Tu di certo amministrerai gli affari del mondo tanto disinteressatamente come (di) altri, tanto scrupolosamente come tuoi, con tanto zelo come pubblici. Ti guadagni la stima in un incarico in cui non è facile evitare il malvolere: ma tuttavia, credimi, è meglio conoscere il calcolo della propria vita che (quello) del grano statale. Allontana questa vigoria dell’animo, capacissima delle cose più grandi, da un ufficio sì onorifico ma poco adatto ad una vita serena e pensa che non ti sei occupato, fin dalla tenera età, di ogni cura degli studi liberali perché ti fossero felicemente affidate molte migliaia (di moggi) di grano: avevi aspirato per te a qualcosa di più grande e di più elevato. Non mancheranno uomini di perfetta sobrietà e di industriosa attività: tanto più adatte a portar pesi sono lente giumente che nobili cavalli, la cui generosa agilità chi mai ha oppresso con una gravosa soma? Pensa poi quanto affanno sia il sottoporti ad un onere così grande: ti occupi del ventre umano; il popolo affamato non sente ragioni, non è placato dalla giustizia né piegato dalla preghiera. Or ora, entro quei pochi giorni in cui morì Caio Cesare [Caligola] – se vi è una qualche sensibilità nell’aldilà, sostenendo ciò con animo molto grato, perché calcolava che al popolo Romano superstite rimanessero certamente cibarie per sette o otto giorni -, mentre egli congiunge ponti di navi [Caligola fece costruire un ponte di navi da Baia a Pozzuoli, come ci tramanda Svetonio] e gioca con le risorse dell’impero, si avvicinava il peggiore dei mali anche per gli assediati, la mancanza di viveri; consistette quasi nella morte e nella fame e, conseguenza della fame, la rovina di ogni cosa e l’imitazione di un re dissennato e straniero e tristemente orgoglioso [il re Serse, che costruì un porto sullo stretto dei Dardanelli per la sfortunata spedizione in Grecia]. Che animo ebbero allora quelli a cui era stata affidata la cura del grano pubblico, soggetti alle pietre, al ferro, alle fiamme, a Gaio? Con enorme dissimulazione coprivano un male così grande nascosto tra le viscere e a ragion veduta; infatti alcuni mali vanno curati all’insaputa degli ammalati: per molti causa di morte è stato il conoscere il proprio male. XIX. Rifugiati in queste cose più tranquille, più sicure, più grandi! Credi che sia la stessa cosa se curi che il frumento venga travasato nei granai integro sia dalla frode che dall’incuria dei trasportatori, che non sia madido di umidità accumulata e non fermenti, che sia conforme alla misura e al peso, o se ti accosti a queste cose sacre e sublimi per conoscere quale sia la materia di Dio, quale la volontà, la condizione, la forma; quale condizione attenda il tuo spirito; dove la natura ci disponga una volta usciti dai (nostri) corpi; cosa sia che sostenga ogni cosa più pesante al centro di questo mondo, sospenda al di sopra quelle leggere, sollevi il fuoco in cima, ecciti gli astri nei loro percorsi; e via via le altre cose colme di strabilianti fenomeni? Vuoi, una volta abbandonata la terra, rivolgere l’attenzione a queste cose? Ora, finché il sangue è caldo, pieni di vigore dobbiamo tendere a cose migliori. Ti aspettano in questo genere di vita molte buone attività, l’amore e la pratica delle virtù, l’oblio delle passioni, il saper vivere e il saper morire (lett.: la conoscenza del vivere e del morire), una profonda quiete delle cose. XX. Certamente miserevole è la condizione di tutti gli affaccendati, ma ancor più misera (quella) di coloro che non si danno da fare nemmeno per le loro faccende, dormono in relazione al sonno altrui, camminano secondo il passo altrui, a cui viene prescritto (come) amare e odiare, cose che sono le più spontanee di tutte. Se costoro vogliono sapere quanto sia breve la loro vita, considerino quanto esigua sia la loro quota parte. Perciò quando vedrai una toga pretesta già più volte indossata o un nome famoso nel foro, non provare invidia: queste cose si ottengono a scapito della vita. Affinché un solo anno si dati da loro, consumeranno tutti i loro anni [gli anni si datavano dal nome dei consoli]. Prima di inerpicarsi in cima all’ambizione, alcuni la vita abbandonò mentre si dibattevano tra le prime (difficoltà); ad alcuni, essendo passati attraverso mille disonestà per il raggiungimento della posizione, venne in mente l’amara considerazione di essersi dannati per l’epitaffio; di certuni venne meno l’estrema vecchiaia, mentre come la gioventù attendeva a nuove speranze, indebolita tra sforzi enormi e gravosi. Vergognoso colui che il fiato abbandonò in tribunale, in età avanzata, difendendo litiganti del tutto sconosciuti e cercando l’assenso di un uditorio ignorante; infame colui che stanco del vivere più che del lavorare, crollò tra i suoi stessi impegni; infame colui che l’erede, a lungo trattenuto, deride mentre egli muore dedicandosi ai suoi conti. Non posso tralasciare un esempio che mi sovviene: Sesto Turranio è stato un vecchio di accurata coscienziosità, che dopo i novant’anni, avendo ricevuto inaspettatamente da Caio Cesare [Caligola] l’esonero dalla procura, diede disposizioni di essere composto sul letto e di esser pianto come morto dalla famiglia attorno a lui. Piangeva la casa l’inattività del vecchio padrone e non cessò il lutto prima che gli fosse restituito il suo lavoro. A tal punto è piacevole morire affaccendato? Lo stesso stato d’animo ha la maggior parte: in essi vi è più a lungo il desiderio che la capacità del lavoro; combattono contro la decadenza del corpo, la stessa vecchiaia giudicano gravosa e con nessun altro nome, perché li mette da parte. La legge non chiama sotto le armi a partire dai cinquant’anni, non convoca il senatore dai sessanta: gli uomini ottengono il riposo più difficilmente da se stessi che dalla legge. Nel frattempo, mentre sono rapinati e rapinano, mentre vicendevolmente si tolgono la pace, mentre sono reciprocamente infelici, la vita è senza frutto, senza piacere, senza nessun progresso dello spirito: nessuno ha la morte davanti agli occhi, nessuno non proietta lontano le speranze, alcuni poi organizzano pure quelle cose che sono oltre la vita, grandi moli di sepolcri e dediche di opere pubbliche e giochi funebri (lett.: presso il rogo) ed esequie sfarzose. Ma sicuramente i funerali di costoro, come se avessero vissuto pochissimo, devono celebrarsi alla luce di fiaccole e ceri.

PROGETTO E DESTINO: il «diventa ciò che sei» pindarico e la sua scomposizione nel campo psicoterapeutico, da Ai confini dello sguardo di Gabriele De Ritis

PROGETTO E DESTINO: il «diventa ciò che sei» pindarico e la sua scomposizione nel campo psicoterapeutico

Si tratta di «AIUTARE I SINGOLI A DIVENTARE QUELLO CHE SONO», facendo bene attenzione al cambiamento che subisce il ‘campo’ sul quale si esercita l’azione terapeutica, in quanto la formula da cui siamo partiti si moltiplica nelle altre formule: «DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI», «NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI».

In questo senso, occorrerà capire bene cosa implichi il motto DIVENTA CIÒ CHE SEI. Una persona deve essere aiutata a realizzare la propria natura, più che a passare a vivere quella che a noi sembra la forma di vita migliore. Allora, tornare a vivere ‘libera-mente’ significa imparare a riconoscere e ad accettare come un dato il proprio Sé. A questo deve conformarsi la vera o pretesa libertà dell’Io. Ogni eventuale integrazione o «riparazione» del proprio nucleo originario non comporterà mai un mutamento sostanziale o un annullamento di quella parte di sé che «non piace». Su questa base teorica e metodologica l’asserto di partenza si potrà chiarire, allora, con le espressioni popolari «SII TE STESSO», «NON TRADIRE TE STESSO». La fuoriuscita dalla tossicodipendenza coinciderà, per il resto della vita della persona, con l’accettazione del proprio DESTINO.

«DIVENTA CIÒ CHE NON SEI», ovvero la possibilità del mutamento. L’esperienza ci ha insegnato che il PROGETTO supera il destino quando si avverte come possibile la trasformazione della propria vita sotto la spinta di mete ideali, per quanto esse siano arginate dal principio di realtà. L’utopia, l’esodo, la speranza non sono esiti negati dalla psicoterapia. Rispetto al «diventa ciò che sei», il «diventa ciò che non sei» non si pone come opposto che lo esclude ma come elemento complementare. Si tratta di far interagire ‘libera-mente’ i due momenti nella relazione terapeutica, orientando l’ascolto nella direzione suggerita dalle modificazioni che intervengono nel ‘campo’ e dai ‘punti di resistenza’ che affiorano.

«NON DIVENTARE CIÒ CHE SEI» o della liberazione limitata dai condizionamenti. Sia i condizionamenti naturali che i condizionamenti culturali costituiscono una determinazione che occulta una natura più originaria che non possiamo escludere di poter realizzare nel corso della nostra vita. Non saremo noi a suggerire all’utente questa meta come senz’altro desiderabile, in quanto essa si mostrerà spontaneamente e in forme imprevedibili nello spazio terapeutico. La problematicità di quest’ultimo decide sul corso che prenderanno le cose. L’altro si dislocherà ‘libera-mente’ sotto la guida accorta dell’operatore.

«NON DIVENTARE CIÒ CHE NON SEI»fedeltà al dato originario e perseverazione nella libertà finita. Solo apparentemente siamo ritornati al primitivo «diventa ciò che sei». In realtà, il progetto (diventare) si adegua al destino (ciò che sei) con un movimento che potremmo dire centrifugo, mentre nella forma originaria il movimento è, per così dire, centripeto. Qui si ammette la possibilità di diventare «altro», pertanto di assumere forme, norme, stereotipi e modalità forniti dai modelli storici diffusi in una determinata cultura, e questa possibilità è assunta come rischio di fuga da sé, come pericolo di infedeltà al dato originario. Tuttavia questa possibilità, per quanto astratta, comporta quella libertà senza la quale ogni imperativo non avrebbe senso. Si tratta di una libertà finita, una libertà che si esercita all’interno di condizioni sia pure non del tutto necessitanti. La possibilità di essere se stessi assume valore proprio perché viene preservata questa libertà finita. L’altro oscillerà ‘libera-mente’ dentro la personale dialettica libertà-necessità.

La scomposizione in quattro momenti, a partire dalla formula di partenza, è tipica della fondamentale problematicità che dischiude dinanzi a noi il campo psicoterapeutico: solo in questo spazio di incertezza costitutiva si manifestano sia le possibilità autentiche del diventare se stessi e del non fuggire da se stessi, sia i rischi fecondi della trasformazione del dato originario e del mutamento della direzione.

Brani liberamente tratti e adattati da

MARIO TREVI, Il lavoro psicoterapeutico. Limiti e controversie, THEORIA 1993

da: Progetto e destino : Ai confini dello sguardo.

Emanuele Severino: … di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non siano, cioè è necessario affermare che tutte sono eterne | da Coatesa sul Lario e dintorni. Con commento di Grazia Apisa

… la follia essenziale si esprime nella persuasione che le cose escono e ritornano nel niente. Il mortale è appunto questa volontà che le cose siano un oscillare tra l’essere e il niente.

Al di fuori della follia essenziale, di tutte le cose è necessario dire che è impossibile che non sianocioè è necessario affermare che tutte – dalle più umili e umbratili alle più nobili e grandi – tutte  sono eterne

Tutte, e non solo un dio, privilegiato rispetto ad esse.

se il divenire non appare come annientamento, ma come l’entrare e l’uscire delle cose dal cerchio dell’apparire, allora l’affermazione dell’eternità del tutto stabilisce la sorte di ciò che scompare: esso continua a esistere, eterno, come un sole dopo il tramonto.

Non solo la legna fiammeggiante, le braci, la cenere, il vento che le disperde sono eterni astri dell’essere che si succedono nel cerchio dell’apparire, ma anche tutte le fasi dell’albero che

nella valle ove fresca era la fonte/e il giovane verde dei cespugli/giocava al fianco delle calme rocce/e l’etere tra i rami traluceva/e quando intorno i fiori traboccavano (Holderlin),

hanno preceduto la legna tagliata per il fuoco.

Quando gli astri dell’essere escono dal cerchio dell’apparire, il destino della verità li ha già raggiunti e impedisce loro di diventare niente.

Appunto per questo essi – tuttipossono ritornare

Emanuele Severino

in La strada. La follia e la gioia (1983), Rizzoli Bur, 2008, p.  103-104

Iosif Brodskij, frammento finale dalle Fondamenta Degli Incurabili, traduzione di Gilberto Forti, ed. Piccola Biblioteca di Adelphi, letto da Domenico Pelini, condiviso da Tatusc

Wallace Stevens, La casa era silenzio, letta da Mimmo Pelini

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The house was quiet and the world was calm
The house was quiet and the world was calm.
The reader became the book; and summer night 

Was like the conscious being of the book.
The house was quiet and the world was calm.

The words were spoken as if there was no book,
Except that the reader leaned above the page,

Wanted to lean, wanted much to be
The scholar to whom his book is true, to whom

The summer night is like a perfection of thought.
The house was quiet because it had to be.

The quiet was part of the meaning, part of the mind:
The access of perfection to the page.

And the world was calm. The truth in a calm world,
In which there is no other meaning, itself

Is calm, itself is summer and night, itself
Is the reader leaning late and reading there.

Wallace Stevens

La casa era silenzio e il mondo era calma
Il lettore divenne il libro; e la notte estiva

Era il sentire del libro
La casa era silenzio e il mondo era calma

Le parole furono dette come se il libro non ci fosse
Se non che il lettore era chino sulla pagina,

Voleva stare chino, voleva molto tanto essere
Lo studioso a cui il suo libro dice il vero, a cui

La notte estiva è come una perfezione del pensiero.
La casa era silenzio perchè così doveva essere.

Il silenzio era parte del senso, parte della mente:
Il passaggio che conduce la perfezione alla pagina.

E il mondo era calmo. La verità in un mondo calmo.
In cui non c’è altro senso,essa stessa

E’ calma, essa stessa è estate e notte, essa stessa
E’ il lettore che a tarda ora chino legge.

( versione di Mimmo Pelini su note e parafrasi di Phillip Hill)

Emanuele Severino, È la sostanza di tutte le cose e fondamento della conoscenza

È la sostanza di tutte le cose e fondamento della conoscenza

Pubblicato il 27 maggio 2010 – Corriere della Ser

Emanuele Severino, Le fedi, follia dell’ Occidente

Le fedi, follia dell’ Occidente

Pubblicato il 3 settembre 2010 – Corriere della Sera

O rmai sulla terra ogni conoscenza è diventata una fede; anche ogni conoscenza che guida la volontà, e che guida pertanto anche la volontà di pace; una fede: più o meno complessa, coerente, potente, consapevole di sé, ma pur sempre una fede. Anche la scienza moderna è fede. Tuttavia il senso di ciò che viene chiamato «fede» si mostra solo in relazione al senso della «non-fede», cioè al senso portato alla luce dalla filosofia, in Grecia. La filosofia si rivolge a ciò che si mostra in modo così pieno e ineludibile da non poter esser negato – da «non poter essere altrimenti», dice Aristotele. «Dio» è il contenuto centrale di ciò che si mostra all’ interno dell’ epistéme della verità. Tutto ciò che non si mostra nell’ epistéme della verità può essere altrimenti, è controvertibile, lo si afferma perché si vuole che ad esso competa ciò che di esso si afferma. Tutto il resto è, appunto, fede, mito. In quanto sapere ipotetico, anche la scienza è fede e mito. La volontà stessa, in quanto tale, è fede: innanzitutto è fede di ottenere ciò che essa vuole. Ormai sulla terra ogni volontà – anche la volontà di pace – è guidata dalle contrapposte forme della fede e del mito. L’ epistéme della verità è tramontata. Dato il modo in cui ha compiuto il suo primo passo, il suo tramonto è inevitabile. Il grande problema da affrontare è che volere la «pace» facendosi guidare dalla fede significa volere la «pace» collocandosi nella dimensione della guerra. Ogni fede vuole che il mondo abbia un senso piuttosto che un altro e quindi ogni fede si trova essenzialmente in contrasto con le altre forme di fede, che invece vogliono che il mondo abbia un senso diverso. Dialogando tra loro, o le fedi rinunciano a se stesse in favore di una fede prevaricante, oppure non effettuano questa rinuncia, ma allora è inevitabile che alla fine si scontrino non solo sul piano del dialogo, ma anche su quello dell’ agire effettivo dei popoli e che alla fine prevalga la fede più potente. Relativamente alla «ragione», cristianesimo e islam sono in apparenza molto divergenti; ma al di là delle apparenze e delle loro intenzioni esplicite essi sono sostanzialmente solidali (anche se la cristianità si è allontanata ben di più dell’ islam reale, storico, dalla brutalità del mondo arcaico). Ma non è forse del tutto esplicita la sentenza di Gesù, su quel che si deve a Cesare e a Dio? Non è forse, questa sentenza, la prova più evidente dell’ autonomia che la Chiesa riconosce a Cesare, cioè allo Stato, e, da ultimo, alla «ragione»? Indubbiamente, Gesù conduce la coscienza religiosa in una dimensione dove l’ islam si rifiuta di entrare. Per l’ islam è quel che è di Dio, ossia è la legge di Dio, ad avere il diritto di configurare la struttura e le leggi dello Stato e della «ragione»: date a Cesare quel che è di Dio; rendete Dio padrone di Cesare. Ma chiediamoci ancora una volta: quando Gesù afferma di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, pensa forse che a Cesare si possa dare qualcosa che sia contro Dio? Certamente no! La Chiesa cattolica infatti rifiuta quella «libertà senza verità» (cioè senza verità cristiana) che caratterizza la democrazia semplicemente procedurale del nostro tempo. Ma allora Gesù e la Chiesa pensano che Cesare debba essere cristiano e cioè che le leggi dello Stato debbano essere cristiane. E poiché non possono esistere leggi dello Stato la violazione delle quali non implichi una sanzione, ne viene che la violazione delle leggi cristiane dello Stato richiede una sanzione terrena, ossia già qui sulla terra, prima ancora che nell’ aldilà. La teoria, sostanzialmente comune ad Avicenna e a Tommaso, che una filosofia che smentisca la fede è una falsa filosofia è la traduzione, sul più ampio piano della ragione, del modo in cui, per Gesù, ci si deve porre in rapporto a Cesare e a Dio. Infatti, se a Cesare non si deve dare quel che è contro Dio, allora, quando Cesare è contro Dio, esso è un Cesare falso, uno Stato che è in contrasto col vero Stato: è un Cesare falso, così come una filosofia che sia in contrasto con la «Rivelazione» è una falsa filosofia. Anche alla filosofia si deve dare quel che è della filosofia e alla fede quel che è della fede – purché alla filosofia non si dia quel che è contro la fede (o che è indifferente alla fede). Anche la filosofia, e in generale la ragione, come lo Stato, deve essere filosofia cristiana, o islamica; ragione cristiana, o islamica. Cristianesimo e islam non sono dunque semplicemente due forme diverse e contrastanti di civiltà (non danno luogo a uno «scontro di civiltà»), ma affondano le loro radici nello stesso terreno, cioè appartengono entrambi al grande passato dell’ Occidente, cioè della stessa civiltà. Cristianesimo e islam sono certamente in contrasto; ma questo loro contrasto è la superficie di un contrasto radicalmente più profondo, dove cristianesimo e islam stanno dalla stessa parte, si trovano a combattere il comune nemico mortale, cioè l’ Europa moderna, sebbene, a un livello ancora più profondo, un’ «intima mano» unisca l’ Europa moderna al cristianesimo e all’ islam.

 

Emanuele Severino, Il dilemma della preghiera

Il dilemma della preghiera

Pubblicato il 30 settembre 2010 – Corriere della Sera

 

Emanuele Severino, L’ uomo politico è costretto a mentire

L’ uomo politico è costretto a mentire

Pubblicato il 18 dicembre 2010 – Corriere della Sera

 

Emanuele Severino, Perché Pascal viene rimosso dalla morale benpensante

—> Perché Pascal viene rimosso dalla morale benpensante

Pubblicato il 27 dicembre 2010 – Corriere della Sera

Carlo Sini, Intervista per l’80° compleanno di Emanuele Severino

EMANUELE SEVERINO e GIOVANNI REALE, coordina Armando Torno. Voci di filosofia: DIO, a cura della Fondazione Corriere della Sera, 28 Ottobre 2010

Emanuele Severino: … alla ricerca di quell’essere che sia fuori del tempo …

ci si deve mettere in cammino – un cammino che oggi non è ancora finito – per andare alla ricerca di quell’essere che sia fuori del tempo

Emanuele Severino, L’essenza del nichilismo, Adelphi, 1982, p. 23

 

Emanuele Severino: … Internet è la forma dominante del riconoscimento pubblico … Ciò che non è in Rete non è potente, così come hegelianamente il padrone non è tale se non è riconosciuto dal servo ….

«È oggi la forma dominante di riconoscimento pubblico, ancora più della televisione. Ciò che non è in Rete non è potente e così come hegelianamente il padrone non è tale se non è riconosciuto dal servo, allo stesso modo le varie forme di potenza non sono tali se non sono presenti sul web».

viaIl Caffè filosofico diventa – Quel Giano bifronte di Parmenide, primo – Il Sole 24 ORE.

Emanuele Severino: … le grandi forme di cultura occidentale sono violente, perché si propongono di trasformare il mondo in una qualche direzione …

«Non è solo la tecnica a essere violenta,  ma ogni forma dell’agire.

Ogni violenza presuppone la possibilità che il mondo diventi diverso da quello che è.

Ecco allora che tutte le grandi forme di cultura occidentale sono violente, perché si propongono di trasformare il mondo in una qualche direzione. Il punto è che la tecnica è una violenza vincente rispetto alle violenze perdenti della tradizione occidentale».

da: Il Caffè filosofico diventa – Quel Giano bifronte di Parmenide, primo – Il Sole 24 ORE.

Emanuele Severino: se esistesse una verità eterna «non potrebbe esistere quel divenire del mondo …

Sostiene Emanuele Severino che se esistesse una verità eterna «non potrebbe esistere quel divenire del mondo che esige che non tutti gli spazi della realtà siano occupati dal l’eterno. Ricordo allora le parole di Zarathustra: se gli dei creatori esistessero, che cosa mi resterebbe da creare? Ma è evidente che io creo, quindi gli dei non possono esistere».

E’ morta Silvia Montefoschi, ricordo di Marco Garzonio

Era nata a Roma nel 1926 e lì si formò alla scuola di Ernest Bernhard, il medico che introdusse Jung in Italia, ebbe per pazienti Federico Fellini e Natalia Ginzburg e tenne rapporti con Bobi Bazlen, trai fondatori di Adelphi, grazie a cui si diffuse un sapere psicologico attento a miti, irrazionale, sapienza orientale, religiosità e autonomo verso il freudismo allora dominante. Trasferitasi a Milano, la Montefoschi rappresentò un punto di riferimento importante negli anni 70 e 80. I suoi libri, pubblicati da Feltrinelli nell’ autorevole collana di Psichiatria e di psicologia clinica diretta da Gaetano Benedetti e Pier Francesco Galli, divennero un richiamo per una generazione di studiosi e di persone alla ricerca di sé e di un senso da dare alla vita nelle tensioni anche drammatiche d’ un passaggio che fu epocale. Erano gli anni frutto del ‘ 68, del femminismo, dei movimenti di liberazione a livello internazionale, di un marxismo che intercettava ancora le esigenze di cambiamento ma non riusciva a uscire da schematismi ideologici, di un post concilio che accendeva le speranze dei cristiani. Silvia Montefoschi seppe interpretare il momento storico con scelte di vita rigorose. Lasciò il rifugio delle istituzioni analitiche per essere più libera nell’ elaborazione del suo pensiero. Tese gli sforzi a ridare funzione «sociale» alla psicanalisi riportandola al suo compito essenziale: consapevolezza e trasformazione interiore; la convinzione era che solo dai cambiamenti interiori si può immaginare che fiorisca una nuova pratica umanistica e sociale. Meta della Montefoschi fu di operare perché l’ uomo e la donna lavorassero a una continua presa di coscienza della realtà e dei condizionamenti, non solo per risolvere i propri problemi personali, ma per diventare individui responsabili, che, insieme ad altri, pongono mano al cambiamento delle relazioni intersoggettive, del collettivo, delle culture di riferimento. Di lei resta di grande attualità una incondizionata fiducia nella dialettica dei saperi, nel dialogo tra le persone, nella vita interiore arricchita dal lavoro con l’ inconscio e i sogni, nell’ autorealizzazione di se stessi come destino che accomuna uomini, generazioni, epoche.

da: Silvia Montefoschi, la psicanalista che seguì Fellini e la Ginzburg.

Gabriele De Ritis, MOMENTI D’ESSERE (2): Il respiro dell’Angelo

Audio

Domenica, 27 febbraio 2011

“Gli angeli non conoscono l’ansia” EUGENIO BORGNA

La condizione angelica evoca stati di coscienza e posture analoghe nell’uomo. Essa rimanda ad aspirazioni e tensioni eroiche, tipiche di quell’eroismo morale che ci spinge a sostare per un tempo indefinito alle soglie dell’inferno, ad attraversare la soglia, a dare un nome all’inferno, a riemergerne con la creatura che eravamo andati ad affiancare nel suo cammino all’indietro.

Bisogna scendere, per poter salire.Descensus ad Inferos, discesa agli Inferi è stato chiamato il viaggio da compiere nell’Oltretomba in cerca delle proprie ragioni, presso le anime dei propri numi tutelari. Allo stesso modo io chiamo il cammino accanto all’Ombra dell’‘esistenza spezzata’, cioè la condizione tossicomanica, quella paralisi dell’esistenza che ‘esce’ dal tempo mondano, rinunciando a protendersi verso il futuro.

La contrazione del tempo non è certo il risultato di una scelta! Piuttosto, si tratta di una malattia del tempo vissuto. La riduzione della vita della coscienza a un eterno ‘presente’, al vivere nello spazio di una giornata tutte le opportunità a disposizione, senza nulla chiedere per poter durare oltre l’orizzonte della sera, induce chi affianca la persona a sentirsi angelo, come se ci fosse da sostare di fronte all’Altissimo per un’eternità, aspettando il proprio turno per poter cantare una sola volta: è, ugualmente, attesa l’indugio e il rinvio ripetuti infinite volte.

Prendere la parola, allora, non è un vero parlare: manca un vero interlocutore. Al di là della parete di vetro che ci separa dall’altro arriverà un bisbiglio soltanto. Frammenti di senso saranno sparsi nel tempo, posati delicatamente sull’anima, perché si facciano eco di altre voci. L’inaudito del quotidiano è messaggio e farmaco. La voce dell’angelo ha un suo respiro. E’ il ritmo consueto della vita, che viene riproposto semplicemente indicando le proprie necessità quotidiane, perché nasca nell’altro la nostalgia del tempo perduto. Da questa sponda è importante che parta l’alito sommesso del vento ristoratore: vicinanza e ascolto toccano l’anima. Qualunque cosa accada dall’altra parte, è anche merito del ritmo di questa voce.

*

Leggere EUGÈNE MINKOWSKI, Il tempo vissuto, EINAUDI e, in particolare, le pagine 90-93 sull’attesa – la scheda di ALBERTO BIUSO

da: MOMENTI D’ESSERE (2): Il respiro dell’Angelo : Ai confini dello sguardo.

Gabriele De Ritis: Momenti d’essere 1, la sala del commiato

Domenica, 27 febbraio 2011

La prima idea mi è venuta ieri, all’ingresso della Camera mortuaria del Policlinico di TorVergata, dove Paolo attendeva di essere trasferito a Sora, per i funerali di rito. A sinistra del corridoio che conduce agli spazi in cui vengono sistemate le bare, una stanza con un divano e basta. A destra della porta, una piccola insegna, poco appariscente, con la scritta: Sala del commiato. E sotto quella scritta, altre parole: un invito ad accogliere e confortare parenti e amici.

Sarà stata la parola ‘commiato’ a turbarmi. La vista di Paolo, immobile con jeans e casacca sportiva sopra una camicia a righe sbottonata, non mi ha sconvolto, per quanto lo amassi, come tutti i nostri ragazzi. L’abbraccio alla madre e al padre, la lunga sosta accanto a lui, le carezze al viso, la stretta alle mani. Il gelo della sua pelle contrastava con la dolcezza della sua espressione. Il viso non era contratto. Sembrava che dormisse. Di questo abbiamo parlato a lungo. La madre ha raccontato gli ultimi mesi trascorsi con lui. C’era stato un riavvicinamento, dopo quindici anni di contrasti e incomprensioni. Lei non faceva che dire questo: in questi ultimi tempi Paolo è stato solo mio. E di questo strazio ci sarà da dire ancora. Oggi la ferita sanguina troppo.

Prima di andar via, sono tornato a considerare l’esistenza di quella sala di commiato. Forse, era la parola ‘sala’, che fa pensare a un ambiente grande, spazioso. Si trattava di un’angusta stanzetta senza arredo. Un piccolo divano a destra faceva pensare che fosse dedicata solo a due o tre persone. Ma di più mi aveva colpito la parola ‘commiato’. Saluto. Congedo. Un modo per consentire l’incontro con persone di riguardo? Perché appartarsi, poi? Era opera di una sorta di Associazione, che compariva sotto la piccola insegna, a ricordare di chi era stata l’idea. Inizialmente, mi sono detto: buona idea! Ma poi, di fronte a tutta la gente, che era tanta, e che stava tutta nel corridoio o fuori a fumare, mi è rimasto il dubbio o meglio l’interrogativo: a cosa servirà questa Sala? A realizzare un luogo più intimo in cui raccogliersi a raccontare, a confortare? Ancora adesso, mi infastidisce il pensiero che io non riesca a spiegarmi bene la funzione di quella Sala, in un luogo sempre molto affollato. Ho il sospetto che mai nessuno si fermerà su quel divano a ‘raccogliere’ il dolore in una più calda intimità. Il gelo della morte potrà mai essere riscaldato da una simile Sala? Si desidera forse un po’ di ‘calore’ in quei momenti? Ne dubito. Di fronte all’immane e all’irreparabile si accetta anche di stare in uno squallido corridoio, con le pareti di pietra, e con due sole sedie nel cubicolo senza porta in cui serialmente viene sistemata la bara che ci sta a cuore. Si sente distintamente il grido di dolore proveniente dal cubicolo confinante. Sarà per questo che qualcuno ha pensato di concedere a due dei tanti la possibilità di appartarsi un po’, per dare una voce più pacata al proprio dolore e magari per raccontare più sommessamente come andarono le cose, a dispetto del Destino, nell’esistenza di una persona che per esigenze burocratiche è momentaneamente sistemata nel cubicolo n.3?

da: http://www.gabrielederitis.it/wordpress/?p=9608

Carlo Tullio-Altan: Fondamenti della identità nazionale: epos, ethos, logos, genos, topos, oikos

L’identità nazionale di un popolo, oltre ad essere determinata dalle condizioni materiali della sua economia e dall’efficienza e giustizia del sistema di norme di convivenza e di istituzioni, è vissuta anche come un valore simbolico di aggregazione: come Patria.
Il sentimento della identità nazionale, la Patria, di un popolo si fonda sopra la memoria storica del suo passato inteso come epos, sull’insieme delle norme di convivenza e delle istituzioni vissute come valori che diventino parte integrante della coscienza dei cittadini, il suo ethos, sulla lingua parlata in comune, il suo logos, sui vincoli della parentela e della stirpe, il suo genos, sulla terra natale, la madre-patria, il suo topos o il suo oikos, cui un popolo si sente affettivamente legato.
Se noi teniamo presenti questi elementi per quanto riguarda il nostro paese, possiamo rilevare che non è possibile tener conto dei valori del nostro passato, se non in misura assai relativa, perché troppo lontani nel tempo dal nostro presente, ed anche perché noi dimostriamo, con i nostri concreti comportamenti, di provare uno scarso rispetto per il patrimonio artistico di cui siamo immeritatamente gli eredi. Per quanto riguarda l’amore per la nostra lingua comune si osserva che spesso la trascuriamo a favore dei nostri dialetti locali. Per quanto riguarda i rapporti sociali noi privilegiamo diffusamente i legami di famiglia, di parentela, di consorteria, a quelli che dovrebbero legarci alla comunità nazionale, e per finire, noi trascuriamo in modo deplorevole i valori naturali della terra in cui viviamo.
Ma in un punto siamo particolarmente carenti: quello del nostro ethos, e cioè sul terreno dei valori morali e civili della convivenza e della corresponsabilità alle sorti comuni che dovrebbero unirci nella comunità nazionale. Il nostro maggior difetto, come coscienza nazionale democratica sta proprio qui e continua a pesare negativamente sulle sorti del Paese anche dopo la sua unificazione politica….

DA: Carlo Tullio-Altan: Una religione civile per l’Italia d’oggi.

Carmelo Bene legge L’infinito di Giacomo Leopardi

Gabriele De Ritis, Nodi e Relazioni, in Ai confini dello sguardo

Nodi e Relazioni

Grazia Apisa, “Dal presupposto parmenideo L’ESSERE E’ IL NON ESSERE NON E’ si giunge al riconoscimento che la verità abita la soggettività umana e che ciò che più propriamente definisce l’umano è di essere il luogo in cui la verità si manifesta.”

Caro Paolo,
qualche giorno fa avevo scritto un lungo commento su Abitatori del tempo,ma nell’inviarlo, mi è sparito e non sono più riuscita a ritrovarlo. Ora cerco di prendere qualche appunto dei pensieri che mi vengono in mente ,onde poter ricostruire lo scritto.
Qui la verità , non più abitatrice del tempo, fuori dell’uomo, lontana dall’uomo, viene invece riconosciuta nel LUOGO del suo darsi specifico : l’uomo , ciascun uomo. E’ senz’altro questo l’aspetto più significativo della trattazione. La riscoperta della soggettività come luogo privilegiato del dirsi dell’essere .
Dal presupposto parmenideo L’ESSERE E’ IL NON ESSERE NON E’ si giunge al riconoscimento che la verità abita la soggettività umana e che ciò che più propriamente definisce l’umano è di essere il luogo in cui la verità si manifesta.
Direi che ci troviamo davanti ad un salto conoscitivo,un vero salto di logica che restituisce all’uomo il suo esserci nell’universo, non più condizionato ad una trascendenza fuori di lui, bensì riconosciuta in lui stesso: Distanziandosi dalla visione di sé come “finitudine”, l’uomo accede all’infinito che riconosce in se stesso ,nel proprio essere: Noi siamo abitatori della verità e al contempo dell’infinito, dal momento che è in noi che l’infinito si sperimenta, si crea, si dice e si riconosce.
Carissimo Paolo ho condiviso in F.B. il link
Grazie per la tua attenzione
Grazia

Paolo Ferrario prova a rispondere a una domanda sul pensiero di Emanuele Severino: “ma qual’è il nocciolo (la ghianda, direbbe James Hillman) della sua mappa conoscitiva che più si lega alle politiche sociali dei servizi alla persona ed al lavoro professionale? è la riflessione e sul dolore e la morte”

cara ***

[…]

la domanda che mi ha letteralmente “animato” è stata l’ultima. Quella che più o meno risuonava così: “occorre un approccio filosofico nella consulenza?”

qui sono stato letteralmente catapultato nel mio attuale rovello conoscitivo esistenziale, che è il pensiero della vecchiaia di emanuele severino

dico della sua vecchiaia perchè da una ventina d’anni lui fa solo divulgazione e “consulenza”. fa lezione nelle piazze, nei teatri. è come se si fosse dato il compito di far calare nella vita i suoi altissimi e profondissimi appigli di senso.  e la sua forza comunicativa ne guadagna in felicità intersoggettiva.

ho poi visto che nel tuo libro (a proposito grazie ancora per i due libri che mi hai donato) hai in bibliografia il suo la tendenza fondamentale del nostro tempo.

ma qual’è il nocciolo (la ghianda, direbbe james hillman) della sua mappa conoscitiva che più si lega alle politiche sociali dei servizi alla persona ed al lavoro professionale?

è la riflessione e sul dolore e la morte

tutti i suoi nuclei concettuali girano attorno a questa oggettiva condizione. quella da cui parte la filosofia greca e tutto lo sviluppo dell’occidente

poichè mi è sembrato che tu fossi interessata a questo filone del pensiero di severino ti rimando a qualche suo testo e fonte orale in cui severino costruisce la sua rete concettuale:

  • il libro fondamentale è Il giogo, adelphi editore. si tratta della sua mirabile ed eternamente insuperabile traduzione e rilettura di eschilo. credo proprio che convenga partire da lì per arrivare ai fondamenti del suo percorso. ti allego il mio file pdf che contiene tutto il libro. vedrai subito dall’indice che è una fonte straordinaria
  • c’è poi una sua lezione sul tema “il dolore e la contraddizione”. ho copiato la lezione sul mio server degli audio: http://www.divshare.com/download/13691248-280. purtroppo l’audio in qualche momento è pessimo. mi sono dato il compito di sbobinarlo. sentirai qualcosa di “inaudito” sul dolore
  • infine sto studiando un suo ciclo recente di lezioni: Volontà, destino, linguaggio, rosenberg & sellier . sono lezioni a braccio che ha tenuto a torino nel 2010. qui c’è la sapienza di un vecchio che non se la tira per nulla, che non ha le tonalità del predicatore alla ricerca di proseliti, che non fa il prepotente nell’imporre la sua visione. c’è un portatore di logos che parla quasi in modo impersonale, anche se la sua soggettività traspare in modo lucente

ecco: ci tenevo a dirti queste fonti, che a me sembrano andare alla radice e anche oltre le radici

diciamo che questo è, per certi versi, il proseguimento all’ultima tua domanda della intervista

grazie per l’attenzione e buone ore nel tempo

un caro saluto

paolo

Emanuele Severino, Noi come luogo della verità

Emanuele Severino: “La morte è l’assentarsi dell’eterno”

“La morte è l’assentarsi dell’eterno”

da:Emanuele Severino – Aforismi e citazioni – MSN Italia.

Emanuele Severino, VERITA’ E TECNICA, lezione a Monza all’interno del ciclo ABITATORI DEL TEMPO, 18 Febbraio 2011, ore 21-23

 

LEZIONE DI EMANUELE SEVERINO SU:  VERITA E TECNICA, Monza, Teatro Manzoni, 18 febbraio, ore 21

Ho registrato la lezione magistrale.

Puoi sentirla da qui:

Oppure fare download e sentirla in cuffia da un lettore

Lunga, lunga vita a Emanuele Severino , mediatore necessario verso gli Eterni.

Paolo Ferrario


 

Eschilo e Severino

“Si ignora anche la grandezza filosofica di Eschilo.

E la cosa è anche più grave. Insieme a pochi altri,

egli apre il cammino dell’Occidente.”

(E. Severino, Il nulla e la poesia)

 

Esiste un arco che ha ai suoi estremi Eschilo e Leopardi. La parabola che corre dall’uno all’altro è ciò che chiamiamo Occidente. Con Eschilo nasce infatti l’illusione essenziale: che la conoscenza della verità – quella parte della verità certa e immutabile a portata della ragione degli uomini – è il solo rimedio che la nostra specie abbia per salvarsi dal dolore. Il dolore essenziale è quello della morte. La verità è il rimedio al dolore per la propria incompiutezza e mortalità perché la verità come epistéme “è il rimedio al dolore, perché mostra incontrovertibilmente che la sostanza di tutti gli essenti, è eterna, “sempre salva” dal niente (Aristotele, Metaph. 983 b 13” (E. Severino, Il nulla e la poesia).

 

Solo con Leopardi questo percorso trova il suo epilogo; perché “Leopardi, per primo, pensa che la verità è appunto l’annientamento della vita e delle cose e che quindi non può essere il rimedio del dolore. La verità è il dolore” (Ibid.).

 

Ancora:

 

“Nel pensiero di Leopardi la fede nell’“evidenza” del divenire acquista una intensità che non aveva mai avuto: con estrema potenza testimonia ciò che per essa è la visibilità pura, la luce piena dove appare che l’annientamento non distrugge (e la creazione non produce) semplicemente gli aspetti accidentali e individuali, ma la sostanza stessa e l’intera consistenza dell’essente. Testimonia il “nulla verissimo e certissimo delle cose” (Zib. 103)” (Ibid.).

 

“Che l’angoscia estrema sia prodotta dall’annientamento degli essenti e dal loro provenire dal nulla è uno dei tratti essenziali e decisivi delle origini del pensiero filosofico. Riceve la sue espressione più grandiosa da Eschilo; guida l’intera storia dell’Occidente; il pensiero di Leopardi ne è la testimonianza più pura, all’inizio del processo in cui la cultura contemporanea rifiuta il rimedio che la tradizione dell’Occidente aveva preparato contro l’angoscia del nulla: la ragione come rimedio. E’ “la ragione umana… incapace di farci non dico felici ma meno infelici”; anzi, è “fonte … di assoluta e necessaria pazzia” – anche se, certo, “verissima pazzia” (Zib. 103-4).” (Ibid.).

 

 

da: eschilo e severino.

LEGGERE EMANUELE SEVERINO (2): I testi presenti nel web : Ai confini dello sguardo

La sua opera è pubblicata dall’editore Adelphi

Su Wikipedia

Sull’Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche >>Che cos’è la verità? – L’utile e il bene – La filosofia e la fede – Che cos’è la tecnica? – La fede e il problema della veritàEsiste la guerra giusta? – Cosa significa conoscere? – Etica e progresso – Il tempo della filosofia – Le ‘Opere di Genio’: Leopardi

LEGGERE EMANUELE SEVERINO (1): Lettera di Massimo Cacciari a Emanuele Severino

LEGGERE EMANUELE SEVERINO (2): I testi presenti nel web

LEGGERE EMANUELE SEVERINO (3): «L’uomo è atteso dalla terra che salva».

LEGGERE EMANUELE SEVERINO (4): La struttura originaria è l’essenza del fondamento.

Alle pagine 546-553 del volume 14 – Filosofi italiani contemporanei – della Storia della filosofia Bompiani, curata da Dario Antiseri e Silvano Tagliagambe, è possibile leggere la scheda dedicata ad Emanuele Severino, tanto più preziosa in quanto scritta da lui. Dopo una pagina con vita e opere, la Tesi, seguita da un solo titolo ancora: Nichilismo e Destino. Leggiamo la Tesi:

Se fin dall’inizio la filosofia intende raggiungere la forma più radicale e innegabile di sapere, e in questa sua ricerca è destinata a fallire, l’assolutamente Innegabile appare invece già da sempre e per sempre in ognuno di “noi”, sebbene contrastato dall’isolamento della terra, ossia dalla fede che il divenire delle cose sia la fondamentale o unica terra sicura con cui l’uomo ha a che fare. L’isolamento della terra è la radice ultima del dolore e della morte; e della follia estrema: la negazione dell’Innegabile.

Nella terra isolata appare la “storia dei mortali”: il mito, la distruzione filosofica del mito, la distruzione (in cui consiste l’essenza della filosofia del nostro tempo) della tradizione filosofica, l’avvento della civiltà della tecnica, che spinge al tramonto le grandi forze della tradizione occidentale (e a maggior ragione dell’Oriente), ma che a sua volta è destinata al tramonto. La filosofia è la culla delle opere e dei pensieri dell’Occidente.

Nell’Innegabile – nel “destino della verità” – appare che ogni essente è eterno, che il sopraggiungere delle cose della terra è il comparire e lo scomparire degli eterni; che il destino è lo sfondo eternamente manifesto di ogni comparire e scomparire; che il destino (ognuno degli infiniti luoghi o cerchi in cui appare il destino) è assolutamente se stesso nella Gioia, ossia nell’Apparire della totalità degli essenti, che in ogni cerchio (in ognuno di “noi”) l’isolamento della terra è destinato a tramontare, e la terra è liberata dal dolore, dalla morte e dalla follia; che la Gloria della terra così liberata è l’inesauribile dispiegarsi della Gioia nei cerchi del destino.


da: LEGGERE EMANUELE SEVERINO (2): I testi presenti nel web : Ai confini dello sguardo.

Paolo Ferrario, Silenzio e lentezza: nuovi valori del nostro tempo? | Muoversi Insieme di Stannah

Non ci sono dubbi: viviamo in ambienti carichi di rumore e trascorriamo le nostre giornate spinti dal bisogno di velocità. Può quindi sembrare strano che, nonostante tale situazione, si moltiplichino tendenze del tutto opposte, come il ritorno della Giornata mondiale della lentezza, il prossimo 28 febbraio, e la nascita, qualche mese fa, dell’Accademia del Silenzio, legata strettamente all’esperienza della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, che nelle prossime settimane lancerà il proprio progetto a Milano e a Torino. E la trasformazione culturale è segnalata anche da alcuni blog, che diventano sempre più indicatori di cambiamento: Turismo lento e siti amici come Ascoltare il silenzio.
Nel continuare le nostre argomentazioni attorno a quella fase del ciclo della vita che chiamiamo prevecchiaia, può essere di estremo interesse contrapporre (per approfondire) i significati delle parole chiave “silenzio-rumore” e “lentezza-rapidità”.
La continua crescita dei suoni, tipica del mondo moderno, ha prodotto  …..> segue qui: 

http://www.muoversinsieme.it/famiglia/silenzio-e-lentezza-nuovi-valori-del-nostro-tempo/

 

scaletta dell’articolo:

  • rumore e musica
  • silenzio della architettura
  • “darsi tempo” e pause nella comunicazione
  • Sansot sull’arte della lentezza
  • le Lezioni americane di Italo Calvino
  • il campo minato delle patologie
  • Edward HopperMark Strand
  • “esercizi esistenziali” del silenzio: farmacia musicale, Il grande silenzio di Philip Groning, silenzi abissali di Jason deCaires-Taylor; ritorno all’immutabile Giacomo Leopardi
Connessioni:

da: Paolo Ferrario, Silenzio e lentezza: nuovi valori del nostro tempo? | Muoversi Insieme di Stannah « Politica dei servizi sociali: ricerche in rete.

Intervista a Vincenzo Vitiello per gli 80 anni di Emanuele Severino

Emanuele Severino, Istituzioni di filosofia, Morcelliana, 2010

Emanuele Severino,

Istituzioni di filosofia


DESCRIZIONE: Questo corso di Istituzioni di Filosofia, pubblicato in forma di dispensa nel 1968, rappresenta uno degli ultimi momenti dell’insegnamento di Emanuele Severino all’Università Cattolica di Milano, dalla quale si allontanerà nel 1970 per passare all’Università di Venezia. È un ciclo di lezioni contemporaneo alla stesura dei saggiIl sentiero del Giorno (1967), La terra e l’essenza dell’uomo (1968), Risposta ai critici (1968), in cui Severino approfondisce la svolta iniziata con Ritornare a Parmenide, e che culminerà con la raccolta di questi e altri saggi nel libro Essenza del nichilismo (Paideia, 1972). Ripensando a queste lezioni, Salvatore Natoli, allora assistente di Severino, ha scritto: «Severino […] mi ha costretto a dare consistenza alle mie argomentazioni filosofiche, a fornire giustificazioni adeguate alle mie tesi e direi che mi ha definitivamente vaccinato dai vizi delle mode filosofiche».
Rigore dell’argomentazione e attenzione al variare del significato delle categorie e dei problemi costitutivi della filosofia (identità, contraddizione, dialettica, verità, realismo, idealismo…): questo in sintesi il contenuto del libro. Pagine che, a più di quarant’anni dalla stesura, permettono al lettore, come agli uditori di allora, di fare esperienza di cosa significa educare al pensiero: filosofare è saper declinare in modo riflessivo l’Èlenchos, la confutazione come fondamento dell’argomentazione. Uno stile che fa di questo testo un luogo privilegiato per entrare nel laboratorio didattico di un pensatore che è stato definito il doctor implacabilis.

COMMENTO: Le lezioni tenute nel 1968 da Emanuele Severino in Università Cattolica a Milano, pagine inedite dove la filosofia viene insegnata non solo attraverso i classici (Parmenide, Aristotele, Cartesio, Kant, Hegel…), ma soprattutto ragionando sui suoi temi fondamentali, come un filo rosso nella storia della filosofia: la verità, il problema della conoscenza, tra soggetto e oggetto, il problema del realismo, il principio di non contraddizione, la dialettica, la confutazione…

EMANUELE SEVERINO è uno dei maggiori filosofi contemporanei. Per i tipi della Morcelliana ha pubblicato: Democrazia, tecnica, capitalismo (20102). Tra le sue opere più recenti: Oltrepassare (Adelphi, 2007), Immortalità e destino (Rizzoli, 2008),L’identità del destino. Lezioni veneziane (Rizzoli, 2009), L’intima mano. Europa, filosofia, cristianesimo, destino (Adelphi, 2010).

COLLANA: Filosofia – Testi e Studi n. 18


ANNO:
2010

PAGINE: 240

CODICE ISBN: 978-88-372-2456-1

da: Morcelliana, antico e nuovo testamento, sacra scrittura, teologia, filosofia, letteratura cristiana antica, esegesi biblica.

Emanuele Severino, Volontà, destino, linguaggio, Filosofia e storia dell’occidente, Rosenberg Sellier 2011


Volontà, destino, linguaggio

Filosofia e storia dell’occidente

Emanuele Severino

di Ugo Perone

Troviamo qui alcuni ingredienti fondamentali della filosofia severiniana: da un lato il non essere che viene attribuito all’apparenza, la quale, interpretata come cangiante diventar sempre altro da sé, ossia come divenire, è assimilata in ultima istanza al nulla. Ma se ciò che appare è nulla, cosa sarà l’essere?
Forse ciò che non appare, ma regge, sta sopra, giudica, divide, taglia. E allora si inserisce il tentativo di attribuire senso al non senso cangiante delle cose. Quest’attribuzione di senso che soggiace a tutte le interpretazioni, e a forme di cultura venerande come il cristianesimo, non è altro che prodotto della volontà.

La coscienza filosofica che determina l’Occidente appare imprigionata entro questo pendolo che la consegna all’opposizione tra il mito, che produce il dominio sulle cose con un violento atto di volontà, e il sapere puro che accede all’essere incontrovertibile, ma non riesce speculativamente a rendere ragione dell’apparire dell’apparenza. La filosofia di Severino è un tentativo di uscire da questa morsa, tenendo fermo un sapere filosofico che non deflette dalla pura logica di un pensare che non si lascia determinare né dalla volontà né dal desiderio

La filosofia è sorta con un atto di divisione che ha separato ciò che sta, immutabile e incontrovertibile, da ciò che da questo essere è retto, ovvero con la divisione, celeberrima, tra essere e apparenza. Il mondo dell’apparenza, interpretato come luogo del divenire, ha assunto i tratti del non essere, imponendo ai filosofi l’esigenza di mettere in relazione il non essere con l’essere, ovvero di trovare una compatibilità tra contraddittori.
La soluzione severiniana, che è qui ripercorsa in 6 dense lezioni, ha il pregio della semplicità e il rigore di un ferreo argomentare logico. Egli nega al divenire l’evidenza fenomenologica che comunemente gli si attribuisce. È certamente vero che i fenomeni entrino ed escano dalla percezione della coscienza mortale, ma senza che questo debba essere attribuito a un loro presunto divenire. Che l’apparenza sia il luogo del divenire è piuttosto un modo filosofico per rendere ragione dell’apparire dell’apparenza.
Su queste basi la proposta di Severino offre un superamento del dualismo essere-apparenza e aiuta a leggere l’apparenza in manifestazione necessaria ed eterna dell’essere.
IndicePremessa di Ugo Perone

1. Filosofia e storia dell’Occidente, epistéme della verità

2. Senso e strutture dell’incontrovertibile nella prospettiva del pensiero occidentale e nello sguardo del Destino

3. Destino e verità

4. Apparire, diventar altro, decidere

5. Il problema della libertà e la tecnica

6. Destino e linguaggio

da: Volontà, destino, linguaggio, Filosofia e storia dell’occidente, Rosenberg & Sellier Editori, dubbio & speranza.

Giacomo Leopardi, L’infinito, lettura di Massimo De Francovich

La lettura è tratta da una trasmissione radiofonica dedicata alla interpretazione di Emanuele Severino del pensiero poetante di Giacomo Leopardi.

Il paesaggio è il lago di Como

Duccio Demetrio, Libri scritti per sé: per resistere, per riaprirsi alla vita, da Connecting Cultures – Associazione Culturale per la formazione, la ricerca e le arti visive – Milano

….

Gli antefatti personali descritti mi hanno condotto a individuare per questo appuntamento on linecinque titoli esemplari, che ora vi presenterò brevemente; i quali, dopo quanto detto, spiegheranno da soli la ragione per cui li abbia scelti tra altri.  Presentano tutti una consonanza con ciò di cui mi occupo, seppur da punti di vista differenti. Si tratta infatti di saggi innanzitutto sempre connotati dalla presenza di un io che si narra in prima persona; in secondo luogo, sono connessi a scelte che hanno cambiato non poco la vita degli autori e delle autrici nel mentre li andavano scrivendo. In essi, costoro presentano un loro punto di vista interessante e originale sulla nozione di cura di sé e di auto guarigione sempre attraverso “esperimenti con la scrittura” e in relazione a momenti dell’ esistenza  particolari nei quali lo scrivere si sia reso necessario, in un caso,  per non vivere più  la solitudine come malessere; in un altro, per uscire dalla depressione grazie ad un contatto diretto e continuativo con la natura; oppure per  rallentare la frenesia del vivere quotidiano e tornare ad occuparsi di sé ben al di là di uno sterile egotismo; o anche per sconfiggere  la malattia anche con la scrittura introspettiva e, infine, per riuscire a convivere con le parti diverse di noi stessi grazie alla fedeltà  assoluta alla  creazione poetica. Si tratta dunque di cinque vissuti autobiografici, che ci dimostrano quanto  la scrittura agisca come un balsamo e un farmaco nei momenti critici delle nostre vite, i quali  nondimeno ci forniscono prove inequivocabili di quanto il por mano alla penna ci consenta di auto educarci con continuità, perseveranza, eccitazione emotiva, riflessività ben oltre gli sconfitte subite. Poiché in tutte le situazioni citate, gli autori ci mostrano di aver compreso quanto, da adulti, si apprenda da noi stessi frugando nella memoria, dalla nostra esperienza in divenire, dagli  errori più che dai successi, dai torti subiti oltre che da quelli  inflitti ad altri. La materia che abbiamo a disposizione in ogni istante – ci hanno insegnato tra i primi Sant’Agostino, Michel di Montaigne, J. Jacques Rousseau – è la nostra storia; il nostro rievocare diventa sempre introspezione e “esame di sé”, purché si abbia la perseveranza e l’appagamento di  trasformare tale condotta interiore in una sorta di rito laico pressoché quotidiano. Purché si abbia il coraggio di guardarci senza sotterfugi sulle pagine che andiamo scrivendo come in un anomalo specchio. Per tali motivi, la scrittura autobiografica, in quanto forma autoanalitica di cura, rappresenta un’ attività non da tutti amata e perseguita. Soprattutto i maschi ne evitano le implicazioni emotive, per un’atavica resistenza a raccontare di sé anche là dove questo apertura sarebbe educativa per gli altri. In tempi in cui l’apparire conta più dell’essere; la finzione, più della ricerca della verità; lo spettacolo, più dell’ indagine introspettiva sincera e lontana da ogni riflettore, è ovvio, che la scrittura pur dando forma a qualcosa di noi, al contempo nasconde sia quanto vogliamo resti soltanto nostro, sia quanto di noi non riusciremo mai a comprendere.


Duccio Demetrio
è professore ordinario di filosofia dell’educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’Università degli studi di Milano-Bicocca (duccio.demetrio@unimib.it). Ha fondato e diretto la rivista Adultità (ed. Guerini) nel 1995; e inoltre la Libera Università dell’autobiografia di Anghiari; nel 2006 la Società di Pedagogia e didattica della scrittura Gràphein. Con la giornalista Nicoletta Polla-Mattiot ha dato vita all’ Accademia del silenzio, che verrà presentata alla Casa della Cultura di Milano il prossimo 9 marzo. Sono molti i suoi saggi monografici e le opere collettanee dedicati all’approccio autobiografico e alle sue applicazioni (cfr: Raccontarsi 1996;Pedagogia della memoria 1998; Ricordare a scuola 2003; Album di famiglia 2002; Autoanalisi per non pazienti, 2003; La scrittura clinica 2008). Si è sempre occupato di età adulta come filosofo oltre che come studioso di formazione (fra gli altri citiamo: L’età adulta 1990; Elogio dell’immaturità, 1997; Manuale di Educazione degli adulti 1997; Filosofia dell’educazione ed età adulta 2004; In età adulta 2005). Di questa età  ha indagato ogni più riposto problema esistenziale, soffermandosi in modo particolare sulla presenza del mito dentro di noi, sulle forme della  religiosità , contemporanea; sulla debolezza e la fragilità umana come risorsa: vedi: Di che giardino sei? 2000; Filosofia del camminare, 2005; La vita in schiva 2007; Ascetismo metropolitano, 2009; e, il recentissimo: L’ interiorità maschile. Le solitudini degli uomini, 2010. Il prossimo libro si intitolerà: La religiosità della terra. Il divino nelle cose finite, la cui uscita è prevista per l’ autunno del 2011 edito da Ponte alle Grazie.

Sara Maitland

Il libro del silenzio

tr.it. (2008), Cairo Editore, Milano 2009
[http://www.cairoeditore.it/]

Inizia così: “E’ mattino presto. Una mattina straordinariamente radiosa e, cosa insolita quassù, non c’è praticamente vento. Il silenzio è quasi assoluto”.
Il libro mette in luce quanto si abbia timore del silenzio. Quanto in molti casi ci angoscia e si faccia di tutto per rifuggirlo. Ma in tal modo neghiamo il valore della solitudine nello sviluppo umano sano; il nostro diritto alla autonomia e libertà personale. Tendiamo a colmare di suoni e rumori anche questi rari momenti ormai nei quali non siamo tra una folla anonima o tra persone a noi note.
Sara ci narra che allora un bel giorno fugge trova rifugio in un paesaggio selvaggio della Scozia; in un cottage trova finalmente la quiete e la concentrazione che cercava. Impara di nuovo ad ascoltare suoni, a vedere con pacatezza quanto la circonda, ma soprattutto è la scrittura che le fa compagnia. Lo stress si allontana, si accorge di diventare più riflessiva giorno dopo giorno. Il lavoro in giardino la mette in contatto con energie prima sconosciute e si incontra con lo spazio interiore che si va riempiendo di pensieri, emozioni scoperte ben più di quanto non le accadesse nel caos della metropoli. Scopre anche i benefici del pensiero filosofico, vi si dedica come se fosse tornata adolescente. E in questo suo maturare interiore scopre che la sua forza le consentirà di tornare e di trasferire il silenzio meditativo dentro di sé, in circostanze anche frastornanti.

Richard Mabey

Natura come cura

Un viaggio fuori dalla depressione
Einaudi, Torino 2010
[www.einaudi.it]

Queste le prime parole: “E’ una bella giornata di ottobre. Sono fermo sulla soglia di casa e sembro un adolescente impacciato: per la prima volta in vita mia sto traslocando: oggi faccio fagotto e me ne scappo nelle piatte terre dell’East Anglia…”
Richard Mabey è un botanico inglese già famoso, senza apparenti ragioni cade in depressione, si isola, sente su di sé una stanchezza spossante che gli impedisce, provandone nausea, di fare qualunque cosa. Anche di occuparsi della natura cui ha dedicato tutta la vita. Dentro di lui c’è solo uno smisurato senso di smarrimento, senza motivi. Sceglie di isolarsi nella campagna del Norfolk. Parte all’improvviso con poche cose essenziali. Giorno dopo giorno confrontandosi con le necessità di sopravvivenza non comunque impossibili da affrontare scopre che può farcela; si riprende e leggiamo di questo rito di passaggio in età adulta descritto con grande suggestione e passione. Con la attenzione scrupolosa  tipica dello scienziato. Torna a quello che era, gli altri non lo infastidiscono più, riprende il contatto con la scrittura in forme autobiografiche e si accorge che lo stare in mezzo alla natura è stata la sua medicina, un balsamo il rapporto fisico con animali, fiori, campi e vento.

Pierre Sansot

Sul buon uso della lentezza

Il ritmo giusto della vita
Net, Milano 2003
[]

“Io ho scelto – questo l’inizio del libro – a stare dalla parte della lentezza. Amavo troppo i meandri del Lot, un fiumiciattolo pigro, e la luce di settembre si attarda sugli ultimi frutti dell’estate e declina impercettibilmente… mi sono ripromesso di vivere lentamente, religiosamente, attentamente, tutte le stagioni e le età della vita”.
L’Autore è professore di Filosofia a Grenoble, si guarda intorno e non fa che osservare frenesia, fretta eccessiva, velocità in ogni attività umana: la tecnologia invece di indurre un rallentamento dei ritmi, grazie ai suoi indubbi vantaggi pratici, viceversa accresce ancor di più i ritmi della vita quotidiana. Si lavora male, si ama di meno, si sprecano ore che potrebbero essere dedicate ad altro, senza la ricorsa al superfluo e al superficiale. Si dedica così  alla rilettura dei filosofi dell’antichità che più si sono dedicati alle arti del vivere (alle Technai tou bios) e riscopre che anche centinaia di anni fa alcuni consigli valgono per il momento presente: rallentare, fare più attenzione, imparare a non fare nulla, resistere alla velocità, imparare a passeggiare; a sognare ancora; ad assaporare il presente prolungandone gli istanti e gli incanti imprevisti. Rinobilita quindi la lentezza, reimpara ad ascoltare gli altri a toccarli con affetto, ad aspettare il sorgere del sole.

Sonia Scarpante

Non avere paura

Conoscersi per curarsi
Edizioni San Paolo, Milano 2010
[http://www.paolinitalia.it/libri/default.asp]

“Sono seduta come sempre dietro questa mia scrivania – questa è la prefazione di Sonia – e la scrittura mi chiede oggi una maggiore trasparenza, perché il tempo ha costruito, per me, un percorso nuovo e ricco … Mi chiede di essere ardita come solo la scrittura sa rendermi, quando non le volto le spalle”.
Si tratta di una testimonianza autobiografica di malattia grave, oncologica. Sonia si sottopone alle cure e, al contempo, scopre quanto scrivere l’aiuti nel corpo oltre che a contenere il dolore non solo fisico. Dinanzi alla messa in crisi del suo ruolo di madre, di donna. Scrivere le consente di risalire la china, di contrastare lo scoramento psicologico e scopre di aver un talento poetico che prima non era emerso. Scrive, oltre alla sua storia, e non solo di paziente, poesie e racconti. Si accorge del sollievo e dell’aumento di autostima che la penna le procura. Questo è anche un libro sul tempo: sulla pazienza, sull’attesa, sullo stupore ritrovato per l’esistenza di cui Sonia si accorge di essere ancora avida. Lavora però su di sé non da sola; con altre donne fa nascere un’associazione che si occupa di auto narrazione e di mettere in scena i racconti. Il fare comunità tra eguali, con il fine di raccontare che è possibile non avere paura del cancro, diventa quindi scopo solidale e nuova ragione d’essere, sia in una solitudine non più  dolorosa, sia insieme in una gioia ritrovata.

Adriano Sansa

La speranza del testimone

Il Melangolo, Genova 2010
[www.ilmelangolo.com]

Si tratta di un piccolo libro di poesie: la prima ha questo incipit:

“Il vento dell’ inverno strappa foglie
All’albero più amico al dolce fico

Che mi cresce in terrazza. Tu mi lasci

Per gettarti nel freddo di dicembre,
cerchi riparo tra luci e negozi

Sì, per ora
resistiamo alle raffiche. Si ignora
chi sarà il ramo, di noi, e chi la foglia”

Adriano Sansa è un uomo del diritto e impegnato in politica. E’ stato sindaco di Genova, riuscendo a mantenersi fedele alla sua altra passione, la poesia. Quasi ininterrottamente, parallelamente al suo impegno civile, ha scritto diverse raccolte (fra cui: Vigilia, del 1967; La casa a Sant’Ilario, 1977, fino al testo precedente a questo ora presentato Il dono dell’inquietudine, del 2003). Ancora una volta la scrittura è riuscita ad evitare che si debba sprofondare ineluttabilmente nelle frenesie del proprio lavoro. Sansa è la dimostrazione vivente che si può essere l’uno e l’altro: l’uomo d’azione e l’uomo della contemplazione, della meditazione lirica. Le sue liriche sono dialoghi col passato, con il tempo che passa e si rinnova attraverso altre presenze e voci, quanto l’irreversibilità del tempo, la malinconia di questa constatazione, ci sgomenta. Ma anche soprattutto con l’inquietudine come condizione esistenziale preziosa quando non si voglia rinunciare alla parte migliore di sé: il dubbio, la critica, la mancanza accettata di sicurezze. Il poeta è abitato da un’ambivalenza che gli è indispensabile, da un’altra possibilità di autocura. Rinverdita da evocazioni d’amore, da immagini della giovinezza, dalla presenza vivificante del mare. Ancora una volta dal connubio tra natura e mente che la muta in letteratura.

Duccio Demetrio

L’interiorità maschile > Riflessione di Paolo Ferrario

Le solitudini degli uomini
Raffaello Cortina, Milano 2010
pagg. 280, € 14,50 [www.raffaellocortina.it]

La scrittura di Duccio Demetrio è “eccentrica”, nel senso che parte dal bordo delle onde determinate dal sasso gettato nello stagno e procede per gradazioni e continui riverberi a una serie di centri. Il suo è un linguaggio per certi versi affabulatorio, e anche piuttosto seduttivo, che arriva ai punti nodali attraverso processi leggeri di avvicinamento che partono dall’esterno.
Qui si parla ancora di “maschile” in rapporto al “femminile”. Sappiamo che è un tema che ha una storia lunga, se la riferiamo a quella dell’umanità, ma recente se la riferiamo ai vissuti di tutti noi che siamo viventi del mondo contemporaneo, e in particolare dalla seconda metà del ‘900.
Distinguo in questa storia una serie di fasi. La prima è quella collettiva, “estroversa” e movimentista del femminismo, anche con le sue ineluttabili traduzioni estremistiche, degli anni ‘70. C’è poi una fase “reattiva”, nella quale alcune psicologie (in Italia Claudio Risè) ripropongono un ritorno del maschile e ai suoi valori psichici, sia pure ridefiniti nel nuovo quadro culturale. Parte di questa ricerca proveniva da un letterato  americano (Robert Bly) che parlava della necessità umana di “recuperare le nostre zone d’Ombra”. C’è ora una fase riflessiva e “introversa” a cui questo libro fornisce  un contributo piuttosto importante e di solide fondamenta.

Tre fasi quindi, tre momenti di accentuazione delle problematiche che si dipanano attorno allo sviluppo del maschile  e del femminile e quindi, inevitabilmente,  anche dei rapporti intersoggettivi tra queste due dimensioni dell’esistere. Dentro questa storia ciascuno estrae gli oggetti che più hanno influenzato la propria esperienza. La lettura di questo libro mi ha fatto andare allo scaffale della memoria per mettere di nuovo sotto la lampada un testo che è cruciale sia per la mia biografia che per i miei studi. Si tratta di La donna e la sua ombra, maschile e femminile nella donna d’oggi (1980) di Silvia Di Lorenzo, una grande psicanalista italiana. Da questo libro estraggo due citazioni di estrema attualità anche rispetto alla ricerca di Demetrio:
Mi pare che il principale conflitto della donna di oggi consista nella sua esigenza di realizzare il proprio maschile interiore senza per questo perdere o svalutare il femminile nella sua vita cosciente” (p. 13).
E poche righe dopo aggiunge:
Il maschile e il femminile sono, da sempre, le due polarità dialettiche essenziali della vita sia all’esterno nel rapporto tra uomo e donna dalla cui fecondità dipende la conservazione della specie, che all’interno come tensione dinamica tra gli opposti, il Logos e l’Eros che determina lo sviluppo trasformativo della personalità attraverso la nascita di una sintesi nuova”.
A me questi due passaggi sembrano piuttosto cruciali e di significato durevole. Quando la De Lorenzo parla del conflitto della donna si potrebbe dire in modo speculare, come in uno specchio, che “il principale conflitto dell’uomo di oggi consiste nel realizzare il proprio femminile interiore senza per questo perdere o svalutare il maschile della sua vita cosciente”.
Mi sembra ci sia una simmetria tra la storia delle donne che in questi ultimi quaranta anni hanno sviluppato una propria strada sociale e psicologica talvolta a detrimento della propria funzione femminile, diventando in alcune professioni persone che si comportano “come uomini” nelle relazioni pubbliche, e quella degli uomini che sono diventati incerti e “morbidi” perdendo alcuni tratti di carattere maschili indispensabili anche per “stare bene” nella vita familiare e sociale.
Il percorso da fare sta, forse, nella sintesi interpersonale tra queste due visioni: stare nel mondo con stili psicologici derivanti dalla elaborazione culturale dei due generi. E questo lo si fa costruendo giorno per giorno la relazione, facendola diventare sempre di più intersoggettiva.

Ma quale è il contributo originale e fecondo che Demetrio suggerisce per queste situazioni problematiche?
Il suo sguardo è quello di chi propone il compito di educare se stessi in tutte le fasi del ciclo di vita. Ed è piuttosto interessante il fatto che usa la stessa parola-chiave che Silvia De Lorenzo utilizzava nel 1980: “interiorità”.
Questo è il concetto che sta al centro della sua riflessione e viene riproposto in moltissimi modi e con diverse strategie argomentative e testuali. Un esempio:
Interiorità è pensare, custodire intimità è avere una memoria alla quale poniamo domande, è tutto quanto non può sfuggire alla coscienza” (p. 15).
Qui l’interiorità viene connotata come capacità di guardarsi dentro e valorizzare il proprio ricordo, ossia il proprio tempo di essere vivente.
In un altro punto il tema dell’interiorità è raccontato in questo modo:
è l’infinito dentro di noi e per andare verso l’infinito si deve avere il mondo dentro di sé. Bisogna essere fatti di mondo per poter ispezionare con qualche successo e speranza il mondo” (p. 55/56).
E queste parole Demetrio le dice in modo corale con il filosofo Giovanni Reale. Qui la prospettiva è quella di elaborare una interiorità che unisca la finitezza e l’infinito.

Un altro elemento estremamente interessante e coinvolgente di questo libro è il percorso analitico attraverso cui arriva a costellare il tema dell’educarsi alla interiorità. Mi riferisco alla parte in cui vengono esposte al lettore immagini pittoriche corredate da testi letterari e elaborazioni sotto traccia dello stesso Demetrio:  sono bambini, adolescenti, uomini adulti. Percorriamo qui una varietà di profili biografici: l’indocile, un bambino che si ribella all’educazione, il predestinato, l’innocente, la sentinella, lo scriba, il sognatore, il poeta dal colletto bianco, l’eremita, il pilota di alianti, il canonico libertino, il padre taciturno, il seduttore svogliato, il mendicante, lo schiavo d’amore, l’invitto. Sono figure rappresentative di modi di essere che per Demetrio diventano tipi di persone attraverso cui meditare e rafforzare con prove il suo ragionamento sul processo di coltivazione della propria interiorità. E la stessa operazione analitica viene effettuata con alcuni miti greci particolarmente pertinenti  per la sua proposta: Perseo, Orfeo, Chirone sono figure mitologiche rappresentative di modi diversi attraverso cui l’uomo perviene a curare, coltivare, elaborare una propria interiorità. Rappresentazioni pittoriche e personaggi mitici vanno a comporre sottili e raffinate tipologie umane e riverberano attorno a loro suggestioni e significati che portano Demetrio a sostenere con passione esistenziale la proposta educativa di concentrarsi sul tema dello sviluppo dell’interiorità come compito dell’uomo di oggi.

Un elemento che mi sembra interessante sottolineare è che questa elaborazione Demetrio la sta facendo da più di 10 anni. Basta scorrere alcuni titoli dei suoi libri: L’educazione interiore del 2000, ancora prima L’elogio dell’immaturità del1998, La filosofia del camminare del 2005; La vita schiva del 2007; L’ascetismo metropolitano del 2009. Può non colpire in un autore così prolifico questa coincidenza temporale? La collego al fatto che essendo tra l’altro noi quasi della stessa generazione, siamo entrambi entrati in quella fase che chiamo della prevecchiaia, ossia quella in cui si ha la possibilità di guardarsi indietro e si ha anche uno sguardo sul nostro presente più pacato, più sopito, più meticoloso nel vedere le zone inespresse della personalità, nell’autocriticare alcuni comportamenti in modo leggero.
Trovo estremamente densa di potenzialità la prospettiva di guardarsi dentro per ritrovare tracce rimosse e continuare a crescere sotto il profilo psicologico e formativo.

L’altro elemento rilevante di questa ricerca è la distinzione che Demetrio fa tra il “maschio” e l’”uomo”: in questo scarto fra le due configurazioni esistenziali c’è un compito evolutivo da percorrere. Il maschio deve farsi uomo attraverso un percorso di interiorità, cioè di introversione, come direbbe Carl Gustav Jung: la strada è quella di un ritorno dentro di sé, pur senza perdere il contatto con il mondo esterno.
Gli attributi caratteriali del maschio sono così rappresentati:
“maschi che si uccidono fra di loro, maschi che si misurano in base alla forza e alla debolezza, maschi che abbandonano chi un istante prima idolatravano, maschi che si vantano di imprese cruente, maschi che rinascono dalle proprie ceneri già in armi, maschi che usano il bene comune delle libertà per asservire e concedersi licenze, maschi che non possono stare senza sconfitti, vittime e clientele, maschi che non sanno cosa sia il senso di colpa”
(p.26) e così via tutta una serie di aspetti , connotazioni negative degli attributi del maschile.
Viceversa il percorso verso la vita interiore, il passaggio dal maschio all’uomo è così rappresentato:
Uomini che salgono e scendono le scale più impervie contandone i gradini in silenzio, uomini che a testa alta pongono a se stessi domande sensate, uomini che non cessano di riprodursi ogni volta in controcorrente, uomini che conoscono il sapore della libertà come segreta ricchezza, uomini che vogliono essere soli per sentirsi maschi diversi, uomini che non sono tentati dall’istinto di opprimere chicchessia” (p. 45/46).
Questi in sintesi mi sembrano essere i valori di questo libro: un forte punto di vista che parte dal paradigma educativo, cioè quello attraverso cui la persona modifica se stessa attraverso processi di apprendimento. Trovo che il paradigma educativo sia molto tangenziale con quello psicologico però occorre riconoscere che in quello educativo è molto presente un lavoro di apprendimento. Ed è per questi motivi che Demetrio propone alla fine del testo una serie di “esercizi autoeducativi” orientati alla ricerca di una propria personalissima “centratura” interiore per trovare le strade più adatte a definire meglio il proprio profilo esistenziale di essere uomini dentro questa modernità che ci mette al confronto con il mondo psicologico e relazionale delle donne.
I percorsi suggeriti sono questi. Avvicinarsi al linguaggio poetico, facendosi  coinvolgere dalla musicalità delle parola e lasciandosi andare alla poesia come linguaggio autonomo capace esso stesso, attraverso la sola forza delle immagini, di creare nuovi effetti di senso, nuovi significati.
Il secondo esercizio consiste in un lavorio di autocoscienza alla vita interiore dedicandosi agli interrogativi che costellano i dilemmi dell’esistere, la morale, la consapevolezza delle proprie azioni e le relative conseguenze. Il suggerimento è quello di usare il silenzio assieme al piacere della conversazione intersoggettiva.
Giova a questa azione autoeducante praticare i gesti del camminare all’aria aperta (e questo è il terzo esercizio), ma con un taccuino ed una matita. La proposta è chiara e concreta: scrivere un diario, raccontarsi senza avere paura di raccontarsi.
Sono suggerimenti che vengono da lontano. Vengono dalla riattualizzazione matura di quando eravamo bambini sognanti e desiderosi di crescere.

da: Duccio Demetrio « Connecting Cultures – Associazione Culturale per la formazione, la ricerca e le arti visive – Via Giorgio Merula, 62 20142 Milano.

Il Sommario del Parmenide di Platone, da Il Blog di P.Severino

Cefalo racconta come, in compagnia di altri filosofi di Clazomene, incontrasse una volta in Atene Adimanto e Glaucone e come chiedesse loro di accompagnarlo da Antifonte, per farsi raccontare la discussione tra Socrate, Parmenide e Zenone, che Antifonte stesso aveva appreso dalle parole di Pitodoro.

Racconto di Antifonte:

in occasione delle Grandi Panatenee, Parmenide già vecchio, e Zenone sulla quarantina, erano venuti ad Atene. In casa di Pitodoro Zenone, alla presenza di molti, tra cui anche Socrate -allora molto giovane- legge il suo libro. (I 126a-127d).
Al termine Socrate si fa rileggere da Zenone la prima ipotesi del suo libro: se le cose sono molte esse sono nello stesso tempo simili e dissimili, il che è assurdo. Socrate nota una consonanza tra le tesi di Parmenide e di Zenone, che questi -con alcune rettifiche- conferma (II 127d-128e).
Obbiezione di Socrate: l’antinomia di Zenone è risolubile mediante la dottrina delle idee e della partecipazione ad essa delle cose; sarebbe invece insolubile se si dimostrasse che la stessa idea del simile è dissimile e quella del dissimile simile (III 128e-130a). Obbiezione generale di Parmenide: esistono veramente idee per ciascuna delle cose sensibili? Per alcune Socrate è certo che esistono, per altre è dubbioso, per altre è certo che non esistano (IV 130a-e).
– Prima difficoltà della dottrina della partecipazione delle cose alle idee: la cosa partecipa di tutta l’idea o di una sua parte? Assurdità di entrambe le ipotesi.
– Seconda difficoltà: il cosiddetto «argomento del terzo uomo» (V 130e-132b).
– Terza difficoltà: le idee non possono essere intese come pensieri.
– Quarta difficoltà: le idee non possono essere intese come modelli.
– Quinta e maggiore difficoltà: le idee e le cose sarebbero su due piani paralleli e fra loro non comunicanti (VI 132b-134a). Le idee sarebbero pertanto del tutto inconoscibili per l’uomo e le cose sensibili sarebbero del tutto inconiscibili per le divinità. Assurdità di queste conclusioni; non meno assurda è però la tesi di chi volesse negare le idee (VII 134a-135c).
Necessità di una rigorosa analisi dialettica, condotta secono il metodo per ipotesi: fatta, cioè, una ipotesi, vedere non soltanto le conseguenze che derivano dalla sua affermazione, ma anche quelle che derivano dalla sua affermazione, ma anche quelle che derivano dalla sua negazione, sia rispetto a se stessa sia rispetto a se stessa sia rispetto gli altri elementi della realtà, presi per sé e presi in relazione fra di loro. Parmenide è invitato a fornire una prova (VIII 135c-136e).
Preliminari a questa prova (IX 135e-137c).
– Prima ipotesi: «se l’uno è uno». Se l’uno è uno, esso non avrà né principio, né mezzo, né fine; esso sarà senza figura; esso sarà senza figura; esso non sarà in nessun luogo (X 137c-138b). Se l’uso è uno, esso non si muove né modificandosi né spostandosi; e neppure sta fermo; se l’uno è uno, esso non è identico né a se stesso né ad altri; e neppure diverso da se stesso o da altro; se l’uno è uno, esso non è simile né dissimile, né rispetto a se stesso né rispetto ad altro; se l’uno è uno, esso non è uguale né disuguale , né a se stesso né ad altro; e neppure più grande o più piccolo (XI 138b-140d). Se l’uno è uno, esso non può essere più vecchio né più giovane né coetaneo di se stesso o di altro, Esso non partecipa perciò del tempo e non potendosi dire che esso «è» o «sarà» o «era», di esso non si potrà dare né nome né ragione, né sarà possibile averne opinione o scienza: conclusione del tutto negativa (XII 140d-142a).
– Seconda ipotesi:«se l’uno è». Se l’uno è, esso partecipa dell’essere ed è pertanto un tutto ed ha parti (l’uno e ciò che è): dualità all’infinito dell’«uno che è». Da questa dualità può essere dedotta tutta la serie numerica (XIII 142b-144a). Se l’uno è, esso è molteplice, non solo rispetto alle cose che ne partecipano, ma anche rispetto a se stesso (XIV 144b-e). Se l’uno è, esso è uno e molti, tutto e parti, limitato, finito; esso avrà pertanto principio, mezzo e fine; avrà anche figura; sarà sia in se stesso che in altro da sé; si muoverà e starà fermo; sarà identico e diverso, sia rispetto a se stesso, sia rispetto ad altro (XV 144e-145d). Oltre che identico è diverso, esso sarà anche simile e dissimile sia rispetto a se stesso sia rispetto alle altre cose (XVI 146d-148a). Esso sarà inoltre in contatto e distacco da sé e da altro (XVII 148a-149d). Esso, ancora, sarò eguale e diseguale, sia rispetto a se stesso sia rispetto alle altre cose (XVIII 149d-151e). Esso, infine, parteciperà del tempo e sarà più vecchio, più giovani e coetaneo, sia rispetto a se stesso sia rispetto a se stesso sia rispetto ad altro (XIX 151e-153b). Continua la dimostrazione di questo punto. Conclusione del tutto positiva: se l’uno è, di esso si potrà dare nome e ragione e sarà possibile averne opinione e scienza (XX 153b-155e).
– Terza ipotesi: «se l’uno è e non è». Analisi del problema del cambiamento e del divenire: natura «dell’istante» (XXI 155e-157b).
– Quarta ipotesi: «se l’uno è, cosa ne consegue per le altre cose?». Se le altre cose partecipano dell’uno che è (della seconda ipotesi), esse parteciperanno anche di tutte le altre determinazione che nella seconda ipotesi si sono viste spettare all’uno (XXIII 159a-160b).
– Sesta ipotesi: «se l’uno non è». In questo caso il non essere è solo relativo (non è qualcosa) ed esso quindi non esclude una molteplicità di partecipazioni. Esso è dissimile rispetto alle altre cose, ma simile a se stesso; partecipa dell’essere, del movimento, della stasi e del divenire (XXIV 160b-163b).
– Settima ipotesi: «se l’uno non è». In questo caso il non essere è assoluto, e allora esso non avrà alcuna determinazione; su di esso non sarà possibile alcun discorso né se ne potrà avere opinione o scienza (XXV 163b-164b).
– Ottava ipotesi: «se l’uno non è, cosa ne consegue per le altre cose?». Se le altre cose non partecipano dell’uno, la cui realtà è negata, ad esse spetteranno solo apparentemente tutte quelle determinazioni che spettano all’uno che è. Contraddittorietà della molteplicità pura (XXVI 164b-165d).
– Nona ipotesi: «se l’uno non è, cosa ne consegue per le altre cose?». Se le altre cose partecipano dell’uno, la cui realtà è negata, la conclusione è radicalmente negativa.
– Conclusione generale: sia che l’uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri rispetto a se stessi e reciprocamente tra loro, sono tutto e non lo sono (XXVII 165d-166c).

riportato integralmente  da: Il Sommario del Parmenide di Platone « Il Blog di P.Severino.

BUCCI Francesco prefazione di Luca Mastrantonio, Umberto GALIMBERTI e la mistificazione intellettuale. Teoria e pratica di “copia e incolla” filosofico. Un clamoroso caso di clonazione libraria, Coniglio editore, Roma 2011

Destino, in Emanuele Severino La follia dell’angelo

Nei miei scritti ‘destino’ significa ciò che sta (de-stino) già da sempre manifesto, e nella cui luce già da sempre l’uomo si trova. Il destino si mantiene libero dalla dominazione dell’Occidente.[…]

Il destino vede che ogni essente è ed è impossibile che non sia. Vede che ogni essente è eterno: ogni istante e il contenuto determinato di ogni istante, ogni cosa, situazione, aspetto, forma, sfumatura, relazione, sostanza, ogni materia e ogni pensiero, ogni gesto, ogni verità e ogni errore, e la stessa Follia estrema dell’Occidente, ogni gioia e dolore, e la presenza stessa, l’apparire, il manifestarsi di tutti gli essenti. Ogni essente è eterno: non come è eterno Dio, rispetto alla non eternità delle cose divenienti del mondo; e nemmeno come è eterna la potenza della verità assoluta che domina il divenire delle cose.

L’eterno non è la potenza sovrastante del padrone; perché tutto è eterno. Non vi sono servi; non c’è nemmeno un padrone.

Il destino vede infatti che pensare che l’essente esce e ritorna nel niente, significa pensare che l’essente è niente. Il destino pensa l’impossibilità che l’essente sia niente. Questo stesso pensiero, che pensa l’eternità di tutte le cose, è eterno. Circonda la storia della Follia dell’Occidente e dei mortali, come il cielo circonda tutti coloro che non lo guardano. Nella nostra essenza più profonda noi siamo il cielo.

(da La Follia dell’Angelo, pp. 85-86, Rizzoli

viaE. Severino.

Emanuele Severino, Le grandi forme di pensiero dell’Occidente sospendono l’uomo sull’abisso del nulla

Le grandi forme di pensiero dell’Occidente sospendono l’uomo sull’abisso del nulla e poi tentano di convincerlo che gli è consentito essere in qualche modo felice. Spingono la morte appena un passo più in là, appena dietro la porta, e mentre se ne sente il respiro terribile vogliono convincere che si ha a che fare con la vita. Anche le scienze psicologiche credono, come i pazienti da esse curati, che da ultimo, ad attendere l’uomo, non vi sia che il nulla da cui l’uomo proviene. Stando anch’esse su questo fondamento disperato vogliono guarire l’uomo dalla disperazione — dall’angoscia, dalle anomalie psichiche. Anche le terapie psicologiche tentano di spingere sullo sfondo lo spettacolo terribile del nulla e di trattenere lo sguardo di chi si angoscia all’interno dello spazio breve, dove si può credere di incontrare il successo, la vita, il benessere, la felicità.
In Emanuele Severino, La legna e la cenere, Rizzoli, 2000, p. 68/69

Essere

Essere

L’essere è l’esistere delle cose.

Attorno al concetto la filosofia ha sviluppato diversi modi di considerare l’essere e le sue qualità: in Parmenide l’essere acquisisce per dimostrazione logica le qualità di esistenza immutabile ed eterna, Platone distingue l’essere eterno (le idee dell’Iperuranio) dall’essere terreno non eterno, Aristotele considera l’essere come ente (l’essere che si esprime nelle singole cose determinate in un certo modo). Nel medioevo l’essere per eccellenza è Dio, unico ente dotato di qualità particolari che lo rendono eterno e assoluto.

In epoca contemporanea sono importanti i contributi di Martin Heidegger e di Emanuele Severino. Le discussioni attorno al reale significato dell’essere hanno quindi il compito di determinare con precisione le qualità proprie dell’esistere delle cose (il loro essere presenti), per cui rivestono un’importanza decisiva nella ricerca del senso profondo dell’esistenza. La scienza che studia l’essere prende il nome di ontologia.

da: Piccolo dizionario filosofico.

hýbris

«L’antico popolo greco chiama hýbris la prevaricazione. Essa è già presente prima ancora che l’uomo voglia volare. Nell’antica cultura greca la hýbris originaria è il furto del fuoco che Prometeo sottrae agli dei per darlo ai mortali. Egli dice di aver dato agli uomini tutte letéchnai – tutte le forme di tecnica – per spingere la morte il più lontano possibile da essi. Nel racconto veterotestamentario Adamo e la sua compagna danno ascolto al serpente: se mangeranno il frutto proibito, diventeranno “come dèi” (eritis sicut dii), si lasceranno indietro nel modo più radicale la loro natura umana, i limiti a cui essa li costringe e soprattutto il pericolo della morte. Riusciranno a compiere il grande volo alla conquista di Dio.» (1)

Hýbris è uscire da un sentiero, uscire dal sentiero della “natura”. «Lungo la storia dell’uomo la determinazione più circostanziata di ciò che non è “natura” umana è data dai codici religiosi. In essi viene indicato l’Ordinamento all’interno del quale l’uomo deve vivere. Essi scendono, pur non fermandovisi, fino ai dettagli minimi delle regole che presiedono l’alimentazione l’igiene, il vestire, l’abitare.
L’Ordinamento inviolabile è la natura.»

da: La filosofia di Emanuele Severino.

divenire

Il divenireil divenire è il mutamento delle cose, ovvero il loro passare da uno stato all’altro. Nel suo significato più ampio si riferisce al continuo generarsi e degradarsi delle cose.

Secondo Emanuele Severino, il divenire così come è inteso dai greci nel suo senso più radicale, è la credenza che un ente (una cosa dotata di esistenza) provenga dal nulla (nasca) e ritorni nel nulla (muoia).

Si veda anche la scheda di Eraclito.

da: Prologo – L’orizzonte originario della filosofia greca.